Chi era la ragazza che aveva raccolto Mosè sulla sponda del Nilo? Non è credibile che fosse la figlia proprio del faraone, il divino sovrano dell’Egitto (Es. 2,5). Una donna ebrea, per di più di condizione servile, non avrebbe mai potuto osare tanto.
La Bibbia chiama “faraone” tutto ciò che rappresenta lo stato egizio, impersonato appunto dal faraone. Ma si è già visto in Genesi che con questo termine non viene mai indicato il sovrano vero e proprio, ma sempre un suo funzionario; lo stesso sembra avvenire in Esodo, dove col termine “faraone” viene indicata sempre l’autorità egizia locale, civile o militare (“faraone” è anche il comandante delle truppe che vengono travolte dalle acque del Mar Rosso). Proprio come noi ora diciamo “lo Stato”, per indicare l’amministrazione pubblica.
La “figlia del faraone”, quindi, doveva essere un personaggio un poco più modesto, figlia di un funzionario locale, di livello medio-alto; probabilmente un sacerdote o forse lo stesso governatore del Gosen.
La tradizione vuole che Mosè sia stato allevato come un figlio in quella casa. Ma è un’idea che possiamo escludere senza eccessive remore: era ebreo e per giunta figlio di ignoti; a quei tempi poco più che un animale. Per quanto la sua padrona potesse essergli affezionata, Mosè rimaneva sempre e comunque un servo.
E’ importante per capire il carattere, la cultura, le aspirazioni e tutta l’opera successiva di Mosè, cercare di ricostruire nel modo più verosimile e probabile possibile le vicende dei suoi primi anni di vita, fondamentali per la sua formazione.
Stando alla Bibbia, Mosè ebbe per nutrice la sua stessa madre; è probabile quindi che abbia avuto una primissima infanzia felice o comunque normale. E’ l’ultima notizia che abbiamo di sua madre.
E’ presumibile che la donna abbia cercato di rimanere al servizio della famiglia egizia anche dopo lo svezzamento del figlio, per rimanergli accanto; ma prima o poi dovette esserne separata e la cosa dovette provocare in Mosè un trauma psichico indelebile. Un consistente indizio in questo senso è costituito dal fatto che Mosè diventò balbuziente (Es. 4,10 e 6,12), un difetto di pronuncia normalmente riconducibile a traumi psicologici subìti in tenera età.
Essere balbuzienti, a quell’epoca, era una vera e propria tragedia: risate, scherno e lazzi vari dovevano essere il pane quotidiano del povero Mosè. Si aggiunga che era un ebreo dagli incerti natali e si può ben immaginare quali fossero le sue condizioni e le sue prospettive. Sono fattori normalmente sufficienti a distruggere la dignità di un individuo e farne un emarginato, un paria. Ma uniti ad una sensibilità acuta, quasi morbosa, e ad una intelligenza vivissima, possono formare una miscela assolutamente esplosiva e far scattare la molla dei più folli sogni di rivalsa.
Senza alcun dubbio Mosè era intelligente, avido di sapere, acuto, dotato di una grande capacità di analisi e di sintesi. Queste sue qualità dovettero attirare l’attenzione del suo padrone, che lo iniziò ad un’arte riservata allora soltanto alle classi sociali più elevate, quello dello scriba, decidendo molto probabilmente di utilizzarlo come “segretario” personale.
Mosè venne così a contatto con gli aspetti più intimi e segreti della civiltà egizia, con in retroscena politici e tutti i trucchi, le grandezze e le miserie dell’esercizio del potere. Capì la straordinaria importanza della religione, delle leggi e dell’organizzazione per il governo di un popolo. Apprese le tecniche più raffinate per imporre la propria autorità sugli uomini. Toccò con mano l’evidenza che governanti erano uomini come lui, con le loro debolezze e meschinità di uomini; meno intelligenti di lui.
Il campo di cui si occupava principalmente doveva essere quello delle leggi religiose [1] e civili e dell’amministrazione della giustizia (Es. 18,13). Imparò i codici civili e penali dell’epoca. Ne valutò l’importanza e gli effetti. Comprese i meccanismi attraverso cui divenivano effettivi ed operanti. In sintesi, si fece una grossa cultura nel campo dell’amministrazione pubblica e della religione: cultura di stampo essenzialmente egizio.
Viveva in casa ed era quindi partecipe dell’atmosfera familiare; udiva le conversazioni, conosceva gli interessi, le occupazioni, le ambizioni dei suoi padroni. E quali potevano essere gli interessi ed i temi dominanti della conversazione in una famiglia di alti burocrati dell’antico Egitto? Anzitutto il faraone. Quello vero, s’intende; lontano ed inaccessibile, ma onnipresente nei discorsi, nelle disposizioni, in ogni attimo della giornata. Temuto, ossequiato, venerato: vero e proprio dio che dominava ogni atto ed ogni pensiero ed era arbitro del destino di uomini che, agli occhi di un ebreo, dovevano apparire essi stessi onnipotenti.
Poi la tomba. Quella del faraone, naturalmente, scavata nelle viscere della terra, ed il grande tempio funerario per i quali lavorava l’intero Egitto ed in funzione dei quali il nostro funzionario spremeva tributi, manodopera, energie a non finire. Ma anche la tomba di famiglia del funzionario stesso, che sicuramente ambiva ad una sepoltura degna del suo rango[2]. Ad essa dedicava gran parte delle proprie energie e tutto il frutto delle proprie ruberie e malversazioni.
Mosè assorbiva come una spugna tutte queste cose. La sua mentalità, quindi, i suoi principi morali, le sue aspirazioni e ambizioni dovevano essere molto più vicini a quelli di un egizio della sua epoca che non a quelli di un “ebreo” come oggi lo intendiamo.
Su un punto, in particolare, dobbiamo ritenere che egli fosse estremamente sensibile: quello della propria tomba. Tanto più che, secondo i costumi dell’epoca, lui non aveva diritto ad una sepoltura: il suo cadavere sarebbe finito in pasto ai cani e agli avvoltoi, come si conveniva ad un figlio di nessuno.
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L'esilio nel Sinai
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I genitori di Mosè
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[1] “Nell'antico Egitto tutte le cerimonie del culto erano teoricamente ufficiate dal sovrano; quando il Paese fu unificato, egli accentrò nella sua persona il cumulo delle cariche spettanti ai capi dei singoli territori e pertanto, pur detenendo il titolo di celebrante, si trovò a non poter esercitare da solo la somma delle cariche e la conduzione di tutti gli atti di culto... ” (F. Cimmino, Vita quotidiana degli Egizi, p. 102).
[2]
“L'importanza dell'oltretomba per gli
Egizi fu tale da condizionare la loro esistenza. Non esisteva una separazione
netta tra il mondo dei vivi e quello dei morti (...) Gli Egizi concepivano la
morte come la separazione dell'elemento corporeo dai principi spirituali; la
credenza più antica, che rimase sempre viva, era che l'anima avesse bisogno del
corpo per sopravvivere e che in mancanza di questo sarebbe perita per sempre
(...) Durante le dinastie dell'Antico Regno gli alti funzionari furono sepolti
nelle mastabe allineate attorno alle piramidi e potevano, in tal modo,
partecipare ai destini del sovrano. Con il Medio Regno i privati di riguardo
ricevevano dal re i blocchi di pietra per costruire la loro tomba. ”
“ I poveri,
naturalmente, dovevano accontentarsi di una fossa scavata nella sabbia” (F. Cimmino
op. cit., pp. 122-128).