Vengono qui brevemente presentati i risultati di venti anni di ricerche effettuate da Flavio Barbiero e suo fratello Claudio in Israele. La località precisa è Har Karkom, nel deserto del Negev, un’area dove il Prof. Emmanuel Anati possiede una concessione archeologica fin dal 1980. Sulla base di oltre 1200 siti archeologici Anati sostiene che Har Karkom si identifica con il vero monte Sinai della Bibbia. I Barbiero si sono uniti al gruppo di ricerca del Prof. Anati fin dal 1990 ed hanno svolto una indagine specifica, volta a stabilire l’esatta ubicazione del monte Horeb.
Precise corrispondenze fra le risultanze archeologiche e i testi scritti provano che il racconto di Esodo è basato su fatti realmente accaduti e che l'altipiano di Har Karkom è il vero Sinai, mentre il monte Horeb si identifica con una piccola cima al centro della valle Karkom, leggermente distaccata dall'altipiano.
La tradizione cristiana attuale identifica il Monte Sinai della Bibbia con il massiccio del St Caterina, nella parte meridionale del penisola del Sinai.
Nessun resto archeologico anteriore al sesto secolo a.C. è mai stato trovato in questa area; inoltre l’ubicazione e la topografia di questa montagna non trovano alcuna corrispondenza nel racconto biblico. Per tali ragioni vari autori hanno proposto differenti ubicazioni per la montagna sacra , come indicato nell’illustrazione a fianco.
Nel 1982 il Prof. Emmanuel Anati, dopo due anni di ricerche nell’area di Har Karkom, una montagna nel deserto del Negev, in Israele (vedi circolo nella cartina), annunciò al mondo di aver scoperto il monte di Mosé, sulla base di una impressionante quantità di evidenze archeologiche indicanti che Har Karkom era stata una montagna sacra fin dal paleolitico ed in particolare nell’età del Bronzo. Non poche di queste evidenze corrispondono a quanto riferito nel racconto biblico.
Il deserto dove è situato Har Karkom è di un tipo particolare chiamato “hammada”. La caratteristica principale di questo terreno, coperto da uno strato compatto di ciottoli (vedi la foto a lato), è che non c’è attualmente alcun processo di sedimentazione e di erosione. La superficie è rimasta immutata per migliaia di anni, e mantiene in perfetto stato di conservazione le tracce lasciate da chiunque vi abbia piantato una tenda o costruito un’abitazione negli ultimi 50 mila anni o anche più.
Circa 200 villaggi paleolitici, che coprono un periodo di oltre 40 mila anni, sono stati identificati sull’altipiano di Har Karkom. Il loro stato di conservazione è straordinariamente buono, come se fossero stati appena abbandonati; tutti hanno fornito un’abbondante quantità di strumenti litici, che hanno consentito la loro datazione precisa.
Uno di questi villaggi, formato da cinque grandi capanne, è ritratto nella seguente figura, mentre nella successiva sono chiaramente visibili le impronte di numerose capanne, insieme ai sentieri paleolitici (che erano tenuti puliti dai sassi, a differenza di quelli successivi) e le tracce di pneumatici moderni. Migliaia di anni separano queste tracce, ma non c’è modo di stabilire la loro età, se si prescinde dagli strumenti litici. Fra le capanne è chiaramente visibile anche un geoglifo, che rappresenta la sagoma di un grande mammifero; la sua età non può essere stabilita in alcun modo.
Di particolare interesse è un sito presso il bordo del plateau, dove all’incirca 30.000 anni fa uomini paleolitici hanno radunato molte grosse pietre di selce, di forma vagamente antropomorfa, costituendo una sorta di galleria d’arte (o si trattava piuttosto di un santuario? Nessuno potrà mai stabilirlo con certezza). Niente di simile è mai stato trovato nel resto del mondo, segno che la montagna godeva di una considerazione del tutto speciale fra i paleolitici.
Più di 1200 siti archeologici sono stati censiti fino ad oggi nella concessione di Har Karkom; circa il 30% di essi sono paleolitici.
Un altro 30% circa dei siti archeologici di Har Karkom appartiene all’età del Bronzo e sono perciò denominati BAC (Bronze Age Complex).
Più di 2.000 strutture abitative di vario tipo (vedi foto sopra) sono sparse ai piedi del monte, la maggior parte nella valle Karkom, ma molte anche tutto intorno al monte. Alla stessa epoca risalgono una grande varietà di altre strutture, come altari, stele, piattaforme, tumuli, tombe, fortezze ecc. Vedi, per esempio, un gruppo di piattaforme al bordo meridionale del plateau ed uno dei tanti biblici “gal ed” (mucchi della testimonianza) sparsi nella valle.
Uno dei siti archeologici più notevoli della valle Karkom è un grande accampamento dell’epoca ellenistica (3°-2° secolo a,C,) con circa 120 strutture allineate in stile militare. Ai limiti del campo ci sono varie sepolture, ma un intero cimitero, con 40 tombe della stessa epoca, si trova ad un paio di km a nord del campo, in direzione dell’unico pozzo della zona, Beer Karkom (pozzo di epoca BAC). Questo sito è importante, perché dimostra che in epoca ellenistica è stata effettuata ad Har Karkom una grande spedizione dalla Palestina, nel corso della quale è accaduto qualcosa di drammatico. Chiaro segno che Gerusalemme aveva allora un forte interesse per quest’area.
Un altro 30% dei siti archeologici di Har Karkom appartiene al periodo romano-bizantino. I siti abitativi di questo periodo erano in tutta evidenza delle comunità monastiche (vedi ad esempio la foto successiva, che mostra una schiera di costruzioni rettangolari del periodo bizantino, allineate lungo il bordo del wadi. Sul retro due grandi cerchi di epoca BAC). La grande abbondanza di monaci residenti nella valle e sul monte Har Karkom è un chiaro segno dell’importanza di questa zona da un punto di vista religioso, nei primi secoli del cristianesimo.
Diverse incisioni sembrano in qualche modo collegate al racconto biblico, per esempio quando esso definisce quel posto un “deserto di serpenti e scorpioni”. Alcune ricordano “l’occhio di Dio”, o il bastone ed il serpente di Mosé
O nientemeno che le tavole della legge, come questa tavoletta, dalla forma inequivocabile, divisa in dieci parti, esattamente come nella tradizione rabbinica relativa ai dieci comandamenti.
I siti archeologici aiutano a ricostruire la storia di quest’area, ed è una storia che si adatta in maniera perfetta al racconto biblico. La maggior parte dei villaggi BAC si trovano nella valle Karkom, ma ci sono quasi 40 siti, tutti rispondenti ai medesimi criteri costruttivi, che circondano completamente la montagna ed i villaggi ai suoi piedi. Si tratta dei siti a “plaza”, così detti perché costituiti tutti da un numero variabile di strutture disposte in cerchio, in modo da formare una larga corte circolare.
All’interno della corte veniva custodito il bestiame, e le strutture circostanti erano destinate a vari usi, macellazione, silos, abitazioni ecc. Non c’è traccia che indicasse la presenza di nuclei familiari veri e propri: solo maschi adulti, evidentemente pastori. Anche gli strumenti rinvenuti nei plaza (nessuna ceramica, solo attrezzi di selce) sono del tipo necessario per lavorare le carni e le pelli animali.
I plaza sono stati costruiti intorno al monte (vedi cartina), lungo i sentieri principali, ad una distanza non superiore a due km l’uno dall’altro, tutti in vista del precedente e del successivo. Con ogni evidenza rispondono ad un preciso disegno strategico della popolazione accampata ai piedi del monte, piuttosto numerosa a giudicare dalla quantità delle abitazioni. La fonte principale di sussistenza era costituita dal bestiame, ma la scarsità delle vegetazione imponeva di disperderlo sulla più ampia area possibile, in piccoli gruppi, che divenivano così facile preda di predoni. Inoltre i villaggi nella valle, con donne e bambini, venivano ad essere privati della maggior parte degli adulti e quindi esposti anch’essi ad attacchi dall’esterno.
Il sistema dei plaza risolveva in maniera brillante entrambi questi problemi. Il bestiame era stato sparso tutto intorno al monte, in piccole greggi raccolte nei plaza. Ogni gruppo di pastori era sempre in vista di altri due: se uno veniva attaccato, gli altri potevano dare l’allarme ed intervenire in difesa. Inoltre, nessuno poteva penetrare la cinta dei plaza senza essere intercettato, per cui i villaggi nella valle erano al sicuro. Inoltre essi potevano essere facilmente riforniti di carni e latticini dai pastori distaccati nei plaza.
Flavio Barbiero, membro del Centro di Studi Preistorici del Prof. Anati dagli anni ‘70, seguì fin dall’inizio le scoperte e le ipotesi di Anati. Ma prima di unirsi al suo gruppo di ricerca sul terreno, passò diversi anni a studiare la Bibbia, nell’intento di capire se essa avesse realmente un contenuto storico, come l’archeologia ad Har Karkom sembrava dimostrare. Un’analisi approfondita di Esodo e Numeri lo portò a concludere che il loro racconto è una vera e propria cronaca, giorno per giorno, precisa ed accurata. Egli scrisse in proposito un libro, “La Bibbia senza Segreti” (Rusconi ed), in cui vengono illustrati i risultati conseguiti. Per esempio, egli è arrivato a stabilire quando, dove e come gli Ebrei hanno attraversato il Mar Rosso (vedi particolare di una carta nautica, che mostra l’esistenza di una linea di secche che attraversa l’intera Baia di Suez e all’epoca di Mosé rimaneva in secca durante le maree sigiziali, consentendo il passaggio da una sponda all’altra).
Dal Mar Rosso ad Har Karkom l’itinerario dell’Esodo può essere determinato con relativa certezza, seguendo fedelmente le indicazioni del testo, sia di carattere topografico (Numeri 33), che temporale.
Uno dei risultati principali dell’analisi preliminare di Barbiero del testo biblico è stata la ricostruzione fedele del Tabernacolo, il tempio-tenda costruito da Mosé ai piedi del monte Horeb. Tutti i dati essenziali di questo manufatto sono riportati in Esodo con tale minuzia e precisione, che è possibile stabilire forme, dimensioni, funzione e posizione di ogni suo singolo componente, fin nei più piccoli dettagli.
Seguendo passo per passo la descrizione di Esodo, Barbiero ha costruito, pezzo per pezzo con le esatte misure in scala, tutti i componenti del Tabernacolo e li ha assemblati (vedi foto a destra). Nel disegno a sinistra è riportata la pianta del tempio-tenda come è risultata dalla ricostruzione a tavolino in base ai dati forniti dal testo.
La hammada, come si è visto, conserva invariata l’impronta di ogni tenda o struttura che vi sia stata eretta nelle ultime decine di migliaia di anni. Se questo è realmente il luogo dove Mosè ha condotto gli Ebrei e se il racconto biblico ha realmente un contenuto storico, allora, questo era il presupposto di Barbiero, necessariamente ad Har Karkom doveva trovarsi anche l’impronta del Tabernacolo, così come descritto da Esodo.
Stando ad Es. 33,7, il Tabernacolo è stato eretto “fuori dal campo, lontano da esso”. Inoltre doveva per forza trovarsi vicino all’acqua e quindi non lontano dall’unico pozzo della zona, Beer Karkom. Barbiero e suo fratello, allora, sono saliti su una collina vicino al pozzo e si sono guardati intorno per individuare l’impronta. E l’hanno vista immediatamente, chiara, netta, inequivocabile (vedi foto seguenti).
Successivamente i Barbiero hanno segnato il tracciato dell’impronta con un nastro di plastica, seguendo il piano di costruzione del tempio tenda ricavato da Esodo. L’accordo con l’impronta nel terreno risultò perfetto, fino al più piccolo particolare. Anche la posizione di ciascuno dei picchetti di ancoraggio della struttura era segnato da pietre più grosse della media, ben allineate.
All’alba ed al tramonto il nastro di plastica riluceva, disegnando così la pianta del Tabernacolo sul terreno con la luce; una visione fantastica, quasi magica: un manufatto innalzato in quello stesso luogo più di 3000 anni fa risorgeva sotto i loro occhi.
Grazie all’impronta sul terreno i Barbiero sono stati in grado di ricostruire il tabernacolo nelle sue vere dimensioni e forme, esattamente dove fu eretto da Mosè per la prima volta.
E’ stato anche possibile correggere gli errori che inevitabilmente erano stati commessi nella ricostruzione a tavolino. Ecco di seguito la pianta risultante del tabernacolo, come rilevata dalla sua impronta sul terreno.
La differenza maggiore sta nelle dimensioni. Secondo l’opinione europea corrente il cubito di Mosè misurava all’incirca 45 cm. Con questo valore le dimensioni del Tabernacolo sarebbero risultate eccessive per una tenda mobile, e non in grado di resistere in un ambiente ventoso come il deserto. L’impronta sul terreno fornisce invece un valore del cubito di Esodo di 29,2 cm (più o meno come viene insegnato nelle scuole israeliane), dal momento che le misure della tenda sono di 14,60 metri (pari a 50 cubiti) per 29,20 (= 100 cubiti).
Pertanto anche le dimensioni dei vari arredi del tempio (altare, tavoli, arca ecc) devono essere rivisti in accordo a questa misura.
La forma e altre caratteristiche dell’impronta sono tali che non c’è dubbio sia stata lasciata dalla tenda descritta in Esodo, e cioè dal Tabernacolo costruito da Mosè. Il valore di questa impronta è inestimabile non solo per ragioni storiche, archeologiche e religiose, ma anche perché dimostra due cose:
1.- che il racconto di Esodo è basato su fatti reali
2.- che il sacro monte di Mosé si trova nell’area di Har Karkom.
Forte di questo risultato, Barbiero ha ritenuto di poter identificare con lo stesso grado di affidabilità il monte sulla cui cima hanno avuto luogo gli eventi narrati dalla Bibbia, e cioè il monte Horeb. Anati identifica genericamente il Sinai con l’altipiano di Har Karkom. Ma ci sono parecchie cose su questo altipiano che non tornano con la narrazione biblica (tanto per dirne una: la presenza di migliaia di incisioni rupestri di ogni genere, espressamente proibite sul monte sacro). Inoltre non è possibile individuare un luogo su di esso nel quale ambientare in maniera fedele al testo i fatti narrati.
Barbiero, invece ha trovato una corrispondenza perfetta su una collina isolata, esattamente al centro della valle di Karkom (vedi foto e mappa seguenti).
Il monte non ha un nome proprio, perché fa parte del complesso di Har Karkom; ma è la struttura montuosa più notevole della zona, perfettamente visibile e riconoscibile da km di distanza. Una differenza significativa rispetto al territorio circostante è che su questo monte non si trova neppure una sola incisione rupestre e non c’è alcuna struttura artificiale, se si eccettua la grande roccia sommitale, che si presenta come una vera e propria “acropoli”: un blocco roccioso monolitico (130 x 20mt), leggermente inclinato (7°), circondato da un muro artificiale sul lato nord; dietro il muro una trincea profonda poco più di un metro e larga tre; poi un altare ed un piccolo gruppo di stele ed un centinaio di metri più in alto, sulla cima, un piccolo tempio rettangolare. La superficie del blocco è coperta da un reticolato di grandi pietre naturali che danno l’impressione di una maestosa pavimentazione artificiale (vedi foto successive e la pianta dell’acropoli).
Nessun dubbio che questo fosse un monte sacro in passato, il cui accesso era interdetto ai comuni mortali (chiari segnali in questo senso sono stati trovati lungo l’unico sentiero che porta alla cima). Dal monte discende un unico wadi, che si allarga ai suoi piedi, formando una piccola piana, da cui si vede, incorniciato dalle pareti del wadi, il lato nord dell’acropoli, quello con il muro e la trincea. Al centro della piana si innalza una roccia di una paio di metri, circondata da numerose stele. I Barbiero hanno denominato questa roccia “l’altare del vitello d’oro”, perché tutto l’insieme si presta perfettamente ad ambientare l’episodio narrato in Esodo. Anche una pietra dalla forma di testa animale, che mani ignote hanno appoggiato all’altare, ricorda quell’episodio.
Scendendo dall’acropoli lungo l’unico sentiero, appena in vista dell’altare, è stata trovata per terra una tavoletta, certamente sagomata a mano, che ricorda vagamente le classiche tavole di Mosè. La parte superiore della tavoletta, perfettamente piatta, era interamente coperta di licheni, prova certa che giaceva in quel luogo da secoli. La parte inferiore era scheggiata.
Semplici coincidenze? Può essere, ma tutte convergenti in favore del racconto biblico. Questi elementi, insieme a diversi altri dello stesso genere, hanno convinto i Barbiero che la collina isolata al centro della valle di Har Karkom deve identificarsi con il Monte Horeb della tradizione biblica.
Il primo “cristiano” a nominare il monte Horeb è stato San Paolo. Nell’epistola ai Galati (4,25) egli afferma che “il Sinai è un monte dell’Arabia”. Ai suoi tempi l’Arabia era il paese dei Nabatei, la cui capitale era Petra. La seconda grande città carovaniera nabatea era Avdat, nel Negev meridionale, una ventina di km, in linea d’aria, a nord di Har Karkom, che era certamente in territorio nabateo, come testimoniato da numerose iscrizioni e strutture di vario tipo. Nei primi secoli dell’era cristiana Har Karkom era riconosciuto essere il sacro monte Sinai, come testimoniato dalle parole di Paolo e dalla presenza in loco, in epoca romano-bizantina, di numerose comunità di monaci (ebioniti, secondo la testimonianza di Epifanio).
Una testimonianza decisiva in questo senso è fornita dal diario di viaggio di una pellegrina del 4° secolo, Egeria. Probabilmente parente dell’imperatore Teodosio, essa aveva lasciato la Spagna nel 383 per raggiungere Costantinopoli, ma si era fermata in Palestina per visitare i luoghi santi.
Essa ha lasciato un diario straordinariamente accurato della sua visita al Monte Sinai, descrivendo in dettaglio ogni tappa del suo viaggio (tempi di percorrenza, distanze, luoghi e persone incontrate) ed ogni cosa che aveva visto. Niente di quanto descrive trova una corrispondenza sul St. Caterina. I Barbiero, diario di Egeria in mano, hanno seguito passo passo ad Har Karkom le indicazioni del racconto, trovando una assoluta corrispondenza, fin nei minimi dettagli; al punto che il diario di Egeria può essere adottato, senza alcuna modifica, come la migliore guida possibile per una visita turistica ai luoghi di interesse biblico di Har Karkom.
L’itinerario seguito dalla pellegrina, nei tre giorni della sua visita, può essere seguito sulla mappa. Partita da Beer Ada, alla confluenza del wadi Pharan con wadi Karkom, la mattina del 16 dic 381, arrivò a Beer Kakrom nel primo pomeriggio e passò la prima notte in un insediamento di monaci su una cresta a un’ora di cammino dal pozzo. Il mattino seguente, seguendo la cresta, raggiunse la cima principale di Har Karkom, che lei identificava con il monte Sinai. Là ascoltò messa, dopodichè si recò su un monte vicino, al centro della valle, che lei identificava con il Monte Horeb. Tempi di percorrenza e descrizione accurata di questo monte non lasciano dubbi che si tratta dello stesso identificato dai Barbiero come Horeb. Passò la seconda notte in un insediamento di monaci ai piedi di questo monte, presso un wadi terrazzato per le coltivazioni. Il terzo giorno percorse il fondo valle, tornando a Beer Karkom e descrivendo tutto ciò che incontrava lungo il cammino: fra l’altro l’altare del vitello d’oro, insediamenti abitativi ed anche l’impronta del tempio tenda di Mosè, all’imboccatura della valle. La corrispondenza fra il racconto e l’ambiente è assoluta, al 100%. Lungo il sentiero seguito il primo giorno, in prossimità della cresta, si incontra anche una incisione rupestre, di epoca bizantina, che con tutta probabilità celebra quell’avvenimento (vedi foto). Rappresenta un alto personaggio, montato su una cavalcatura con sella femminile (l’unica ad Har Karkom), che sale sulla montagna. Chi altri se non Egeria!
Questa straordinaria ricostruzione ha dato ai Barbiero la certezza che il monte al centro della valle Karkom era considerato il vero monte Horeb anche nei primi secoli dell’era cristiana.
A Gerusalemme i Barbiero fecero un’altra interessante scoperta. Durante una visita all’antico cimitero ebraico, sul monte degli Olivi, proprio di fronte alla spianata del Tempio, furono colpiti dalla somiglianza delle tombe con il monte al centro della valle Karkom. Chiesero a studiosi e rabbini quale fosse l’origine di quel genere di tombe (così differenti dalle tradizionali caverne in cui venivano sepolti i patriarchi), ma nessuno fu in grado di fornire una spiegazione.
Potevano essere “modelli” dell’acropoli di Har Karkom? La somiglianza è impressionante.
Se questo è vero, significa che la grande roccia che costituisce l’acropoli non è altro che un’immensa pietra tombale, sotto cui dovrebbero esserci delle sepolture.
La scoperta a Gerusalemme costituì un primo indizio per i Barbiero che sotto la grande roccia del monte Horeb dovevano esistere delle caverne nascoste.
Ci sono varie indicazioni nella Bibbia e in altri testi antichi che sul monte Horeb c’era una caverna. Mosè entrò in quella caverna e lo stesso fece il profeta Elia, che si era recato al monte proprio per quello scopo. Un testo apocrifo del 2° secolo a.C., detto “l’Apocalisse di Mosé”, afferma che sulla cima del monte sacro a Jahweh c’era “la caverna del tesoro”, la quale fungeva anche da luogo di sepoltura per i patriarchi.
L’ingresso alla caverna del monte Horeb era chiuso e ben mimetizzato, come testimoniato da un passo di 2 Maccabei (2, 4-12): "Si diceva anche nello scritto che il profeta Geremia ordinò che lo seguissero …al monte dove Mosè aveva contemplato l'eredità di Dio. Geremia salì e trovò un vano a forma di caverna e là introdusse la tenda, l'arca e l'altare degli incensi e sbarrò l'ingresso. Alcuni del suo seguito tornarono poi per segnare la strada, ma non trovarono più il luogo. Geremia, saputolo, li rimproverò dicendo: il luogo deve restare ignoto, finché Dio non avrà riunito la totalità del suo popolo e si sarà mostrato propizio. Allora il Signore mostrerà queste cose e si rivelerà la gloria del Signore e la nube, come appariva sopra Mosè, e come avvenne quando Salomone chiese che il luogo fosse solennemente santificato…”.
La maggior parte degli esegeti sostiene che il monte dove Geremia nascose gli arredi del tempio fosse il monte Nebo; ma questo è errato, perché in Esodo 15,17 è chiaramente indicato che il monte dove Mosè aveva contemplato l'eredità di Dio è il monte Horeb.
Di grande interesse è anche l’informazione che re Salomone ha pregato sulla cima di quello stesso monte e lo ha santificato. Non è forse una coincidenza fortuita, infatti, che proprio nei pressi del sentiero che sale all’acropoli si trovi l’unico sito dell’età del ferro (epoca di Salomone) di Har Karkom, con svariate strutture abitative.
Uno dei fatti più interessanti per i Barbiero era la grande spedizione compiuta in epoca ellenistica, che si era accampata a poche centinaia di metri dall’inizio del sentiero che porta all’acropoli (vicino all’altare del vitello). Le evidenze archeologiche dimostrano che scopo di quella spedizione era soltanto uno: fare o cercare qualcosa sull’acropoli. Questo è l’unico luogo, infatti, che conserva tracce evidenti della loro attività (a parte il campo stesso ed il percorso che porta all’acqua).
Nelle foto: veduta aerea del campo ellenistico (sito BK480). A destra vista del cimitero ellenistico. In basso pianta dello stesso cimitero (sito BK 411b, erroneamente classificato da Federico Mailland come "necropoli islamica"), rilevata dai Barbiero; le 40 tombe sulla destra sono di epoca ellenistica, mentre le altre sono più antiche.
Barbiero ha studiato a fondo la Storia Giudaica di Giuseppe Flavio, cercando indizi su una eventuale spedizione ad Har Karkom in periodo ellenistico. Dal testo risulta che furono i cinque fratelli Maccabei a dimostrare per la prima volta un grande interesse per il territorio dei Nabatei, dove essi soggiornarono a lungo e dove organizzarono anche delle spedizioni all’interno, che furono fatali per uno di essi (Giovanni). Sembra che alla fine Ircano I, figlio dell’ultimo dei Maccabei, Simone, nel 137 a.C. sia tornato dal territorio dei Nabatei a Gerusalemme, carico di denaro. E’ convinzione dei Barbiero che il campo ellenistico ad Har Karkom sia dovuto proprio ad Ircano, che spese il suo tempo lavorando proprio sulla cima del monte Horeb. Il cimitero che ha lasciato lontano dal campo è una indicazione certa che un gran numero dei componenti della spedizione sono morti (o sono stati uccisi), sulla via del ritorno a Gerusalemme.
In conclusione, esistono forti indicazioni che l’acropoli al centro della valle di Har Karkom debba identificarsi con il biblico Monte Horeb, e ci sono numerose indicazioni di varia natura secondo cui sul monte Horeb ci deve essere una caverna segreta, utilizzata dai sacerdoti di Gerusalemme come nascondiglio di arredi sacri del Tempio, e probabilmente anche come tomba di alti personaggi, ai tempi del primo regno di Giuda.
Perciò i Barbiero hanno cominciato ad effettuare rilievi di vario genere, miranti ad appurare se sul monte Horeb, ed in particolare sotto l’acropoli, esistano delle cavità nascoste. Una prima misura della resistività del terreno ha dato risultanti incoraggianti, evidenziando discontinuità compatibili con la presenza di cavità. L’esistenza di numerose “anomalie” è stata confermata con l’impiego di una strumentazione più sofisticata, che misurava la resistività ed il campo magnetico per mezzo di onde radio in VLF.
Successivi rilievi con georadar hanno consentito di localizzare con precisione queste “anomalie” e confermare che sono compatibili con la presenza di cavità, alcune probabilmente naturali (vedi grafico a destra), ma altre con caratteristiche che sembrano dovute ad interventi artificiali (come ad esempio nel grafico successivo).
Infine, poiché le misure con georadar hanno una portata limitata e non forniscono indicazioni affidabili in profondità, i Barbiero hanno effettuato una tomografia elettrica dell’acropoli, utilizzando la strumentazione più avanzata disponibile oggi.
I risultati sono molto chiari, come appare dalla successiva strisciata. Le tracce rosse rappresentano quasi certamente delle “cavità” all’interno della roccia, che corrispondono ai segnali georadar.
E’ possibile che queste cavità siano state fatte dall’uomo e si identifichino con quelle menzionate dalla Bibbia ed altre fonti antiche per il monte Horeb. In tal caso è da ritenere che siano già state saccheggiate; ma potrebbero essere rimasti documenti ed altro materiale di inestimabile valore per noi.