Gli Ebrei avevano chiesto ed ottenuto dal faraone l’autorizzazione a recarsi nel deserto, a “tre giornate di cammino”, per compiere sacrifici al loro Dio (Es.8,27). Ma la prima tappa del loro viaggio, da Pi-Ramses a Succot, fu di ben sette giorni di marcia. Avevano detto una bugia? Non stavano ai patti? E come mai i soldati egizi che si erano accodati a loro fin dal primo giorno (Es. 14,8) non li fermarono subito? Li avevano corrotti? Il racconto non è attendibile?
Niente di tutto ciò. La “giornata di cammino”, oggi come allora, è un’unità di misura di distanza che prescinde dalla minore o maggiore velocità di un particolare viaggiatore. Anche oggi le distanze lungo i sentieri di montagna sono sempre indicate in “ore di cammino”; sono ovviamente commisurate alla difficoltà del percorso, oltre che alla sua lunghezza, ma calibrate sul passo costante del montanaro medio. Se uno ci va con la famiglia, nonni e bambini, magari fermandosi ogni tanto a raccogliere fragole e mirtilli, deve mettere a calcolo un tempo di percorrenza almeno tre volte superiore.
La “giornata di cammino”, oltre che della difficoltà del percorso, tiene conto anche della presenza dell’acqua, fondamentale nel deserto: termina di norma in un luogo in cui c’è per lo meno un pozzo. Allora come adesso, però, era calibrata sul tragitto percorribile senza affanno da una carovana commerciale o militare: dai 35 ai 45 chilometri.
La meta degli Ebrei, quindi, il sacro luogo cui essi erano diretti per onorare il loro Dio, si trovava ad una distanza da Pi-Ramses di oltre cento chilometri, nel deserto.
Gli Ebrei non erano una carovana commerciale. Erano un popolo intero, con donne, bambini, vecchi e malati, con mandrie e greggi numerose; con tutti i propri averi, tende suppellettili, arnesi da lavoro e scorte di ogni genere. Parte del materiale era trasportato da animali da soma, ma il grosso delle masserizie doveva essere caricato su “carri coperti”, trainati da una coppia di buoi (Nm. 7,3-9) [1]. Ogni tribù ne possedeva diversi, per cui il loro numero totale doveva essere piuttosto elevato: una colonna interminabile, che si snodava lungo la pista per chilometri.
Vecchi e malati, con le donne e i bimbi più piccini, viaggiavano a bordo dei carri (Gn.46,5). I ragazzi più grandicelli davano una mano agli adulti, che sospingevano il bestiame sui fianchi della colonna, e conducevano per mano gli animali da soma e quelli aggiogati ai carri. Il ritmo di marcia era quello imposto dal lento passo dei buoi al traino: un paio di chilometri all’ora circa. Mediamente in una giornata potevano essere percorsi non più di una quindicina di chilometri: per coprire la distanza di una “giornata di cammino” erano quindi necessari tre giorni di marcia.
Modellino di carro da trasporto sumero a due
ruote, che veniva trainato da una coppia di buoi.
I carri impiegati dagli
ebrei durante l’esodo erano certamente rispondenti a questo modello,
particolarmente idoneo per l’impiego lungo le piste accidentate del deserto.
Poiché la “giornata di cammino” andava normalmente da un luogo con acqua a uno successivo, gli Ebrei non potevano far conto di rifornimenti lungo il percorso: dovevano fare scorta alla partenza di acqua e viveri pronti per la durata prevista della marcia. Dovevano provvedere anche scorte di acqua e foraggio per le bestie da soma e quelle al traino. Il bestiame libero, invece, brucava qualche ciuffo d’erba lungo la via, ma non veniva abbeverato; a questo si provvedeva soltanto al termine della tappa. Chi ha visto un gregge all’abbeverata nel deserto può avere un’idea del tempo necessario per abbeverare decine di greggi e mandrie. Le donne ne approfittavano per impastare il pane azzimo, che sarebbe poi stato cotto durante i bivacchi dei giorni seguenti. Si rinnovavano le scorte di acqua e, se possibile, di foraggio e legna da ardere. Tutto ciò richiedeva necessariamente una giornata intera di sosta. Pertanto il popolo ebreo per coprire il percorso di una “giornata di cammino” impiegava non meno di quattro giorni: tre di marcia e uno di sosta. Era la massima velocità di spostamento ad esso consentita.
Le prime due “giornate di cammino” (circa 70-80 chilometri) furono coperte dagli Ebrei in un’unica tappa di sette giorni. E’ la tappa più lunga dell'intero viaggio; fu possibile soltanto perché la prima parte del tragitto Si svolse in zona verde e ricca d'acqua, per cui le mandrie poterono dissetarsi lungo il percorso. II settimo giorno arrivarono a Succot, dove si dovettero fermare un paio di giornate.
Non appena gli Ebrei furono partiti si accodarono a loro le truppe carrate egizie incaricate di sorvegliarli (Es. 14,8); probabilmente si mantenevano sulla retroguardia, a distanza (all'occorrenza potevano coprire in un ora il tragitto di un'intera giornata dei primi). Fu forse a Succot che vennero ad accamparsi per la prima volta nei pressi del campo ebreo: anche loro, dopotutto, dovevano abbeverare i loro cavalli e fare scorta d'acqua. Con tutta probabilità l'incursione nel campo egizio di cui parla Esodo 14, 24-25, durante la quale le ruote dei carri da guerra vennero bloccate, si verificò proprio qui, nel corso della notte. Niente di irreparabile, ovviamente, ma da allora in poi il comandante delle truppe egizie giudicò prudente piantare il campo sempre a qualche distanza da quello ebreo e mettere sentinelle.
La mattina del decimo giorno dalla partenza gli Ebrei lasciarono Succot alla volta di Etham, al limitare del deserto omonimo (Es. 13,20; Nm. 33,7). Cinque giorni dopo tolsero il campo da Piahirot e attraversarono il Mar Rosso (Nm. 33,8). Per una qualche ragione la Bibbia ci tiene ad indicare il punto esatto in cui gli Ebrei si erano accampati: “di fronte a Migdol, in vista di Baal-Zefon” [2] (Es. 14,2; Nm. 33,7)". Il nome “Baal Zefon” vuol dire “Signore del Nord”, e si riferisce a un luogo di culto. Era, evidentemente, la meta dichiarata dagli Ebrei; il luogo sacro nel deserto, a tre giornate di cammino da Pi-Ramses, dove essi intendevano compiere sacrifici al loro Dio. Mosè dovette fare in modo di arrivare a Piahirot all'ultimo momento, nel pomeriggio, poche ore prima di attraversare il Mar Rosso. II fenomeno delle secche affioranti si verificava per più notti di seguito, in quel periodo; se avessero trascorso anche una sola notte a Piahirot, gli Egizi avrebbero potuto scoprirlo, mandando all'aria il piano di fuga. Mosè non poteva correre un rischio del genere.
Etham, quindi, doveva trovarsi a pochi chilometri da Piahirot: 8 o 10 al massimo; probabilmente nei pressi dell'odierna Suez. Era l'altro estremo della terza giornata di cammino, quella che iniziava a Succot. Gli Ebrei dovettero impiegare tre giorni a coprire la distanza; arrivarono perciò ad Etham la sera del dodicesimo giorno. I due giorni successivi Mosè dovette trascorrerli mettendo a punto il proprio piano e ricontrollando meticolosamente i tempi e i percorsi. Durante la notte, con la bassa marea, dovette recarsi sulle secche della baia di Suez, con alcuni fedelissimi, per ricontrollare il fenomeno, verificare le difficoltà e i tempi del passaggio e definire nei dettagli il piano d'azione.
Gli Ebrei partirono da Etham la mattina del quindicesimo giorno, l'ultimo del mese lunare. Nel pomeriggio si accamparono a Piahirot; si rifocillarono e riposarono qualche ora. Appena buio, ricaricarono i bagagli, aggiogarono i buoi, radunarono le greggi e si disposero in assetto di marcia. Verso l'una di notte iniziarono il passaggio; impiegarono poco meno di tre ore ad attraversare il Mar Rosso. Sostarono l'intera mattinata dall'altra parte, presso le fonti Ayun Musa per abbeverare gli animali e farli riposare dopo la strapazzata del passaggio; loro erano troppo eccitati dagli avvenimenti straordinari della notte, per pensare al riposo! Ci fu grande tripudio con canti e danze per tutta la mattinata. Ripartirono nel primo pomeriggio, liberi, alla volta della Terra Promessa.
[1] Gli Ebrei provenivano dalla Mesopotamia settentrionale e pertanto è probabile che avessero continuato ad impiegare il modello di carro tipico di quella regione, noto come “carro assiro” o anche “carro sumero”. Era un carro a due grandi ruote, trainato da una coppia di bovi, particolarmente idoneo al transito su piste sterrate e in grado di trasportare carichi superiori a dieci quintali.
[2] Il termine semitico "migdol" significa "torre" e si riferisce quindi a una torre di avvistamento o anche ad una costruzione sullo scoglio lungo le secche, per segnalarne la posizione. La parola egizia per “fortezza” è Htm = Hetam . La località di Etham, quindi, doveva essere quella in cui stazionava la guarnigione a guardia del confine egizio lungo la via che passava da Suez. Baal Zefon significa “Signore del Nord”, nome dovuto probabilmente alla sua posizione geografica, all’estremità nord del Mar Rosso.
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Dal Mar Rosso al monte Horeb
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