L’unica altra opera conosciuta che cita le imprese di Egeria è la “Lettera scritta in lode della beatissima Egeria, indirizzata da Valerio ai fratelli monaci del Bierzo”, che, fin da quando fu segnalata da un articolo di Dom Marius Ferotin[1], è divenuta un documento indispensabile per comprendere e posizionare il racconto di viaggio di Egeria.
Valerio era un asceta nato agli inizi del VII secolo nei pressi di Astorga, città della provincia romana della Galizia. Verso i 25 anni si ritirò nel monastero di Compludum, nella regione del Bierzo, situata in una zona montagnosa[2] fra le attuali regioni spagnole della Galizia e del Leon. Intorno al 680 egli scrisse la lettera in questione come parte di una serie di orazioni intese a contribuire alla formazione ascetica e spirituale dei monaci del convento.
La ragione per cui scelse, fra i tanti, proprio questo argomento sta molto probabilmente nel fatto che, stando ad un cenno della lettera stessa, Egeria proveniva proprio dalla Galizia, e doveva quindi essere considerata alla stregua di una eroina nazionale. Ed infatti l’intento della lettera è quello di celebrare l’eroismo della pellegrina, che non si fermò di fronte a nessuna difficoltà pur di soddisfare il suo desiderio di visitare i luoghi santi; intento dichiarato fin dall’inizio della lettera: “Se diamo rilievo alle azioni virtuose di uomini fortissimi e santi, ancora più cattura la nostra ammirazione la fermissima efficacia della stessa virtù quando è propria della fragilità femminile, come racconta la storia meravigliosa della beatissima Egeria, superiore in coraggio a tutti gli uomini del suo tempo”.
Perciò egli si sofferma con particolare compiacimento nella elencazione delle montagne scalate dalla pellegrina e dei suoi viaggi in lande desolate e pericolose. In tal modo fornisce una serie di informazioni preziose sull’itinerario di Egeria, che mancano nel manoscritto aretino, e che si sono dimostrate determinanti per stabilire l’identità della pellegrina e completare l’elenco delle località visitate. Valerio, infatti, aveva certamente letto un testo più ampio, forse completo, del diario di Egeria, che non poteva mancare in un convento della terra natia della nostra eroina.
Il diario di Egeria appare essere un “collage” di spezzoni di viaggio estratti dall’originale. Il problema, a questo punto, è stabilire se la visita al monte e il ritorno in Egitto lungo il golfo di Suez, sulle tracce degli ebrei dell’Esodo (cap.7,1), sono due fasi di uno stesso viaggio o piuttosto due viaggi indipendenti completamente separati.
Che il viaggio da Feiran all’Egitto costituisca un episodio separato dalla visita al monte di Dio, addirittura antecedente ad essa, sembrerebbe suggerito dalla lettera stessa di Valerio del Bierzo, dove afferma che Egeria per prima cosa si recò a visitare i monaci della Tebaide, in Egitto e “da lì, fortificata dalle benedizioni di quei santi e rinforzata dal dolce alimento della carità, si recò in tutte le province dell’Egitto e vi cercò con estrema attenzione tutte le tappe dell’antica peregrinazione del popolo di Israele...” (cap. 1). Soltanto in seguito, con un viaggio separato e programmato ad hoc, “infiammata dal desiderio di vedere la santa montagna del Signore” (cap. 2), Egeria si recò in pellegrinaggio al monte Sinai.
Quasi certamente Valerio del Bierzo conosceva una versione del manoscritto di Egeria più completa di quello aretino, ma in ogni caso con la stessa struttura, e cioè un collage di viaggi separati. Questo lo si deduce dal fatto che nella sua lettera egli accenna solo di sfuggita al soggiorno di Egeria a Gerusalemme, mentre si dilunga sui suoi viaggi al contorno; inoltre scrive che il monte da cui Mosè assistette alla battaglia contro gli amalechiti sovrastava Faran, il che equivale a identificare quest’ultima con Feiran.
A quell’epoca il Sinai era stato univocamente identificato con il Santa Caterina già da almeno un secolo e mezzo e quindi le conoscenze di Valerio in merito all’ambientazione del monte non dovevano differire molto da quelle di Pietro Diacono. Egli doveva avere a disposizione un testo già con la stessa struttura di quello attuale, anche se più completo, compilato quindi da un copista del suo stesso convento (o magari da lui stesso), nella seconda metà del settimo secolo, alcuni secoli prima del copista beneventino.
Con queste ultime considerazioni possiamo tentare di creare uno scenario verosimile in cui collocare l’origine del manoscritto rinvenuto ad Arezzo, in grado di spiegarne tutte le peculiarità. Egeria aveva visitato un monte che con tutta evidenza non poteva essere il Santa Caterina e aveva inviato (o portato personalmente) il diario di quel viaggio nella sua patria di origine, la Galizia.
Copia dell’originale, se non proprio l’originale stesso, era certamente entrata in possesso del maggiore monastero della regione, quello del Bierzo, dove l’autrice doveva essere considerata una sorta di eroina nazionale. Come era prassi corrente allora, i monaci dovettero produrre copie del manoscritto da scambiare con altri monasteri.
Sennonché c’era un problema molto serio. Dal sesto secolo in poi aveva cominciato a consolidarsi nel mondo cristiano la convinzione che il monte Sinai fosse situato nel Santa Caterina e i resoconti dei pellegrini erano piuttosto precisi in merito all’itinerario da seguire, anche se vaghi nella descrizione del luogo in se stesso. Itinerario che non corrispondeva affatto con quello descritto da Egeria, che in tal modo rischiava di venire considerata una millantatrice, per nulla attendibile.
Qualcuno dovette avere l’idea di salvare la reputazione della propria eroina, rimaneggiando il suo scritto e inserendo la visita al monte nel contesto di un viaggio in Egitto, durante il quale Egeria aveva seguito le tracce dell’Esodo, spingendosi fino a Feiran. Occasione perfetta per il copista, il quale, sapendo che quell’oasi era un punto obbligato di passaggio per chi si recava a quello che già allora veniva ritenuto con certezza il monte di Dio, la identificò con la Faran di Egeria, facendone il punto di partenza e di arrivo della visita al monte.
Il testo dovette essere distribuito ad altri monasteri in questa forma. Qualche secolo dopo, il copista di Montecassino dovette apportare qualche altra piccola modifica al manoscritto, per renderlo ancora più coerente. Fu lui, probabilmente, buon conoscitore del latino classico, ad inserire nel testo la frase peruenissemus Faram quod sunt a monte Dei milia triginta et quinque , oltre alla nota fuori testo di cui si è detto.
Tutto bene, fino a che il manoscritto finì nelle mani di Pietro Diacono, che disponeva anche di altre fonti, come quella del venerabile Beda, che egli riteneva del tutto attendibili. Pietro Diacono non era mai stato in Palestina, per cui le sue conoscenze sull’argomento derivavano esclusivamente dalle fonti letterarie, che dovette studiare con grande attenzione, accorgendosi che il diario di Egeria era molto suggestivo, ma presentava in alcune sue parti delle incongruenze non compatibili con le altre fonti, soprattutto per quanto riguardava la localizzazione del luogo della battaglia contro Amalek, Refidim, che lui, evidentemente, identificava con Feiran. E fu così che il quaternione iniziale del manoscritto, dedicato in parte alla visita di questo sito, dovette essere stralciato, sempre nell’intento di salvaguardare l’attendibilità di quella fonte preziosa.
Le altre pagine finali e quelle intermedie potrebbero essere state stralciate per una ragione analoga, e cioè per una qualche incongruenza con informazioni ben consolidate all’epoca di Pietro Diacono, probabilmente attinenti alle sante reliquie di Gerusalemme e a colei che veniva indicata come loro scopritrice, Sant’Elena.