Da queste vicende emerge una realtà che ha una importanza fondamentale ai fini della nostra ricerca: la responsabilità primaria del crollo dell’amministrazione imperiale centralizzata in occidente ricade interamente sulla famiglia sacerdotale, che da questo crollo non uscì per nulla indebolita o ridimensionata. Anzi, semmai ne guadagnò in autonomia e sicurezza.
Certamente non fu una politica programmata fin dall’inizio, ma viste le premesse create al tempo di Costantino, con l’interdizione agli imperatori romani di risiedere nella capitale, e la situazione determinatasi nel corso del quarto secolo con l’impiego massiccio di popolazioni barbariche negli eserciti occidentali, era inevitabile che alla fine le classi dirigenti che facevano capo direttamente a Roma decidessero che potevano fare a meno di un imperatore.
In realtà non si ebbe mai una “caduta” dell’impero d’occidente; quel che si verificò fu soltanto una lenta agonia della carica imperiale, che divenne sempre più estranea agli interessi delle classi dirigenti dell’occidente, clero e senato, fino a trasformarsi in un peso insopportabile per loro. Dopo la morte di Valentiniano III, infatti, l’occidente si trasformò in un campo di battaglia fra opposti eserciti barbarici, che si combattevano fra loro per imporre ognuno un proprio candidato alla porpora imperiale.
Tradizionalmente l’imperatore era il capo dell’esercito e il suo compito principale, almeno in occidente, era quello di difendere lo stato dalle aggressioni esterne e interne. Nel corso del quinto secolo, il concentramento delle terre nelle mani del clero e della classe senatoriale, che godevano di ampie esenzioni e privilegi, aveva reso estremamente difficile il reclutamento di soldati fra le popolazioni romanizzate, per cui l’esercito dell’occidente venne ad essere costituito quasi interamente da guerrieri barbari, insediati in qualità di federati dai generali Stilicone, Costanzo ed Ezio in Spagna e in Gallia, con il compito di salvaguardare l’autonomia e i privilegi del clero e della nobiltà terriera.
Quando quegli stessi eserciti cominciarono ad essere utilizzati gli uni contro gli altri per imporre effimeri imperatori, privi di potere effettivo e incapaci di imporre la propria autorità su chicchessia, la classe dirigente che faceva capo al senato romano dovette decidere di abolire la carica imperiale in occidente, divenuta ormai fonte di instabilità permanente e causa di indebolimento delle risorse militari a disposizione.
Il barbaro Odoacre fu soltanto l’esecutore materiale di quella decisione e agì con il consenso ed anzi il pieno appoggio del Senato e del clero romani. Lo prova il fatto che Romolo Augustolo rassegnò le proprie dimissioni davanti al Senato stesso. Subito dopo il Senato deliberò all’unanimità di inviare una lettera all’imperatore d’oriente Zenone, nella quale dichiarava che non intendeva più ratificare la nomina di un imperatore in occidente, del quale non si sentiva alcuna necessità: a governare contemporaneamente sia l’oriente che l’occidente era sufficiente un unico imperatore.
Il Senato, quindi, dichiarava solennemente, a nome proprio e del popolo intero, di acconsentire a che la sede dell’impero universale fosse trasferita da Roma a Costantinopoli, rinunciando al proprio diritto di scegliere l’imperatore (fino ad allora la nomina di un nuovo imperatore era sempre stata ratificata dal Senato). La lettera proseguiva affermando che la “repubblica” (così nel testo) poteva contare per la propria difesa sulle virtù civili e militari di Odoacre, per il quale richiedeva una investitura ufficiale, con la nomina a patrizio[1].
Una conclusione più che logica, se si considerano i fatti storici. Si sono già viste le convulse vicende dell’occidente nei due decenni successivi alla morte di Valentiniano. Con la deposizione dell’ultimo imperatore Odoacre rese un servizio non solo all’Italia, ma all’intero occidente, che ne guadagnò in stabilità e prosperità. L’autonomia e i privilegi delle classi dirigenti romane vennero garantiti ovunque dalle popolazioni barbariche, come mai lo erano stati sotto gli stessi imperatori cristiani.
Odoacre governava l’Italia grazie ad un esercito di barbari di varie etnie, ma lasciò intatti i vecchi uffici e istituzioni e arrivò a fare concessioni alla nobiltà romana e al clero cattolico (lui che era di fede ariana) assai più ampie di quanto avessero mai fatto gli stessi imperatori cristiani, al punto da essere acclamato quale “campione delle libertà del senato romano”. “La libertà della nobiltà romana”, scrive lo storico Ernst Stein, “per la quale Bruto e Cassio erano morti a Filippi, non fu mai restaurata così completamente come dal primo re barbaro che regnò sull’Italia”.
E’ vero che egli distribuì terre coltivabili ai propri soldati barbari, togliendole ai latifondisti, ma gli interessi di questi ultimi furono ampiamente salvaguardati. Nessuna proprietà, infatti, fu espropriata per una superficie superiore ad un terzo, ma in compenso i proprietari furono indennizzati con l’esenzione dalle tasse, che erano pari, appunto, ad un terzo dei prodotti.
Per quasi un ventennio l’Italia godette di un periodo di pace e di rinascita economica. La pace fu rotta dai Goti di Teodorico, che prese il posto di Odoacre e dei suoi barbari. Clero e aristocrazia romani rimasero neutrali, in apparenza, fra i due contendenti. Le loro condizioni e privilegi non mutarono sotto i nuovi “padroni” e neppure la loro autonomia nei confronti dell’imperatore d’oriente. Cosa che potrebbe apparire strana, dal momento che gli storici affermano che Teodorico fu indotto ad invadere l’Italia proprio dall’imperatore d’oriente Zenone.
Non è escluso, però, che l’intervento di Zenone sia stato concordato, o addirittura sollecitato dalla stessa classe dirigente romana. La cosa, anzi, appare molto probabile. Odoacre inizialmente si era accontentato della carica di “magister militum”, e cioè capo dell’esercito, e del titolo onorifico di patrizio romano. Si era però affrettato ad assumere il prenome “Flavio”, arrogandosi in tal modo i diritti della Gens Flavia e ponendo un’ipoteca sulla porpora imperiale.
Non per sé, ovviamente, ma per il figlio Flavio Telano, che provvide a far nominare “cesare”, anticamera del titolo di augusto. Fu probabilmente questa mossa a decretare la sua fine. Il senato romano non doveva certo essere disposto a riaccettare in occidente un imperatore, per giunta di origine barbara. E in questo i suoi interessi coincidevano con quelli dell’imperatore d’oriente, che, in assenza di un collega, rimaneva nominalmente sovrano anche dell’intero occidente. La sua autorità, infatti, era formalmente riconosciuta da tutti i capi barbari. Da un punto di vista formale, quindi, l’impero romano era di nuovo riunito sotto un unico imperatore. Di fatto era definitivamente diviso in due parti, l’una soggetta al ramo secolare della famiglia, l’altra a quello religioso, la Chiesa, che rimaneva così libera da ogni condizionamento e la cui sicurezza veniva garantita dalle milizie barbare.
Con la deposizione dell’ultimo imperatore fantoccio, Romolo Augustolo, si realizza così compiutamente, fino alle sue estreme e logiche conseguenze, la divisione operata ai tempi di Costantino fra potere civile e religioso, con due diverse sfere di influenza. In oriente l’imperatore è sovrano a tutti gli effetti, ma riconosce formalmente la dipendenza da Roma in materia di religione.
In occidente viene riconosciuta formalmente l’autorità suprema dell’imperatore, da cui i vari capi barbari continuano a ricevere patenti di legittimità e governano formalmente in suo nome, ma di fatto il potere è totalmente nelle mani della Chiesa e della classe dirigente senatoriale.
Negli altri stati “barbari” in cui risultò frazionato l’occidente, infatti, la situazione era più o meno la stessa che in Italia. In tutti fu mantenuto il sistema amministrativo romano, la nobiltà senatoriale mantenne i suoi privilegi e le sue proprietà e il clero cattolico vide addirittura aumentato il proprio potere e il patrimonio ecclesiastico.
La vecchia classe dirigente occidentale si liberò così dall’incombenza più onerosa e difficile, e cioè quella di provvedere a reclutare e mantenere un esercito per salvaguardare la propria sicurezza nei confronti di invasioni esterne e i propri interessi e privilegi nei confronti della popolazione soggetta. Questi compiti, infatti, furono interamente demandati ai barbari, che costituivano una classe permanente di guerrieri, e che li assolsero in maniera assai più efficace che non gli imperatori romani e ad un prezzo per le classi dirigenti romane di gran lunga inferiore. Il controllo e l’amministrazione della popolazione romana assoggettata, invece, rimase interamente nelle mani delle vecchie classi dirigenti.
In tutto l’occidente i barbari divennero di fatto, come lo erano sempre stati, del resto, i “campioni” e difensori della indipendenza della classe senatoriale e del clero cattolico. Indipendenza da chi? Evidentemente dall’imperatore stesso. La cosa non sorprende, perché, come si è detto, la caduta dell’impero d’occidente fu la logica conseguenza finale di quella decisione di salvaguardare l’indipendenza dell’organizzazione sacerdotale occulta nei confronti del potere centralizzato, separando fisicamente la sede dell’amministrazione imperiale da quella della Chiesa.
I fatti storici, quindi, dimostrano che la responsabilità della cosiddetta “caduta” dell’impero d’occidente deve essere attribuita interamente alla famiglia sacerdotale dell’occidente, non ai barbari.
Va detto chiaramente, infatti, che né i Visigoti né alcun altro dei barbari che si stanziarono nell’impero in qualità di federati ebbero mai l’intenzione di abbatterlo. Anzi, semmai fu il contrario. Ataulfo, succeduto ad Alarico l’anno stesso del sacco di Roma, dichiarò più volte che egli intendeva guadagnarsi la gloria di riportare il nome di Roma alla passata grandezza, utilizzando la potenza militare dei Visigoti, e che avrebbe voluto essere ricordato dai posteri come “l’autore della restaurazione di Roma”[2].
Non va dimenticato, per esempio, che furono Visigoti, Franchi, Burgundi e Alani che diedero la loro vita ai campi Catalaunici, per salvare l’impero dall’invasione di Attila; uno dei tanti episodi in cui i barbari combatterono in sua difesa. Stilicone, Costanzo ed Ezio, infatti, combatterono tutte le loro innumerevoli battaglie alla testa di eserciti costituiti in gran parte da barbari, il cui impiego divenne sempre più massiccio mano a mano che si affievoliva il senso civico della popolazione romana e più difficile diveniva il reclutare soldati fra di essa.
Ma di questo non furono responsabili i barbari. La responsabilità grava interamente sulla famiglia sacerdotale, che non ha mai avuto il senso dello stato, ma solo quello della famiglia, e ha utilizzato i barbari come lo strumento più efficace per mantenere il proprio dominio sulla società romana e continuare a mantenere le proprie ricchezze e i propri spropositati privilegi[3].
Nell’oriente soggetto direttamente all’autorità imperiale le cose andarono in maniera del tutto diversa. L’imperatore, per consentire la sopravvivenza e la governabilità del proprio stato, (evitare condizionamenti politici, evitare rivolte sociali, promuovendo il benessere e l’economia, e procurarsi i mezzi finanziari per provvedere alla difesa e all’amministrazione) dovette revocare molti dei privilegi della classe senatoriale e del clero, limitandone i poteri e tassandone pesantemente le proprietà. Clero e nobiltà furono quindi asserviti completamente all’autorità imperiale, perdendo la propria autonomia. In compenso fu salvaguardata l’integrità e indipendenza dello stato.
In occidente, invece, le famiglie sacerdotali si sottrassero a questo inevitabile processo, affidando la difesa della propria autonomia e dei propri interessi e privilegi ad una classe di guerrieri professionisti, costituita dalle popolazioni barbariche. Il prezzo da pagare fu l’indipendenza e l’unità dello Stato; prezzo che, a quanto è dato giudicare dalle vicende storiche di quel periodo, fu pagato deliberatamente e senza esitazione. Rientrava, del resto, in una tradizione antica. La famiglia sacerdotale giudaica era emersa quale classe dominante di Giuda al rientro dall’esilio babilonese, sotto la dominazione persiana, e aveva continuato a prosperare sotto il dominio dei Tolomei. Soltanto quando Antiochia minacciò la sua stessa esistenza, proibendo la religione ebraica, la famiglia reagì, creando uno stato indipendente, con a capo un re tratto dalle proprie fila.
l periodo sotto gli Asmonei, però, non fu dei più felici per il complesso delle famiglie sacerdotali, che accettarono di buon grado il dominio romano, almeno fino a che non cominciò ad invadere la sfera dell’autonomia religiosa. Niente di strano o di nuovo, quindi, se le famiglie sacerdotali dell’occidente preferirono il dominio di sovrani barbari a quello di un imperatore della propria stirpe.
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[1] Edward Gibbon, The history of the decline and fall of the Roman Empire, cap XXXVI
[2] E.A. Thompsom, Op. citata, pag. 45
[3] A questo proposito è importante osservare che soltanto i barbari che erano inizialmente entrati al servizio delle classi dirigenti romane, in qualità di “federati”, Visigoti, Goti, Burgundi, Franchi e Alamanni poterono rimanere nei territori dell’occidente e formarvi unità politiche stabili anche dopo la “caduta” dell’impero. Tutti gli altri barbari, che non si erano posti al servizio della dirigenza romana, erano stati sempre e invariabilmente respinti o sterminati. E lo saranno anche in seguito: Alani, Suebi e Vandali Silingi, che avevano occupato la Spagna nel 406, furono sterminati dai Visigoti, per conto di Flavio Costanzo; i Vandali Asdingi resistettero in Nord Africa per quasi un secolo, ma alla fine furono spazzati via da Belisario; i Longobardi, calati in Italia nel settimo secolo, vennero poi definitivamente debellati dai Franchi.