Sulla base delle informazioni storiche fornite da Giuseppe Flavio, nessuno dei sommi sacerdoti che seguirono Ircano I riuscì a penetrare nuovamente nella tomba. Questo “privilegio” toccò, esattamente 110 anni dopo, ad un famigerato personaggio storico che non era neppure giudeo e tanto meno di casta sacerdotale: Erode il Grande.
Torniamo ad Ircano I. Come si è visto egli aveva ucciso tutti coloro che avevano partecipato alle ricerche della tomba. Era rimasto quindi unico depositario del segreto. Senza dubbio in molti dovevano sospettare la verità, anche se si guardavano bene dal manifestare pubblicamente i loro sospetti. Ma lui era l’unico a conoscere esattamente come trovare la caverna del tesoro e come entrarvi. Un segreto che egli dovette condividere soltanto con sua moglie, che alla sua morte, avvenuta nel 105 a.C., egli designò a succedergli a capo del governo di Gerusalemme.
A quanto pare, egli non mise al corrente i suoi figli, neppure il primogenito, Aristobulo, di cui probabilmente non si fidava, a causa di suoi gravi difetti caratteriali. E ben a ragione! Aristobulo, infatti, era un personaggio cinico e spregiudicato ed è da ritenere che non avrebbe esitato a servirsi in maniera del tutto disinvolta della sua “cassaforte” personale, se solo fosse venuto a conoscenza del segreto della sua ubicazione.
Incurante delle disposizioni del padre, si impadronì immediatamente del potere, assumendo il sommo sacerdozio e facendosi proclamare re, inaugurando in tal modo la dinastia degli Asmonei.
Egli fece imprigionare tre dei suoi quattro fratelli e la stessa madre, dalla quale tentò in ogni modo di farsi rivelare il segreto della tomba; ma questa preferì lasciarsi morire di fame nella sua prigione, piuttosto che rivelarglielo.
Aristobulo morì nel 104 a.C., dopo appena un anno di regno, senza essere riuscito a recuperare il segreto della tomba. Da quanto accadde in seguito dobbiamo presumere che sua madre, prima di morire, riuscì a comunicare il segreto della tomba alla moglie di Aristobulo, Salomè, a condizione che ella lo conservasse per il loro figlio Ircano (Ircano II), che a quell’epoca era ancora bambino.
Dopo la morte di Aristobulo, Salomè rimise in libertà i fratelli di lui e sposò quello fra loro che sembrava essere superiore non solo per età, ma anche per moderazione, innalzandolo al trono, Ianneo, detto Alessandro in greco. Su questo punto probabilmente si sbagliava.
Ianneo era certamente all’oscuro della tomba, altrimenti nessuno scrupolo avrebbe potuto fermarlo, trattandosi del sommo sacerdote più spregiudicato e dissoluto di tutta la storia di Giuda. Da Salomè egli ebbe un secondo figlio, che chiamò Aristobulo II, dal nome del defunto fratello.
Alcuni storici considerano entrambi, Ircano e Aristobulo, figli di Ianneo; ma i dati forniti da Giuseppe Flavio smentiscono decisamente questa ipotesi. Come vedremo poi, infatti, Ircano II fu ucciso da Erode nel 30 a.C., all’età di oltre 80 anni (Ant, Giud. XV, 178 ). Era nato quindi prima del 110 a.C., quando Giuda/Aristobulo era ancora vivo e vegeto e felicemente sposato a Salomé. Giuda/Aristobulo morì nel 104 a.C., quando suo figlio Ircano aveva almeno sei anni.
Salomé si risposò con il fratello di lui Ianneo, da cui ebbe il secondo figlio, Aristobulo II, che però fu certamente tenuto all’oscuro della caverna del tesoro sul monte Horeb, a differenza del fratellastro Ircano, che insieme alla madre era l’unico a conoscenza di dove si trovasse esattamente. Dovevano passare lunghi decenni, però, prima che egli avesse l’occasione di sfruttare il suo segreto.
Ircano II era figlio di Aristobulo, primo re asmoneo della Giudea; il suo fratellastro Aristobulo II era figlio di Ianneo, succeduto nel regno per 27 anni. E’ più che ovvio che entrambi vantassero diritti alla successione.
Alla morte di Ianneo, nel 78 a.C., la loro madre Salomè, nota anche col nome greco di Alessandra, per evitare conflitti fra i due fratellastri assunse direttamente la direzione del regno, prima ed unica regina di Israele. Non fece altro che ritardare l’inevitabile. Alla sua morte, nel 69 a.C., i due fratelli si affrontarono per il possesso della corona, finendo, nel 63 a.C, per chiedere l’arbitrato di Pompeo Magno.
Il verdetto di Pompeo fu favorevole ad Ircano II, che però si vide riconosciuto soltanto il titolo di sommo sacerdote, mentre il territorio della Giudea venne di fatto incamerato da Roma e affidato al governo di un non giudeo, l’idumeo Antipatro, padre di Erode. In queste condizioni Ircano II non aveva alcuna possibilità di organizzare spedizioni al monte Horeb, senza suscitare i sospetti dell’avido Antipatro. Passarono gli anni, senza che si presentasse un’occasione favorevole.
Nel 40 a.C. i Parti conquistarono Gerusalemme e Ircano II fu deportato in Persia dal nipote Antigono, che prese il suo posto di sommo sacerdote del tempio. Sembrava che le sue chances di ritornare sul monte Horeb fossero sfumate per sempre, ma le speranze si riaccesero poco dopo, nel 37, quando i romani ripresero Gerusalemme e insediarono sul trono Erode, che si affrettò a sposare la nipote di Ircano Mariamme.
Fra i due iniziarono contatti per il ritorno di Ircano a Gerusalemme. La cosa poteva avvenire senza alcun problema, dal momento che il vecchio ex sommo sacerdote non avrebbe mai più potuto rivendicare la sua carica, poiché Antigono aveva provveduto a fargli mozzare le orecchie, rendendo così impossibile una sua rielezione: una delle regole più ferree stabilite da Esdra, infatti, era che il sommo sacerdote fosse fisicamente integro.
Che interesse poteva avere Erode a far rientrare a Gerusalemme il vecchio Ircano? Ragioni umanitarie? Visto il soggetto appare umoristico. Giuseppe Flavio fornisce una più che valida motivazione:
“Erode, dunque, … saputo che Ircano, uno dei re che l’avevano preceduto, aveva aperto il sepolcro di Davide e preso tremila talenti d’argento e che ve n’era ancora una notevole quantità, bastante per pagare tutti i suoi prodighi regali, per parecchio tempo meditò di mettere le mani su di esso” (Ant. Giud.16,179).Erode era uno specialista nel far parlare la gente e conosceva bene le difficoltà di procurarsi denari. Era certo, quindi, che Ircano I doveva aver avuto una fonte di approvvigionamento segreta, per potersi permettere le spese che aveva sostenuto. Sapeva anche che se c’era qualcuno in grado di condurlo al tesoro questi non poteva essere altri che il suo discendente più diretto, Ircano II, e perciò preferiva averlo amico e sotto controllo, a Gerusalemme, cosa che alla fine gli riuscì.
Nei primi anni del suo regno Erode era stato completamente impegnato a rinforzare il proprio potere e a barcamenarsi al meglio nei grandi avvenimenti che squassavano allora l’impero romano. Il suo protettore Giulio Cesare era stato assassinato ed era scoppiata la guerra civile fra Ottaviano e Antonio, che era caduto a sua volta fra le braccia di Cleopatra. Erode non ebbe altra scelta che schierarsi dalla parte di Antonio.
Dopo la battaglia di Azio, il 2 settembre del 31 a.C., che vide la sconfitta di Antonio e Cleopatra, Erode si trovò ovviamente in serie difficoltà ed i suoi sudditi cominciarono ad abbandonarlo, dandolo per spacciato. Decise di affrontare il toro per le corna: messe al sicuro le donne di famiglia nelle fortezze di Masada e dell’Alessandreion (nella valle del Giordano), si recò a Rodi per incontrare personalmente Ottaviano, riuscendo a conquistarne la fiducia e a farsi riconfermare sul trono di Gerusalemme. Era il 30 a.C.
Qualche tempo dopo, quando Ottaviano attraversò la Giudea per recarsi in Egitto, Erode gli riservò accoglienze trionfali e lo rifornì di viveri e soldati, nonché di un dono personale di 800 talenti, “dando a tutti l’impressione di fare mostra che il grande e splendido servizio da lui offerto era più grande e splendido di quanto il suo regno poteva permettersi” (Antichità Giudaiche, XV, 200).
Dove aveva preso tutto quel denaro? Dopo le spoliazioni subite ad opera di Cesare e Antonio, la Giudea non nuotava certo nell’oro; tanto più che proprio nel 30 a.C. era stata colpita da un disastroso terremoto ed era appena uscita da una guerra contro i Nabatei, che aveva dissanguato Erode. Torneremo più in dettaglio sui particolari di questa guerra. Importante per il momento è far notare che fu proprio al termine di essa che Erode si trovò improvvisamente a nuotare nell’oro, dando inizio ad una politica di spese e prodigalità senza precedenti nella storia, anche per regni di gran lunga più prosperi del suo, che gli fruttò giustamente da parte dei contemporanei il titolo di “Grande”.
Cominciò con il dono “personale” di 800 talenti ad Ottaviano Augusto, tanto sontuoso da suscitare le perplessità dei suoi sudditi. Ma non si limitò a questo. In suo onore edificò un teatro a Gerusalemme ed un anfiteatro in pianura, dove organizzava costosissimi giochi per intrattenere ed onorare il sovrano. Contemporaneamente dette inizio ad una attività edilizia frenetica, veramente sbalorditiva. In un primo momento, si trattò di opere a carattere militare, intese a rendere sicuro il regno: costruì fortezze a Gerusalemme, a Cesarea, nella Galilea e nella Perea ed una intera città fortificata, Sebaste, in Samaria, circondandola con una imponente cerchia di mura.
L’attività edilizia subì una battuta d’arresto nel 25-24, a causa di una spaventosa carestia che colpì l’intera regione e a cui Erode fece fronte comprando in Egitto, a sue proprie spese, enormi quantità di grano e altre provvigioni. Ma subito dopo riprese con la costruzione di un grandioso palazzo a Gerusalemme, colmo di ogni lusso immaginabile, e della fortezza dell’Erodion, costruita su una vera e propria collina artificiale, nonché di una città ai suoi piedi.
Non aveva ancora terminato questa impresa che, nel 22-21, dette inizio ad un progetto grandioso, che sarebbe terminato dopo dodici anni: la costruzione del porto di Cesarea, che divenne uno dei più grandi e meglio attrezzati del Mediterraneo, arricchendo la città di splendidi palazzi.
E infine, nel 20 a.C. dette il via alla sua opera più imponente e famosa: il nuovo tempio di Gerusalemme (Antichità Giudaiche, XV, 380 e seg.). Un’opera che stava alla pari con le piramidi egizie e strappava grida di meraviglia in tutto il mondo antico. A cominciare da Giuseppe Flavio che dice testualmente:
“Per il costo sorpassò i suoi predecessori, sicché si pensava che mai alcuno avesse ornato il tempio con tanto splendore. Ambedue i portici erano retti da una grande muraglia, questa muraglia era la più grande edificata dall’uomo di cui mai si sia sentito parlare.”Parole esagerate? No, se solo si ha la fortuna di visitare quella muraglia fino alle sue fondamenta.
La parte visibile in superficie, nota come “muro del pianto”, è soltanto una porzione insignificante. Prenotandosi con adeguato anticipo si può visitare la porzione sotterranea, una ventina di metri più in basso e non si può non rimanere impressionati da quel che si vede. Giunto all’altezza della “sakrah”, la pietra della fondazione che si trova nella moschea di Omar, la guida consegna il capo di una cordella metrica ad uno dei visitatori e lo invita a tirarla fino all’estremità di uno dei blocchi che costituiscono la base della muraglia: 15 metri di lunghezza, esattamente come riferisce Giuseppe Flavio.
Tanto grandioso era il progetto, che quando Erode riunì i maggiorenti di Giuda per annunciare le sue intenzioni, essi furono presi dallo sgomento, perché temevano che una volta abbattuto il vecchio tempio non avrebbe avuto i mezzi per edificare il nuovo. Erode li tranquillizzò assicurando che prima di abbattere il vecchio avrebbe approntato tutti i materiali per edificare il nuovo tempio. Cosa che fece in brevissimo tempo.
E il tutto, secondo quanto riferisce Giuseppe Flavio, a sue proprie spese personali, senza minimamente gravare sui cittadini. Anzi, proprio in quell’anno di massima attività edilizia si permise il lusso di diminuire le tasse in tutto il regno (A.G. XV, 365) addirittura di un terzo.
Di fronte a questi fatti, dobbiamo dare per storicamente certo che tra il 30 ed il 26 a.C. Erode entrò in possesso di una enorme fortuna, che impiegò generosamente negli anni successivi per consolidare il proprio potere personale e rendere grande il regno di Giuda. Di che cosa si trattava? Non c’è bisogno di tirare ad indovinare; è lo stesso Giuseppe Flavio che provvede ad informarcene:
“Erode, saputo che Ircano aveva aperto il sepolcro di Davide e preso tremila talenti d’argento, per parecchio tempo meditò di mettere le mani su di esso. Così una note aprì il sepolcro e vi entrò dentro: prese le precauzioni di non essere visto da alcuno, portando esclusivamente i suoi amici più fidati.
Tuttavia, a differenza di Ircano, non trovò monete, ma soltanto una dovizia di oro e depositi preziosi e portò via tutto.
Era intento a farne una ricerca più accurata giungendo fino a rompere e aprire le casse nelle quali si trovavano i corpi di Davide e Salomone. Si dice però che due persone della guardia del corpo, nell’entrare, furono consumate da una fiamma e lo stesso re ne fu atterrito.” (A. G. XVI, 179 seg.).
E’ ovvio, quindi, che Erode comperò il favore dei romani e finanziò la sua prodigiosa attività edilizia con i soldi prelevati nella stessa tomba a suo tempo saccheggiata da Ircano I. L’evidenza storica lascia adito a ben pochi dubbi in proposito. Si tratta di capire come e quando Erode si procurò le informazioni necessarie per questa impresa e quando ebbe l’opportunità di metterla in atto.
Giuseppe Flavio certamente non dice tutta la verità e non fornisce alcuna informazione utile per la localizzazione esatta della tomba. Tomba che non è quella del singolo Davide, come diceva all’inizio, ma è indubbiamente una tomba di famiglia, dove si trovava anche Salomone e forse altri re di Giuda.
Egli fornisce però tutti i pezzi del puzzle per ricostruire il dove e quando. C’è tutta una serie di informazioni e “coincidenze”, nel suo racconto, che non possono essere casuali. Egli però le ha disseminate qua e là, in maniera apparentemente slegata, così che non possano essere ricollegate le une alle altre, a meno che non si abbia un preciso interesse proprio su questo argomento.
Basta metterle assieme per avere una ricostruzione coerente e credibile dei fatti. Fatti che ci riportano ancora e sempre nel territorio dei Nabatei e quindi ad Har Karkom, al monte 788 , ai cui piedi Ircano I aveva piantato il suo accampamento, nel 137 a.C..
Esattamente 107 anni dopo, suo nipote Ircano II veniva ucciso a Gerusalemme da Erode, per ragioni che erano una diretta conseguenza di quella lontana spedizione. Giuseppe Flavio riporta due versioni per questa esecuzione. Una “non vera”, attribuita a chi non conosceva esattamente i fatti, secondo cui Erode, durante un banchetto, accusò Ircano di tradimento, per aver accettato dei regali dal re dei Nabatei Malco (Ib. XV, 174-178); accusa che Giuseppe respinge come del tutto priva di fondamento, affermando che “era un pretesto inventato da Erode”.
Per quale motivo? Giuseppe afferma di conoscere la verità, per averla letta “nelle memorie stesse del re Erode”. (Interessante confidenza, questa, da parte dello storico, che testimonia come egli, dopo la caduta di Gerusalemme, fosse entrato in possesso proprio degli archivi segreti del Tempio e della corte.)
Tutto era cominciato, secondo quanto egli riferisce (Ib., XV, 161-173), con una lettera mandata da Ircano II al re dei Nabatei, Malco. Ircano, come si è detto, viveva felice e riverito (anche se privo delle orecchie,) nel paese dei Parti, dove era stato deportato, dopo la conquista di Gerusalemme da parte di suo nipote Antigono, fino a che non fu convinto, non è ben chiaro se da Erode o da sua moglie Mariamme/Alessandra, a ritornare a Gerusalemme.
Secondo una prima versione di Giuseppe Flavio, Ircano, subito dopo la battaglia di Azio, nel 31 a.C., avrebbe scritto una lettera al re dei Nabatei Malco, chiedendogli aiuto a per rientrare a Gerusalemme, perché prevedeva che Erode si sarebbe trovato presto in difficoltà, dopo la sconfitta del suo alleato Antonio, e voleva essere pronto a raccoglierne l’eredità.
A quanto riferisce Giuseppe Flavio, nella lettera Ircano chiedeva una scorta di “uomini a cavallo per prenderli e scortarli fino al lago Asfaltide (Mar Morto), che si trova a trecento stadi dai confini di Gerusalemme”. Egli consegnò la lettera ad un suo servitore, certo Dositeo, in cui aveva piena fiducia
“perché era devoto sia a lui che ad Alessandra, e aveva non pochi motivi per essere nemico di Erode, essendo egli congiunto di Giuseppe, che era stato ucciso dal re … Però queste ragioni non indussero Dositeo ad essere fedele nel servizio ad Ircano, contando sulle speranze di ricompense maggiori dal re che da Ircano, e consegnò la lettera a Erode.
Il re gli espresse soddisfazione per la sua lealtà e insistette perché gli facesse ancora un altro servizio: ripiegare la lettera, sigillarla e riportare indietro la sua risposta, perché era di grande importanza conoscere le intenzioni di Malco. Dositeo compì accuratamente tutto questo.
L’Arabo gli rispose che accoglieva Ircano … e che non gli sarebbe mancato nulla di quanto desiderava. Allorché Erode ricevette la lettera, mandò immediatamente a chiamare Ircano e lo interrogò a proposito degli accordi avuti con Malco; …poi condannò l’uomo a morte”. (XV, 168-173).
In questo resoconto Giuseppe Flavio trascura un piccolo particolare, assolutamente essenziale: quando scrisse quella lettera a Malco, Ircano non si trovava in Persia, ma era già a Gerusalemme da qualche tempo. E’ lo stesso Giuseppe Flavio a confermarlo, contraddicendo quanto riferisce in un primo tempo in merito alle motivazione di quella lettera a Malco.
Soltanto poche righe dopo, infatti, in XV, 178, dice testualmente che Ircano quando tornò a Gerusalemme
“aveva più di ottanta anni di età e sapeva che il governo di Erode era sicuro; inoltre quando aveva passato l’Eufrate lasciando dall’altra parte del fiume quelli che lo onoravano, sapeva di mettersi completamente sotto il suo potere; perciò era molto inverosimile e lontanissimo dalla sua natura che egli macchinasse qualcosa di rivoluzionario”. Poco più avanti, in XV 181, fornisce un’ulteriore conferma, dicendo che Ircano “fece ritorno nella sua patria, trattovi dalle speranze riposte in Erode.”
Poiché Ircano fu ucciso dopo la battaglia di Azio e immediatamente prima che Erode si recasse a Rodi per incontrare Ottaviano (vedi XV, 183: liberatosi di Ircano, Erode accelerò il viaggio da Cesare...) appare evidente che egli rientrò a Gerusalemme prima ancora che scoppiassero le ostilità fra Ottaviano e Antonio, quando Erode, alleato di quest’ultimo, era saldamente in sella e niente sembrava minacciare il suo regno. Fu durante questo periodo che egli dovette scrivere la sua lettera a Malco. Certamente non conteneva nulla di rivoluzionario, perché, come ripete Giuseppe Flavio, questo era lontanissimo dalla sua natura e contrario al suo interesse.
Nondimeno in quella lettera chiedeva a Malco una scorta. Per recarsi dove? Facile intuirlo. Ircano II aveva saputo da sua madre Salomè il segreto della tomba. Per tutta la vita aveva atteso l’occasione propizia per recarsi sul posto e ripetere l’exploit del nonno, senza che mai si presentasse. Era tornato a Gerusalemme probabilmente proprio con l’intenzione di cercare quell’occasione, per dare finalmente compimento al sogno della sua lunga vita. Si ritrovò, vecchio e solo, sotto la tutela di un sovrano avido e sospettoso come Erode di cui non poteva in alcun modo fidarsi.
Per coronare la sua impresa doveva necessariamente avere l’appoggio dei Nabatei. Ma era troppo vecchio per poter condurre personalmente le operazioni. Dovette necessariamente affidarsi a qualcuno di cui aveva piena fiducia e spiegargli in dettaglio l’intera operazione. Scelse quel certo Dositeo, che per i suoi precedenti riteneva fedele a tutta prova.
Fiducia mal riposta, come si è visto, perché Dositeo si affrettò a consegnare ad Erode la lettera con la quale Ircano chiedeva a Malco appoggio per la una spedizione. Fu questa lettera e la successiva risposta probabilmente all’origine della guerra che Erode scatenò subito dopo contro i Nabatei. Guerra per la quale Giuseppe Flavio adduce motivazioni ufficiali piuttosto deboli.
Si era ormai giunti allo scontro finale fra Antonio e Ottaviano. Antonio si apprestava a partire per Azio ed Erode, da buon alleato, avevano approntato un esercito da mettere a sua disposizione. Ma “Antonio disse di non aver bisogno del suo aiuto e gli ordinò di andare contro il re arabo”. L’aveva fatto, a quanto riferisce Giuseppe, su richiesta di Cleopatra, la quale pensava “che se i due re si fossero reciprocamente indeboliti, lei ne avrebbe approfittato” (XV,110).
Se si pensa che questo avveniva alla vigilia della battaglia che avrebbe deciso le sorti di Antonio e Cleopatra, la scusa appare poco credibile. In realtà Erode doveva avere motivazioni strettamente personali: da quando aveva saputo
che Ircano I aveva aperto il sepolcro di Davide e preso tremila talenti d’argento e che ve n’era ancora una notevole quantità, bastante per pagare tutti i suoi prodighi regali, non fece altro che meditare di mettere le mani su di esso” (Ant. Giud.16,179).Per riuscirci doveva necessariamente avere libero accesso al territorio nabateo ed ovviamente non aveva alcuna intenzione di spartire il bottino con il suo collega Malco e tanto meno con Ircano. L’occasione era propizia. Antonio e Cleopatra erano partiti con il grosso delle forze. Fossero stati sconfitti, l’unica speranza di Erode per restare a galla era quella di “comperare” il vincitore.
Erode entrò con il suo esercito in territorio nabateo e vinse un primo scontro a Dispoli (XV, 111), probabilmente perché gli arabi non si aspettavano di essere attaccati dal loro vicino, con cui erano sempre stati in ottimi rapporti. Subito dopo, però, Erode subì una rovinosa sconfitta, in cui perse gran parte del proprio esercito e fu costretto a ritirarsi (XV, 112-120).
Nel frattempo (2 sett. 31 a.C.) Antonio e Cleopatra era stati sconfitti ad Azio. Subito dopo, nel 30, un disastroso terremoto colpì la Giudea, nel quale morirono più di trentamila persone. I Nabatei cercarono di approfittare della situazione attaccando Erode, che si trovò in una situazione alquanto critica, ma alla fine riuscì ad infliggere agli arabi una cocente sconfitta.
“Dopo aver sopportato una simile sconfitta questi persero la presunzione che avevano prima, ammirarono le doti strategiche di Erode, messe in evidenza dalle loro disavventure: perciò si sottomisero a lui e lo proclamarono campione (difensore, protettore) della nazione”, (XV, 159) .Magro risultato per una guerra che gli era quasi costata il regno; i nabatei non furono neppure soggetti a pagare un tributo, limitandosi a riconoscere la superiorità dell’avversario e, potremmo scommetterci, a concedergli libero accesso al monte Horeb. Era tutto quello che Erode desiderava e non pretese altro, affrettandosi a recarsi al monte Horeb, per saccheggiare la tomba di Davide e Salomone.
Dopo di ché tornò a Gerusalemme e si liberò di Ircano, divenuto ormai un incomodo testimone (XV 160 e seg,).
Poi partì per Rodi, per incontrare Ottaviano e certamente non arrivò a mani vuote. Più che le sue belle parole, infatti, dovettero essere i suoi sontuosi regali, fra cui 800 talenti d’oro (una cifra enorme per quei tempi) a convincere l’imperatore a riconfermare Erode sul trono di Gerusalemme. Qualche mese dopo, Ottaviano fu accolto in Giudea
“ con tutta la magnificenza regale e fu ospitato con tutto il suo esercito con doni e abbondanza di provvigioni e di doni. Egli fu annoverato fra i più leali amici di Cesare, e cavalcava con lui mentre passava in rassegna le truppe e alloggiò sia lui che i suoi amici in centocinquanta appartamenti, allestiti con ricca magnificenza per il loro conforto.Più tardi egli intrattenne l’imperatore con giochi sfarzosi in un anfiteatro nuovo di zecca, costruito per l’occasione.
Quando attraversarono il deserto li rifornì con abbondanza di ogni cosa necessaria, sicché non mancarono né di vino né di acqua.
A Cesare personalmente, Erode fece un regalo di ottocento talenti, dando a tutti l’impressione di fare mostra che il grande e splendido servizio da lui offerto era più grande e splendido di quanto il suo regno potesse permettersi”, ( XV, 199-200).
Dove aveva preso tutto quel denaro? Visto lo svolgimento dei fatti e la loro tempistica, non ci possono essere dubbi: nello stesso luogo in cui a suo tempo Ircano I aveva prelevato i suoi tremila talenti. Subito dopo la vittoria ottenuta sui Nabatei, egli dovette proseguire con pochi intimi fino al monte Horeb ed effettuare il prelevamento senza dare troppo nell’occhio. Non gli ci volle molto tempo.
Ircano I sapeva dov’era il monte, ma non aveva la più pallida idea di dove si trovasse la tomba. Aveva dovuto organizzare una spedizione in grande stile, in grado di rivoltare completamente il monte, senza alcun limite di tempo, di uomini e di mezzi. Erode, invece, andava a colpo sicuro, perché sapeva esattamente cosa cercare e cosa fare. Ircano II aveva certamente confidato a Dositeo dove si trovava l’ingresso e come si poteva forzarlo. Un limitato numero di persone erano in grado di aprirlo e richiuderlo nel giro di pochi giorni, se non addirittura poche ore.
“Così una notte Erode aprì il sepolcro e vi entrò dentro: prese le precauzioni di non essere visto da alcuno, portando con sé esclusivamente i suoi amici più fidati (e naturalmente l’amico infedele di Ircano, Dositeo, l’unico che conosceva la strada). Tuttavia, a differenza di Ircano non trovò monete, ma solo una dovizia di oro e depositi preziosi, e portò via tutto. Era intento a farne una ricerca più accurata, giungendo fino a rompere e aprire le casse nelle quali si trovavano i corpi di Davide e Salomone”. (XVI, 180-181)
Raggiunto il proprio scopo, Erode tornò nella Giudea carico di quattrini, che gli consentirono di risollevare le sue traballanti sorti (ormai tutti lo davano per spacciato, sia amici che nemici). A questo punto Ircano era diventato inutile e poteva, anzi doveva, essere eliminato, cosa che Erode fece non appena di ritorno a Gerusalemme, con il pretesto di aver tramato contro di lui con i Nabatei. Poi si prese cura di Ottaviano.
Ottaviano fu così impressionato e contento dell’accoglienza e prodigalità di Erode, che lo volle con se in Egitto, dove sistemò le ultime faccende in sospeso con Antonio e Cleopatra. Qui trattò
“Erode come un vecchio amico e gli concesse favori molto grandi. Per esempio gli fece dono dei 400 Galli che erano stati la guardia del corpo di Cleopatra, gli restituì il territorio che gli era stato tolto da lei; aggiunse inoltre al suo regno Gadara, Hippo e Samaria ecc… Ottenuti questi possedimenti Erode divenne ancora più celebre; scortò Cesare sulla via di Antiochia e in seguito ritornò a casa”. (XV, 217)
A casa Erode trovò una situazione familiare piuttosto disastrosa. Sua moglie Mariamme non riusciva a nascondere il proprio risentimento per l’uccisione dello zio Ircano e prima ancora del fratello Aristobulo III. Ne approfittarono la sorella e la madre di Erode, che odiavano la donna dal più profondo, per imbastire contro di lei accuse di tradimento; e tanto fecero che riuscirono infine a farla condannare a morte, nel 29 a. C.. Giuseppe Flavio sostiene a più riprese che Erode amava teneramente la moglie e rimase sconvolto e distrutto dal dolore per la sua morte, ordinata da lui stesso.
Questo non gli impedì di lanciarsi in una frenetica attività edilizia, intesa più che altro a rendere sicuro il proprio regno. A parte “un teatro Gerusalemme ed un amplissimo anfiteatro in pianura”(XV, 268), costruiti in onore di Augusto, il resto delle sue costruzioni erano a carattere prevalentemente militare. Fortificò il suo palazzo a Gerusalemme e a difesa del Tempio eresse l’imprendibile e celeberrima fortezza Antonia.
Poi costruì una fortezza a Sebaste, in Samaria ed una sulla costa, nella località dove più tardi avrebbe edificato Cesarea.
“Nella grande pianura fondò località per la sua cavalleria … una a Gaba in Galilea e l’altra Esebonite, in Perea… e dispose guarnigioni per tutta la regione … fortificò la Samaria, erigendo una nuova città, Sebaste…. Cinse la città di una forte muraglia … dentro di essa eresse un tempio che per dimensioni e bellezza era tra i più rinomati; abbellì le varie parti della città con una varietà di strade e la trasformò in una eccellente fortezza: la fece splendida, per lasciare ai posteri un monumento del suo amore per il bello e della sua filantropia” (XV 292-298).
Alla fine dovette rimanere a corto di quattrini, “avendo messo tutto il suo denaro in ricostruzioni di sontuose città e non c’era nulla che sembrasse adeguato a risolvere la situazione” (XV, 303). Fu costretto a tornare sul monte Horeb, nella tomba saccheggiata appena tre anni prima, per cercare di rifornirsi nuovamente. Giuseppe non dice che Erode sia entrato due volte nella stessa tomba; ma la cosa appare ragionevolmente certa sia in base alle risultanze storiche, vale a dire ai momenti in cui Erode si trovò ad avere (inspiegabilmente) grandi disponibilità di denaro, sia in base alla descrizione del saccheggio operato da Erode, avvenuto chiaramente in due fasi distinte.
La prima volta, infatti, si limitò a ripulire accuratamente i locali della tomba di Davide e Salomone di tutto quello che vi era stato lasciato da Ircano (che essendo sacerdote aveva rispettato gli oggetti sacri e i cadaveri), giungendo perfino ad aprire i sarcofagi dei due re e a spogliarli di ogni ornamento. Con l’esercito accampato a poca distanza, nel deserto, e Ottaviano che minacciava di sopraggiungere da un momento all’altro, non aveva possibilità di attardarsi ulteriormente, per cui se ne andò non appena ebbe racimolato una somma sufficiente per le sue esigenze immediate. Notevole, certo, ma non strepitosa.
In Antichità Giudaiche, VII, 392, infatti, Giuseppe Flavio riferisce che
“Ircano aprì una delle camere della tomba di Davide e prelevò tremila talenti…Dopo l’intervallo di molti anni, re Erode aprì nuovamente un’altra camera e portò via una grande somma di denaro. Nessuno di loro, tuttavia, giunse fino alle casse dei re, poiché erano state abilmente sepolte in terra in modo che non potevano essere viste da alcuno che entrasse nella tomba”.La tomba, quindi, era costituita da una serie di camere consecutive, il cui ingresso doveva essere accuratamente mimetizzato. Erode doveva però averlo saputo in qualche modo, o notato durante la sua prima visita, per cui si era certamente ripromesso di tornare sul posto non appena ne avesse avuto la necessità e l’occasione, il che avvenne tre o quattro anni dopo, tra il 27 ed 25 a.C..
Giuseppe riporta la cosa in maniera singolare e a quasi umoristica, ma del tutto trasparente. In XV, 244, riferisce che Erode non riusciva a darsi pace per la morte di Mariamme ed era roso dal rimorso, al punto che decise “di ritirarsi nel deserto, ove la scusa della caccia lo sollevò dalla sua sofferenza”. Trattandosi di Erode la scusa per questa sua andata nel deserto appare piuttosto debole.
Non si può fare a meno di sospettare che sia tornato invece in gran segreto alla caverna del tesoro per completarne il saccheggio. Ed il sospetto diventa pratica certezza quando si viene a sapere che tornò da questo ritiro affetto da un
“misterioso morbo: si trattava di una infiammazione dolorosa alla cervice, con perdita temporanea della coscienza e nessuno dei rimedi provati gli era di giovamento: al contrario l’effetto era opposto; infine giunse al punto in cui la sua vita era disperata”.
Cos’era accaduto? Non è difficile capirlo, sulla base della cronaca di Giuseppe Flavio. In questa seconda visita Erode, accompagnato come al solito dai suoi amici più fidati, compreso lo stesso Dositeo, aprì una seconda camera, ricolma di tesori, il cui ingresso si doveva trovare, accuratamente mimetizzato, sotto il pavimento della prima (lo stesso accade nella tomba di Gerusalemme, nota come “Tombe dei re di Giuda” – ma in realtà di epoca romana – costituita da una serie di locali in cascata, i cui ingressi si trovano, ben nascosti sotto lastre di pietra, sul pavimento di ogni camera, o all’interno dei loculi in cui sono sistemate le bare). Erode ed i suoi amici dovettero razziare un bottino enorme, a giudicare almeno dalle cifre colossali che fu in grado di spendere in seguito.
Ma l’avidità, o forse la semplice curiosità, li indusse a spingersi ancora oltre. A detta di Giuseppe Flavio nella caverna esistevano vari altri locali nascosti, che Erode non riuscì a raggiungere, molto probabilmente perché il loro ingresso era protetto da trappole mortali. Ed infatti quando i violatori tentarono di forzare uno di questi, furono investiti da un’improvvisa fiammata e due di essi rimasero inceneriti: “si dice che due persone della guardia del corpo, nell’entrare, furono consumate da una fiamma e lo stesso re ne fu atterrito.” (XVI, 182)
Il particolare della fiammata assassina è molto significativo e ci ricollega direttamente a Mosè. Questo fuoco misterioso e micidiale compare a più riprese nella sua storia, risolvendo alcuni dei suoi momenti più critici. Le prime vittime furono i due figli maggiori di Aronne, Nadab e Abiu. In Levitico 10, 1 si dice che i due malcapitati “presero ciascuno un braciere, vi misero dentro il fuoco e il profumo e offrirono davanti al Signore un fuoco illegittimo; ma un fuoco si staccò dal Signore e li divorò…” .
Si era trattato certamente di un incidente, mentre stavano preparando gli incensieri “mortali”, che avrebbero dovuto essere distribuiti ai sostenitori di Cora, che si era ribellato contro Mosè ed Aronne, sfidandoli ad un giudizio divino (Num. 16).
La loro morte, per quanto dolorosa, non arrestò il piano. Il giorno della sfida Cora si presentò all’appuntamento “davanti a Jahweh” accompagnato dai suoi alleati Datan e Abiram, mentre Eleazaro, il maggiore dei due figli superstiti di Aronne, distribuiva ai loro sostenitori gli incensieri.
Sappiamo l’esito della sfida: Cora, Datan e Abiram furono inghiottiti da una voragine apertasi nel terreno, mentre nello stesso momento “un fuoco uscì dalla presenza del Signore e divorò i loro sostenitori che offrivano l’incenso” (Num. 16, 35). Nessuno credette alla favola del fuoco divino, tant’è vero che “tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosé ed Aronne”, accusandoli apertamente di aver assassinato Cora e i suoi sostenitori (Num. 17, 6 seg.) e minacciando una rivolta. Fu sufficiente la minaccia di Mosè di impiegare nuovamente quel fuoco micidiale per far rientrare la sedizione. Ritroviamo la fiammata omicida poco tempo dopo, a Taberà, quando alcuni oppositori di Mosè, che stavano mormorando contro di lui, vennero inceneriti da un fuoco divampato in mezzo a loro (Num. 11, 1-3).
Non sappiamo quali sostanze usasse Mosè per produrre la sua fiammata micidiale, se fosforo, nitrato, zolfo o qualche altra miscela esplosiva; né conosciamo il metodo d’innesco impiegato. Possiamo immaginare vari sistemi, ma non è rilevante ai nostri scopi immediati. Quel che importa è che Mosè era tecnicamente in grado di produrre congegni incendiari, provenendo dall’Egitto, dove l’impiego di sostanze incendiarie è ampiamente documentato, come ad esempio nei resoconti delle campagne militari di Amenofi II; e la Bibbia documenta in maniera inequivocabile l’impiego di queste sostanze da parte di Mosè.
Il resoconto di Giuseppe Flavio a proposito di una fiammata micidiale, con le stesse identiche caratteristiche, in una caverna proprio all’interno del monte Horeb, costituisce un indizio formidabile circa l’utilizzo di quel monte da parte del profeta.
Dunque Erode doveva essersi pericolosamente avvicinato ad un qualche locale sotterraneo protetto dallo stesso Mosè, e ne rimase letteralmente “scottato”. Giuseppe Flavio dice che ne fu “atterrito”, tanto da abbandonare definitivamente la ricerca; ma è probabile che ne sia rimasto anche gravemente intossicato e sia stato salvato per un pelo dai suoi amici, che riuscirono a trascinarlo all’aperto incosciente, ma ancora vivo. Viste le sue condizioni giudicarono prudente richiudere la tomba e tornarsene a casa al più presto, ben contenti dell’enorme bottino che erano riusciti in ogni caso a razziare.
Erode stette per qualche tempo fra la vita e la morte e i suoi medici, dopo qualche inutile tentativo di cura, intelligentemente lasciarono fare alla natura. Riuscì a sfangarla, per somma sventura di tutti coloro che lo avevano aiutato in quella segretissima impresa. Logica e prevedibile conclusione di quella vicenda: la conoscenza del segreto di quella tomba equivaleva ad una condanna a morte sicura, come era stato per i madianiti della tribù di Cozbi e per gli sfortunati operai di Ircano I. Erode non poteva comportarsi diversamente: provvide a sistemare l’incresciosa faccenda non appena si fu ristabilito.
La motivazione addotta da Giuseppe Flavio per questo eccidio è addirittura comica. Eccola:
“Riavutosi a stento dal lungo travaglio del morbo, era di pessimo umore e si trovava dolorante nell’animo e nel corpo e trovava ovunque manchevolezze, pronto a servirsi di qualsiasi pretesto per punire quanti gli capitavano sotto mano. Così fece uccidere i suoi più stretti amici, Costobaro (fra l’altro marito di sua sorella Salomé - nda), Lisimaco, Antipatro, detto Gadia, e anche Dositeo” (XV, 251-2).E’ sufficiente la presenza fra di essi di Dositeo, il fedifrago confidente di Ircano II, per confermare che si tratta proprio degli intimi amici che lo avevano accompagnato nella caverna del tesoro. Né i vincoli di parentela e di amicizia, né il debito di riconoscenza per averlo aiutato e salvato in quell’impresa furono sufficienti a metterli al riparo dall’inevitabile condanna a morte. E chissà quanti dei loro familiari, servi ed amici subirono la stessa sorte per lo stesso motivo, semplicemente perché sospettati di “sapere” qualcosa.
Ancora un eccidio, l’ultimo riportato dalle cronache, per tutelare quel segreto. Da allora in poi nessuno più, che sia dato sapere, violò la tomba sul mondo Horeb. Alleggerita con mano rispettosa da Ircano I, nel 137 a.C., brutalmente razziata da Erode in due riprese, nel 30 e nel 26 a.C., essa conserva ancora intatti i suoi tesori più preziosi, nelle sue camere più segrete e irraggiungibili, protette dai micidiali congegni pirotecnici di Mosè.
Quell’esperienza aveva minato irrimediabilmente la salute di Erode, ma gli aveva procurato una fortuna colossale, sufficiente a consentirgli di realizzare i suoi più folli sogni edilizi. Il numero e la grandiosità delle sue realizzazioni, che hanno del miracoloso, strappa grida di meraviglia da parte di tutti gli storici; ma stranamente nessuno si domanda dove egli abbia reperito le risorse economiche necessarie per portarle a compimento. Nessuno, in ogni caso, è in grado di fornire una risposta convincente a questo quesito.
Tutto si può dire di Erode, tranne che non fosse prodigo con il suo denaro e desideroso di impiegarlo in opere che ne immortalassero la memoria. A modo suo, in maniera contorta e psicopatica, era anche capace di nutrire sentimenti di affetto e di gratitudine e cercò di esorcizzare i fantasmi che dovevano popolare di incubi i suoi sonni, dedicando loro alcune delle sue opere più fastose.
Una delle prime cose che fece, una volta rimessosi in quattrini e in salute, fu quella di
“edificare una reggia nella Città Alta, ove costruì camere alte e vastissime, le decorò in modo costosissimo con oro, pietre e pitture; ognuna di esse aveva giacigli per contenere un gran numero di persone, e variavano di dimensione e di nome: una era detta di Cesare, l’altra di Agrippa”. (XV, 318) .Nel libro sulla Guerra Giudaica (V 156-183), Giuseppe Flavio precisa, a proposito di quel palazzo, che
“per l’importanza, la bellezza e la solidità non c’era al mondo nulla di paragonabile. Infatti, oltre che per la sua naturale magnificenza e per l’orgoglioso attaccamento alla città, il re fece costruire tre torri maestose per assecondare l’impulso del cuore, dedicandole alla memoria delle persone che gli erano state più care e chiamandole con il loro nome: il fratello Phasael, la moglie Mariamme e l’amico più caro Ippico”.Phasael e Mariamme sappiamo bene chi fossero e perché meritassero un posto speciale nel cuore o negli incubi di Erode. Ma chi era questo Ippico, per meritare di essere commemorato alla pari dei primi due? Non lo sappiamo: egli non compare mai nelle cronache di Erode, in nessuna delle opere storiche che lo riguardano.
E’ un perfetto sconosciuto; per questo un sospetto si fa strada al suo riguardo. Erode era da poco scampato alla morte nella caverna del tesoro; ma due dei suoi uomini, entrambi suoi intimi amici, dal momento che erano stati prescelti per quella segretissima impresa, erano rimasti uccisi dalla misteriosa fiammata.
Non sapremo mai come siano andate veramente le cose in quella caverna; ma la torre che svettava a Gerusalemme, accanto a quella di Phasael e Mariamme è una chiara testimonianza che Erode doveva ad Ippico moltissimo, probabilmente la sua stessa vita. La cosa più ovvia che ci vien fatto di pensare è che egli abbia fatto scudo con il proprio corpo ad Erode, sacrificandosi per la sua salvezza. Un gesto che gli meritò la gratitudine imperitura del più ingrato sovrano che la storia ricordi.
Ogni singolo pezzo del puzzle è finalmente al suo posto ed il quadro che ne esce è perfettamente nitido e coerente.
Erode razziò la tomba di Davide e Salomone sul monte Horeb in maniera brutale e selvaggia, profanando nel più sacrilego dei modi i sarcofagi ed i corpi stessi dei due re; cosa estremamente riprovevole nel mondo ebraico e che gli procurò terribili incubi nel corso dell’intera sua vita, contribuendo non poco a minare la sua salute fisica e mentale, come Giuseppe sottolinea più volte.
Ma a merito di Erode va detto che egli non sperperò le ricchezze che si era procurato in maniera tanto indegna, ma le impiegò fino all’ultimo centesimo per rendere grande il suo regno e ricostrure il tempio di Gerusalemme con una grandiosità senza pari, facendone una delle meraviglie del mondo, dopo aver letteralmente reinnalzato e spianato il monte Moryah.
A detta di Giuseppe Flavio (Ant. Giud. XV, 380) “Erode diede inizio a questo lavoro straordinario, la ricostruzione della casa di Dio, a sue proprie spese ... riteneva che l’adempimento di questa impresa sarebbe stata l’impresa più insigne di quelle finora compiute e sufficiente ad assicurargli una memoria immortale”. Costruì una fortezza imponente sull’Erodion, dotandola di immense cisterne sotterranee. Niente comunque, al confronto della fortificazioni e delle cisterne costruite sulla rocca di Masada, sulla riva del Mar Morto, su cui edificò anche un grandioso palazzo, terrazzando la montagna in modo da ricavarne alcuni dei più bei belvedere dell’intera Palestina, per il piacere personale suo e dei suoi ospiti.
E ancor più grandioso fu il palazzo reale che si edificò a Gerico. Per non parlare delle altre opere di carattere pubblico; per dirla con le parole stesse di Giuseppe Flavio: “mi pare che non ci sia alcun bisogno di parlarvi delle varie costruzioni che abbiamo erette nella nostra regione, nelle città della nostra terra ed in quelle dei territori conquistati, come dei più bei ornamenti con i quali abbiamo abbellito la nostra nazione, avendo coscienza che voi tutti le conoscete benissimo”.(Ant. Giud., XV, 384)
Per edificare Versailles Luigi XIV aveva impoverito la Francia. Erode fece anche di più, ma “a sue proprie spese”, o meglio a spese della “caverna del Tesoro”, che già aveva finanziato le guerre e le conquiste di Ircano.
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