Nel 70 d.C. la famiglia mosaica era al culmine della potenza. Le 24 famiglie sacerdotali che ai tempi di Esdra si erano spartite il potere, fondato sul possesso esclusivo del sacerdozio, erano ancora tutte là, più numerose e ricche che mai, e saldamente insediate alla direzione del Tempio e del paese. I loro discendenti si contavano a migliaia e molti di loro avevano sangue reale nelle vene, essendo discendenti o imparentati con gli Asmonei. Il dominio romano aveva portato pace e prosperità, ma era stato segnato da forti attriti su base religiosa, che avevano provocato una serie di rivolte, l’ultima delle quali, nel 66 d.C. fu fatale per la nazione ebraica e per la famiglia sacerdotale stessa. Con la presa di Gerusalemme, ad opera di Tito Flavio Vespasiano nel 70 d.C., essa fu quasi sterminata e cadde nella polvere. Il Tempio, principale strumento del suo potere, venne raso al suolo e mai più ricostruito; la carica di sommo sacerdote abolita; il sacrificio mai più eseguito[1]; il flusso delle decime interrotto; Gerusalemme interdetta agli ebrei. Non si risolleverà mai più da quel disatro. Poco meno di settanta anni dopo, un’ultima disperata rivolta porterà alla totale scomparsa delle comunità ebraiche dall’intera Giudea. Gerusalemme cambierà nome, diventando “Aelia Capitolina” e dove un tempo sorgeva il tempio a Jahweh, sorgerà un tempio dedicato a Venere.
Tramonto definitivo di una grande famiglia millenaria? Le apparenze storiche sembrano dire di si; ma non sempre le cose vanno proprio come sembra dall’apparenza storica. E’ certo, infatti, che la famiglia non scomparve materialmente. Ci furono dei sopravvissuti, numerosi e di altissimo rango, dotati di ingenti ricchezze e della protezione dei romani. Ce ne dà notizia lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che li elenca uno per uno, a cominciare da se stesso.
Giuseppe, figlio di Mattia, era un sacerdote, appartenente alla prima delle 24 famiglie sacerdotali e con sangue reale nelle vene, perché imparentato per parte di madre con gli Asmonei. Al tempo della rivolta contro Roma, aveva ricoperto un ruolo di primo piano negli avvenimenti che travagliarono la Palestina. Inviato come governatore della Galilea da parte del Sinedrio di Gerusalemme, egli era stato il primo a combattere contro le legioni del generale Tito Flavio Vespasiano, incaricato da Nerone di domare la rivolta.
Asserragliatosi nella fortezza di Iotpata, egli sostenne valorosamente l’assedio da parte delle truppe romane. Quando, alla fine, la città cadde, si rifugiò in una cisterna e dopo lunghe trattative si consegnò prigioniero, chiedendo di parlare a quattr’occhi con Vespasiano (Guerra Giudaica, III, 8,9), che incredibilmente acconsentì. Da quel colloquio nacque la fortuna di Vespasiano e quella di Giuseppe: il primo sarebbe diventato di lì a poco imperatore di Roma, il secondo ebbe salva la vita, non solo, ma dopo qualche tempo fu cooptato nella famiglia imperiale stessa, di cui assunse il nome “Flavio”, ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a Roma, un vitalizio annuo a spese dell’erario e vaste proprietà terriere.
Giuseppe Flavio giustifica questi straordinari favori con il fatto che, nel loro incontro dopo la caduta di Iotpata, aveva predetto a Vespasiano che sarebbe divenuto imperatore. Giustificazione ridicola! Lo storico romano Svetonio testimonia che quella di Giuseppe fu soltanto l’ultima di una lunga serie di profezie analoghe, cominciate il giorno stesso della nascita di Vespasiano. Tutti sapevano dell’esistenza di queste profezie; [2] è quindi inverosimile che egli abbia colmato di favori inauditi un ribelle vinto, soltanto perché gli aveva ripetuto una notizia che era ormai di pubblico dominio. Ci doveva essere ben altro! Il generale romano aveva un handicap terribile nella sua corsa alla porpora imperiale: era squattrinato (è sempre Svetonio che lo conferma [3]), mentre per diventare imperatore aveva bisogno di larghissimi mezzi finanziari. Giuseppe glieli fornì.
Durante il suo governatorato in Galilea, aveva messo da parte un discreto gruzzolo, sia con la raccolta delle decime dovute al Tempio, sia soprattutto per aver requisito l’oro, l’argento e gli oggetti preziosi provenienti dal saccheggio del palazzo di Erode Tetrarca, operato dagli abitanti di Tiberiade (Guerra Giudaica, II,21,3 - Vita, 66).
Consegnò subito a Vespasiano il gruzzolo personale, ottenendo salva la vita, e promise un patrimonio enormemente superiore, in cambio dei benefici che poi ottenne: il tesoro del Tempio di Gerusalemme. Ci sono nelle sue opere stesse indicazioni sufficienti per accusarlo con elementi di fatto.
Nel trionfo celebrato a Roma qualche tempo dopo da Tito insieme al padre Vespasiano, il pezzo forte della parata era costituito proprio dal tesoro del Tempio di Gerusalemme. Lo dice Giuseppe Flavio nel suo libro[4] e le sue parole sono confermate dalla rappresentazione di quel trionfo scolpita sull’arco di Tito, dove si vede chiaramente la “menorrah”, il grande candelabro a sette braccia, sfilare insieme ad altri arredi preziosi del tempio.
Non c’è alcun dubbio, quindi, che Vespasiano sia entrato in possesso del tesoro del tempio, ma come e quando? Leggendo le circostanze in cui si svolsero l’assedio di Gerusalemme e l’attacco finale al tempio, dobbiamo aspettarci che quando i romani riuscirono a prenderlo ben poco del tesoro originale fosse rimasto a loro disposizione. Il tempio, infatti, era stato occupato per mesi dagli zeloti, che non avevano esitato a spogliarlo di tutto. Quando, alla fine, si resero conto che ogni difesa era impossibile, vi appiccarono il fuoco e distrussero tutto ciò che era rimasto di valore, per evitare che cadesse in mano romana. I romani si trovarono padroni di un edificio distrutto dalle fiamme e saccheggiato dai suoi stessi difensori.
Il fatto certo che emerge dal resoconto di Giuseppe Flavio è che il tesoro del Tempio non fu catturato dal figlio di Vespasiano, Tito, ma gli fu consegnato da esponenti della famiglia sacerdotale, in cambio di un salvacondotto e di benefici economici. Da esso risulta che il tesoro era nascosto in diversi ripostigli segreti, anche se ovviamente Giuseppe non dice dove si trovassero ed è alquanto vago e contraddittorio per quanto attiene tempi e modalità della consegna. Soprattutto si guarda bene dal mettere in luce il ruolo svolto nella faccenda da lui stesso.
Possiamo ricostruire i fatti con l’aiuto di uno straordinario documento che doveva venire alla luce soltanto 2 millenni dopo: il rotolo di rame. Fu scoperto nel 1952 nella grotta 3Q, a Qumran. Si trattava di tre fogli di rame, ricuciti fra loro, arrotolati come un foglio di carta, sulla cui faccia interna era inciso un testo in ebraico. Data l’età, non era possibile svolgere il rotolo senza rovinare il testo. Esso fu quindi portato a Manchester, dove fu tagliato in strisce verticali, corrispondenti alle colonne del testo. Mano a mano che le strisce venivano tagliate e ripulite, venivano tradotte dal celebre qumranista J.M. Allegro.
Sezione del rotolo di rame tagliata a Manchester
Il testo è in sostanza un elenco di località in cui erano stati nascosti dei tesori. In un primo momento si pensava si riferisse a tesori della comunità essenica di Qumran e il testo veniva guardato con profondo scetticismo, perché sembrava impossibile che quella piccola comunità possedesse ricchezze tanto smisurate. Fra l’altro, la maggioranza delle località citate nel testo si trova nei dintorni di Gerusalemme. Oggi è opinione pressoché unanime fra gli studiosi che il rotolo di rame si riferisca al tesoro del tempio di Gerusalemme (anche perché buona parte di esso è costituito proprio dalle decime), nascosto in previsione dell’assedio[5].
Il rotolo comincia direttamente con la lista dei nascondigli: “ A Horebbeh, nella valle di Acor, sotto i gradini che vanno verso oriente, a quaranta cubiti di profondità: cofano d’argento, il cui peso totale è di 17 talenti.
Nel monumento funebre di Ben-Rabbah da Shalisha: cento lingotti d’oro.
Nella grande cisterna del recinto del piccolo peristilio, turata da una pietra bucata, in un angolo del fondo, di fronte all’apertura superiore: novecento talenti.
Sulla collina di Kohlit: vasi di offerte di prelevamento, di mezza misura e di riscatto, tutte offerte di prelevamento del tesoro del settimo anno e della decima: …”
E continua su questo tono per tutta la sua lunghezza, elencando ben 74 nascondigli diversi, ognuno con il suo contenuto. Inutile dire che nessuno di questi tesori si trova nel nascondiglio indicato.[6] Cosa scontata, del resto. L’ultima frase del rotolo di rame, infatti, dice che: “Nella caverna di Kohlit, … c’è una copia di questo scritto, con la spiegazione, le misure e un inventario completo, oggetto per oggetto.”.
Il rotolo ritrovato a Qumran, quindi, è soltanto una copia di riserva di un originale che era stato nascosto nella caverna di Kohlit, che si trova nei pressi di Gerusalemme. Chi aveva nascosto quel tesoro doveva aver preso tutte le precauzioni possibili per poterne rientrare in possesso una volta passata la buriana. Aveva scritto la lista dei nascondigli su un materiale non deperibile, come il rame, e ovviamente, data l’importanza del documento, ne aveva prodotte due copie, riposte in due diversi nascondigli. Entrambi le copie dovevano essere state scritte e nascoste da coloro che avevano disposto l’occultamento del tesoro, sulla cui identità non ci possono essere dubbi: i proprietari del tesoro stesso e cioè i capi delle famiglie sacerdotali del Tempio e fra essi certamente il suo tesoriere.
A questo punto non resta che mettere due più due. Quel rotolo dovette costituire per alcuni di essi il salvacondotto per uscire indenni dalla distruzione del tempio e dalla conseguente carneficina, e assicurare un futuro di benessere per sé e per i propri discendenti. Giuseppe Flavio fu il primo dei sacerdoti giudaici a passare dalla parte dei romani e quello che ottenne i favori maggiori. Vista la sua appartenenza alla prima delle famiglie sacerdotali, la posizione di altissima responsabilità che occupava in Israele, quale governatore della Galilea, e la sua profonda conoscenza del deserto di Giuda, dove aveva trascorso tre anni della sua giovinezza, è legittimo pensare che egli fosse a conoscenza delle operazioni di occultamento del tesoro e perfettamente in grado di individuarne i nascondigli.
Durante il colloquio privato con Vespasiano, subito dopo la sua cattura, Giuseppe dovette negoziare la vita salva e un futuro di prosperità in cambio del tesoro del tempio. Una proposta irresistibile per lo squattrinato generale romano, che vedeva in tal modo la possibilità di procurarsi i mezzi per la scalata alla porpora imperiale. Verosimilmente, in quell’occasione i due stabilirono un patto, che doveva cambiare i destini del mondo.
In un primo momento Vespasiano “non mise in libertà Giuseppe, ma gli fece dono di una veste e di altri oggetti di valore, trattandolo con simpatia e riguardo” (Guerra Giudaica, III, 8,9). Gli diede inoltre in moglie “una giovane prigioniera, una di quelle catturate a Cesarea” (Vita, 414). Era soltanto l’inizio di una incredibile serie di favori e donazioni che Vespasiano e suo figlio Tito fecero al loro ex-nemico. Qualche tempo dopo, non appena le legioni di stanza in Egitto lo proclamarono imperatore (ma era comunque ben lungi dall’aver acquisito il trono) e il governatore romano Tiberio Alessandro si era messo ai suoi ordini, Vespasiano lo fece liberare e lo condusse con sé ad Alessandria d’Egitto. Successivamente Giuseppe rimase al fianco di Tito, figlio di Vespasiano, per tutto il resto della guerra a Gerusalemme.
Caduta la città, “Tito tentò più volte di persuaderlo a prendere qualsiasi cosa volesse dalle rovine della sua patria” (Vita 418). Sempre in quell’occasione gli fece dono di vasti terreni intorno a Gerusalemme. Infine lo portò con sé a Roma sulla sua stessa nave (Vita 422). Quando giunse a Roma, Giuseppe ricevette donazioni e onori ancora maggiori. Vespasiano gli regalò quella che era stata la sua abitazione privata prima di diventare imperatore e gli concesse la cittadinanza romana, un vitalizio annuo e la proprietà di vasti terreni in Giudea e finì addirittura per cooptarlo nella propria famiglia.
Queste incredibili donazioni sono un evidente atto d’accusa contro Giuseppe, tant’è vero che gli ebrei del suo e di tutti tempi lo considerarono un traditore. L’entità dei benefici ricevuti dovette essere proporzionata all’entità dei benefici che il suo tradimento procurò a Vespasiano. Possiamo essere ragionevolmente certi che durante l’assedio di Gerusalemme, o subito dopo la sua distruzione, un drappello di soldati fedelissimi a Tito, accompagnati da Giuseppe e forse da altri sacerdoti, se ne andarono in gran segreto per il deserto di Giuda, dissotterrando uno dopo l’altro i tesori elencati nella copia originale del rotolo di rame, prelevata a Kohlit. La copia di riserva, ormai inutile, venne lasciata dov’era, a Qumran.
Questa caccia al tesoro segreta aveva per Vespasiano un grande vantaggio: non doveva rendere conto a nessuno dei tesori recuperati, di cui poteva disporre a suo piacimento. Il fatto di aver ritrovato la copia di riserva dell’elenco, ci consente di conoscere con precisione l’enormità della somma di cui Vespasiano si trovò improvvisamente a disporre a titolo personale. Sotto questa luce, i favori elargiti in cambio a Giuseppe e ai suoi compagni appaiono ampiamente giustificati.
Gli oggetti di culto più appariscenti, come la menorah e il vasellame sacro, vennero messi da parte per il trionfo e l’erario pubblico. Dopo il trionfo essi furono depositati nel tempio della Pace, fatto erigere da Vespasiano[7]. Nel 455 vennero presi dai Vandali di Genserico, quando saccheggiarono Roma, e furono portati a Tunisi. Qui vennero presi, nel secolo successivo, dal generale bizantino Belisario che li portò a Costantinopoli, dove se ne perdono le tracce[8].
Il denaro delle decime, i gioielli, l’oro e l’argento sfusi, invece, vennero incamerati da Vespasiano, che fu in grado così di pagarsi la porpora imperiale e, una volta insediato a Roma, di costruirsi un palazzo sfarzoso, di fronte a cui la vecchia villa di famiglia diventava ben poca cosa, tanto che si permise di farne dono allo stesso Giuseppe. Quest’ultimo si ritirò a Roma, dove mise su famiglia per la terza volta e dopo qualche anno cominciò a mettere per iscritto i fatti di cui era stato protagonista e la storia del popolo ebraico, opere per le quali è passato alla storia.
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[1] Il servizio del sacrificio fu ripreso soltanto per un breve periodo, al tempo della successiva rivolta di Bar Kocheba, nel 132 d.C., su di un altare costruito sulla spianata del tempio.
[2] Che esistessero presagi sui destini imperiali di Vespasiano non era una novità per nessuno. Svetonio nella sua “Vite dei Cesari”, dedica un intero capitolo (Libro VIII, cap. 5) ai presagi che facevano di Vespasiano un predestinato alla porpora imperiale fin dalla nascita. Buon ultimo cita anche la predizione di Giuseppe. E’ storicamente certo, quindi, che nell’incontro a quattr’occhi fra questi e Vespasiano si parlò dell’argomento.
[3] Svetonio insiste molto sull’avidità e bisogno di denaro di Vespasiano. In “Vite dei Cesari”, VIII, XVI, dice testualmente di Vespasiano: “La sola pecca di cui lo si possa giustamente incolpare fu l’avidità di denaro”; più avanti lo definisce “avidissimo di natura”.
[4] Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 5,5,148-150: “Fra tutti spiccavano gli oggetti presi nel tempio di Gerusalemme, una tavola d’oro del peso di molti talenti e un candelabro fatto ugualmente d’oro … veniva poi appresso, ultima delle prede, una copia della legge dei giudei”
[5] Norman Golb, Who wrote the Dead SeaScrolls?, New York, 1995, pag 123
[6] J. Allegro aveva effettuato ricerche in tutte le località che era riuscito ad individuare sulla base della descrizione, senza trovare nulla.
[7] Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, 5,6, 151 – “Vespasiano decise di innalzare un tempio alla Pace … qui ripose anche la suppellettile d’oro presa al tempio dei giudei, di cui andava fiero…”
[8] Moses A. Shulvass, The History of the Jewish people, Chicago 1982, Vol I, pag 139