L'analisi effettuata nelle pagine precedenti ha portato alla conclusione che le conoscenze non soltanto non possono essere identificate con la cultura, ma non fanno neppure parte di questo concetto. E' una conclusione che può lasciare sconcertati o quantomeno perplessi, perché nella prassi comune viene indicata come persona molto "colta" una persona che possiede molte conoscenze di un certo tipo e livello; si stabilisce cioè un rapporto diretto fra quantità e qualità di conoscenze e quantità e qualità di "cultura".
In effetti, esiste un legame molto stretto fra i due concetti: si può attribuire valore solo ed esclusivamente a ciò che si conosce. D'altra parte non esiste conoscenza a cui non venga attribuito un valore. Chi o che cosa determina l'importanza del valore, e cioè la posizione gerarchica che occupa nell'insieme degli altri valori? Noi attribuiamo a fenomeni naturali, come il tuono e il fulmine, un valore diverso da quello attribuito dagli antichi, perché conosciamo la loro causa e natura. Gli antichi invece non la conoscevano, o meglio conoscevano una spiegazione che non era quella che noi riteniamo corretta.
Forse che il diverso valore è dovuto alla diversità della conoscenza? Se questo fosse vero in assoluto, si potrebbero tranquillamente enunciare leggi del genere: "A parità di conoscenze si ha parità di valori"; "A valori diversi corrispondono conoscenze diverse". Si possono portare, però, innumerevoli esempi che dimostrano il contrario. Non si può ragionevolmente sostenere che esista una relazione rigida e consequenziale fra la quantità e bontà delle conoscenze che si possiedono su determinate cose, e il valore che si attribuisce loro. Tanto meno si potrà affermare che a una conoscenza perfetta corrisponde un valore "giusto".
Dobbiamo concludere, pertanto, che il livello dei valori non è necessariamente correlato con la qualità e il livello delle conoscenze. La conoscenza, però, è il mezzo, lo strumento indispensabile attraverso il quale possiamo stabilire razionalmente il valore delle cose le une rispetto alle altre.
Forse che un antico romano aveva la possibilità di negare che il fulmine fosse una manifestazione divina? Per scindere il concetto di fulmine da quello di divinità è evidentemente necessario conoscere cosa sia in realtà il fulmine. I valori possono essere discussi, rivisti e modificati soltanto mediante la conoscenza, la quale ci svela la natura intima delle cose, le relazioni che esistono fra cosa e cosa e l'importanza relativa dell'una in rapporto all'altra.
Ad esempio l'Ecologia, la scienza che studia i rapporti intercorrenti fra le varie componenti di un sistema vivente, serve a farci capire l'importanza di ciascuna di queste componenti in rapporto alle altre e, quindi, a farci attribuire ad ognuna il giusto valore relativo. Soltanto cento anni fa sarebbe apparsa incomprensibile, o addirittura ridicola, una battaglia in difesa di esseri "insignificanti" come vermi, insetti, roditori e via dicendo. Oggi sono battaglie d'avanguardia, combattute da una "elite culturale", che ha acquisito conoscenza dell'importanza di ciascuna specie nell'economia generale della Natura. E' ben vero che il valore, che ciascun individuo attribuisce alla Natura, non ha una precisa relazione con la quantità e precisione delle sue conoscenze in materia di ecologia , ma è altrettanto vero che solo la conoscenza ha consentito di attribuire un giusto valore relativo a ciascuna delle componenti della Natura.
E' soltanto attraverso la conoscenza che la cultura evolve, perché fa apparire privi di significato alcuni valori, mentre ne propone altri cui in precedenza non si attribuiva importanza. Se ne potrebbe dedurre che l’acquisizione di nuove conoscenze sia comunque un bene e che costituisca sempre un arricchimento e un miglioramento della cultura. Come pure che le società che possiedono conoscenze superiori possiedono anche una cultura superiore. E' quello che comunemente si ritiene: nessuno osa mettere in dubbio che la nostra cultura sia superiore a quella di tutte le società primitive o antiche, proprio perché queste possedevano conoscenze scientifiche più limitate.
Noi oggi attribuiamo un valore enorme alle conoscenze, sia per se stesse, in quanto tali, sia, e soprattutto, perché attribuiamo un grande valore agli scopi che esse servono. La Medicina, ad esempio, è importante perché serve ad ottenere un bene cui si attribuisce un enorme valore, e cioè la salute del corpo. Così pure la Fisica ha grande valore, perché ci fornisce strumenti per produrre nuovi oggetti di consumo, nuove armi e macchinari, che ci consentono di aumentare la prosperità economica e la potenza militare, cose cui attribuiamo un valore altissimo. Così dicasi per la maggior parte delle scienze, che sono finalizzate a scopi ben precisi, come quelle economiche, politiche, sociali e così via.
Anche a livello individuale l'acquisizione di conoscenze da parte dei singoli non ha quasi mai il solo scopo di migliorare, elevare la propria cultura, ma è finalizzata ad un qualche altro valore. Normalmente ci si istruisce perché l'istruzione è la chiave che ci apre determinate carriere e, quindi, ci consente di acquisire una determinata posizione sociale e benefici materiali e morali, di grande valore per noi. L'acquisizione di nuove conoscenze è effettuata sulla base di valori che sono già preminenti nella cultura individuale e sociale, a prescindere dalle conoscenze stesse. Sono questi valori che ci dicono quali conoscenze acquisire e come utilizzarle, e non viceversa.
Pochi fra noi occidentali, imbevuti come siamo della cultura del nostro tempo, oserebbero mettere in dubbio il valore della Scienza e delle conoscenze in genere, specie in considerazione dell'enorme quantità di beni materiali che ci hanno messo a disposizione. Non è però così evidente e certo che le conoscenze moderne siano state un gran vantaggio per l'uomo.
Si sente spesso ripetere che la Scienza è benemerita perché ha liberato l'uomo dalla schiavitù della Natura. Può anche darsi che sia vero; eppure quante volte ciascuno di noi ha messo in dubbio questa benemerenza ed è stato punto da invidia per i tanti "schiavi della Natura" che sono vissuti e che ancora allignano sul nostro pianeta. Forse che l'operaio, il dirigente, il ricercatore della FIAT Mirafiori è più libero e felice di un indigeno dell'Amazzonia o della Polinesia? Forse che è meglio essere schiavi delle conoscenze e dei prodotti che esse ci forniscono, piuttosto che della Natura?
Senza contare poi i dubbi atroci che stanno mettendo in crisi molti scienziati e persone responsabili di oggi. Le conoscenze si stanno rivelando ogni giorno di più molto pericolose per la sopravvivenza stessa dell'uomo. Negli arsenali atomici sono accumulate bombe in grado di distruggere cento volte il pianeta con tutti i suoi occupanti. Atroci e spaventose sono le armi messe a punto per la guerra chimica e batteriologica. Ora sta esplodendo anche la "bomba" biologica, l'ingegneria molecolare, l'ingegneria del cervello e altre cose simili, in grado di preparare un futuro da incubo per l'uomo. Altre bombe e minacce del genere, sempre più micidiali, verranno sfornate a ritmo accelerato negli anni a venire.
Che cosa sono quindi le conoscenze: un mezzo per modificare la cultura e migliorarla, o al contrario per annientarla, distruggendo il soggetto stesso della cultura? Sono un bene o un male? A ragione si dice che le conoscenze in se stesse non sono né buone né cattive; è l'uso che se ne fa che le rende tali. L'impiego, però, è un comportamento dell'uomo, determinato quindi dalla sua cultura e cioè dai valori in cui esso crede.
Ma, e ritorniamo alla domanda iniziale, chi o che cosa determina questi valori? Le conoscenze stesse? No di certo; esse sono solo un mezzo a disposizione dell'uomo; ma se non si sa come impiegarlo e a quale scopo finalizzarlo, più che utile può risultare disastroso. Per impiegarlo correttamente, e cioè finalizzarlo a qualcosa di veramente utile, occorre aver determinato già a priori quali siano i valori che più contano; occorre cioè possedere già valori saldamente radicati e capaci di sostenere l'urto delle nuove conoscenze.
Prima di procedere alla forsennata acquisizione di sempre nuove conoscenze scientifiche, quindi, sarebbe fondamentale e prioritario determinare quali siano i valori cui esse debbano essere finalizzate.
Oltre alle conoscenze ci sono altri concetti che comunemente vengono associati a quello di cultura, quando non proprio identificati con esso. Uno di questi è l'Arte, in tutte le sue forme e manifestazioni.
Per sapere quale relazione esista fra arte e cultura, così come da noi definita, bisognerebbe prima sapere esattamente cos'è l'arte. Anche questo è uno di quei concetti ambigui e polivalenti, che si prestano a tutte le definizioni e speculazioni, e che meriterebbe pertanto una approfondita analisi a se stante. Ci sono però alcune proprietà e caratteristiche dell'arte, o meglio di alcune branche del vasto complesso di attività umane che passano sotto questo nome, che consentono di stabilire, anche se in via provvisoria e approssimativa, il rapporto che intercorre fra i due concetti.
Innanzitutto è indubbio che il concetto di arte è legato alla "produzione" di oggetti, immagini, composizioni letterarie e via dicendo. Non tutto ciò che è prodotto dall'uomo, però, è "artistico"; qual è la differenza? L'uomo produce evidentemente per soddisfare determinate sue esigenze, che possono essere sia materiali che spirituali. Ebbene, l'arte produce "beni" che spesso non hanno la minima funzione materiale: un quadro, una statua, una poesia non servono a nulla se non ad essere visti e ascoltata.
Sembrerebbe, quindi, che l'arte produca "cose" che hanno la funzione di appagare non tanto bisogni materiali, quanto piuttosto bisogni spirituali dell'individuo. Concettualmente, però, non c'è differenza fra le due categorie di "cose": come non sono cultura, cioè valori, le prime, così non lo sono le seconde.
C'è da osservare, tuttavia, che l'arte raffigura normalmente temi che sono importanti per l'artista e per la società di cui fa parte. Rappresenta cioè le cose che hanno molto valore, quelle che maggiormente contribuiscono a caratterizzare una determinata cultura. E' il valore che l'artista attribuisce a una certa cosa che lo spinge a rappresentarla, non viceversa. La rappresentazione sarà tanto più efficace, tanto più "artistica" quanto meglio avrà saputo comunicare il valore di quella cosa.
L'arte, a differenza delle conoscenze, non è un mezzo per ampliare e migliorare la nostra cultura, soltanto per esprimerla e comunicarla. A differenza delle prime, quindi, l'arte non può essere di per se stessa nociva e non necessita di vincoli, né di finalizzazioni; per lo meno non più di quanto lo necessiti un qualunque altro mezzo di comunicazione.
Altro concetto ambiguo, che si applica a una vasta gamma di situazioni e che viene spesso identificato con cultura, è quello di "civiltà". Cosa rappresenti realmente è difficile dire. Ha però alcune caratteristiche ben precise: normalmente viene impiegato con un significato che, in qualche modo, precisa e nobilita il termine "cultura".
Civile è chi si comporta secondo determinate norme di comportamento che si riconoscono corrette nella società cui si appartiene. Civile è chi è ben educato, non mette le dita nel naso, si lava spesso, non fa schiamazzi notturni, non stupra, non tortura, non distrugge senza motivo, condivide i nostri stessi principi morali. Barbaro, incivile è chi si comporta in modo diverso e non condivide i valori che si riconoscono importanti, indipendentemente dal gruppo di appartenenza. Civile, insomma, è tutto ciò che riteniamo buono, barbaro il contrario.
In questo senso, quindi, "civiltà" potrebbe sembrare un sinonimo di cultura buona, elevata, raffinata e progredita. Parallelamente, però, ha anche un significato che, più che ai valori e alle norme di comportamento, sembra riferito agli oggetti materiali e alle conoscenze, nonché alle strutture sociali e politiche e perfino alla estensione del territorio occupato da un certo gruppo etnico.
Nei nostri libri di storia "civiltà" è quella dei Sumeri, dei Greci e dei Romani. Per le tribù "barbare" della Germania e della Scandinavia si parla solo di "cultura". Come pure solo "cultura" è quella delle tribù indiane del Nord America e dell'Amazzonia, in contrapposizione alla "civiltà" degli Aztechi, dei Maya e degli Incas. Perché? A quel che è dato capire, sembra che la distinzione sia dovuta al fatto che gli uni vivevano in piccole comunità, senza grandi organizzazioni politiche, e abitavano in caverne o capanne; gli altri, invece, costruivano città, strade, palazzi, templi, imperi.
Civiltà, quindi, sembrerebbe un concetto legato più alle conoscenze e alle realizzazioni tecnologiche e politiche, che non alla cultura, e cioè ai valori. Forse perché sono queste realizzazioni materiali che colpiscono maggiormente la fantasia di noi occidentali, che attribuiamo loro un valore smisurato.
Restiamo ammirati, infatti, di fronte a opere gigantesche come le piramidi, la muraglia cinese, le strade romane e incaiche, i templi-montagna dell'Estremo Oriente e dell'America. Ed esclamiamo estasiati "che grande civiltà!", senza preoccuparci se quelle opere sono costate milioni di morti, fiumi di lacrime e sofferenze, schiavitù e atrocità senza fine. Quel che conta è l'opera per se stessa, il monumento imperituro che sfida i secoli, anche se inutile. Opere che ai nostri occhi sono il simbolo della grandezza e potenza dell'uomo e ci riempiono di sconfinato orgoglio.
Sarà giusto? Chissà! Quel che si può osservare è che proporzionalmente formiche e termiti costruiscono opere di gran lunga più grandiose e vivono in società assai più perfette e meglio organizzate delle nostre. Sono civiltà anche quelle? No? E in base a quale criterio neghiamo loro questo appellativo?
In ogni caso, qualunque cosa significhi questo termine, civiltà non è certo identificabile con cultura, e tanto meno con “cultura di tipo superiore”, come vorrebbero certi dizionari.
Nel capitolo precedente siamo giunti alla conclusione che tutti i comportamenti umani sono determinati dalla cultura, intesa come l'insieme dei valori. Esiste però un gran numero di comportamenti che vengono effettuati sulla base di determinate norme, scritte o verbali, le quali, nella concezione comune, sono associate a concetti diversi da quello di cultura, come ad esempio l'etica, o morale
Anzi, non c'è dubbio che la morale determina quelli, fra i nostri comportamenti, che hanno la rilevanza maggiore nella vita pubblica e privata. Poiché, come si è visto, i comportamenti sono sempre provocati da valori, si deve concludere che la morale si identifica con "un" insieme di valori. Si tratta, evidentemente, dei valori più importanti per noi, perché è proprio sulla base di essi che formuliamo i nostri giudizi di bene e male, giusto e ingiusto, virtù e peccato.
Possiamo quindi affermare che la morale è costituita dall'insieme di tutti quei valori che costituiscono il "riferimento" per giudicare il nostro e l'altrui comportamento. Morale, dunque, si identifica con cultura? Non precisamente: ne è soltanto una parte. Cultura è l'insieme di "tutti" i valori, e pertanto riguarda tutto ciò che è noto all'individuo: oggetti materiali, conoscenze, concetti astratti, se stesso e il prossimo. La morale, invece, è costituita da un insieme limitato di valori; a grandi linee possiamo dire che comprende soltanto quei valori che riguardano noi stessi e gli altri; oggetti materiali, conoscenze, sentimenti, concetti astratti e così via, di massima, non ne fanno parte.
Un uomo non si sente "immorale" se incendia un bosco, stermina una specie animale, inquina un oceano, o se detesta e combatte la bellezza, l'arte, la scienza e così via; se ruba una mela al suo vicino sì. Morale, cioè, è l'insieme di quei valori che regolano i nostri comportamenti nei confronti di noi stessi e degli altri.
La morale "cristiana", ad esempio, può sintetizzarsi in poche frasi, come: "Ama il prossimo tuo come te stesso", oppure "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso". Frasi meravigliose e pregnanti, che potrebbero essere assunte come base di una morale universale , ma hanno il loro limite nel significato ed estensione che si intende attribuire ai termini "prossimo" e "altri".
Chi sono gli "altri"? E' intuitivo che la maggiore o minore estensione delle categorie e del numero di chi consideriamo nostro "prossimo" ha una importanza formidabile sui nostri comportamenti. Filosofi e pensatori di tutte le epoche e latitudini hanno tentato e tentano di conferire alla morale un carattere universale; il limite di questi tentativi consiste appunto nella estensione delle categorie che siamo disposti a includere nel novero di quegli "altri" cui si applicano i valori morali.
Solitamente per "altri" non si intendono tutti gli altri uomini, e tanto meno tutti gli altri esseri viventi; ma soltanto una ben determinata parte degli uomini, e cioè quelli che costituiscono il gruppo che consideriamo "nostro". Rubare a un vicino, picchiarlo, ucciderlo è immorale; ma rubare i beni materiali dei nemici e ucciderli, no. Anzi, può essere un atto altamente morale, eroico e meritevole di somma lode e considerazione.
Ma non è strettamente necessario che questi altri, esclusi dal novero degli "altri" cui si riferisce la morale, siano nemici: è sufficiente che siano diversi, o che per un qualche fatto o atto si pongano, o siano posti, al di fuori del gruppo portatore di quella certa morale. Ci fu un tempo in cui uccidere un negro o un indiano, rubargli tutti i suoi averi, distruggere la sua famiglia, la sua società e ridurlo in schiavitù, non era immorale, non era "peccato". Senza andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, imprigionare un ladro o giustiziare un assassino non è considerato immorale.
Domani chissà! Il numero di coloro che devono essere considerati nostro "prossimo" è andato costantemente allargandosi. C'è già chi, rifacendosi a S. Francesco, include fra questi anche gli animali.
Il concetto di morale viene spesso associato a quello di religione. La religione, infatti, custodisce, diffonde, spiega e trasforma in norme pratiche di comportamento un certo complesso di valori morali. Non li crea, li gestisce soltanto, garantendone la validità e la stabilità nel tempo.
Di complessi di valori, però, ce ne possono essere infiniti, tant'è vero che ogni popolazione e, all'interno di una stessa popolazione, ogni ceto sociale e ciascun individuo hanno una loro propria morale. I valori, poi, possono cambiare rapidamente, con il progredire delle conoscenze e i contatti reciproci.
L'individuo, invece, ha bisogno di un complesso di valori incrollabile e immutabile, almeno nell'arco della sua esistenza, cui ancorare le proprie certezze, e in base al quale programmare l'intera sua vita e risolvere gli innumerevoli problemi di comportamento che gli vengono posti dalla realtà quotidiana. Ugualmente, l'insieme degli individui, e cioè la società, ha bisogno di valori ben definiti e saldi, in base ai quali regolare i rapporti fra i suoi componenti.
Compito della Religione è appunto di assicurare l'individuo che i valori propostigli dal pulpito sono giusti e meritano effettivamente che egli li assuma a regola e metro di ogni suo atto e di tutta la sua vita. Ecco quindi la necessità di un'Autorità assoluta, incontestabile, imperscrutabile, che garantisca la validità e solidità nel tempo di quei valori: Dio, onnipotente e onnisciente, origine e fine di tutte le cose, garante supremo di quei valori che Lui stesso ha indicato come importanti. In tutte le religioni, infatti, è sempre Dio (in persona o per il tramite di intermediari da Lui prescelti), che ha "rivelato" i valori morali di cui ciascuna è portatrice.
Ma come si può convincere l'individuo dell'autorità indiscutibile di Dio? Innanzitutto convincendolo che Dio esiste realmente. In secondo luogo dimostrandogli che Egli è il Valore supremo. A Dio, quindi, si dedicano le costruzioni più sontuose, i rituali più sfarzosi, i sacrifici più nobili. Tutto con lo scopo di dimostrare che Egli è realmente il valore supremo e quindi rendere indiscutibile la sua autorità di Garante dei valori morali, dai quali discendono le norme che regolano la nostra vita.
I sacrifici umani alla divinità, comuni a parecchi popoli più o meno antichi, che hanno destato e destano tanto orrore in noi occidentali e che ci hanno fatto emettere giudizi pesantemente negativi nei confronti di quelle culture, avevano appunto questo scopo: a Dio, il valore supremo, si deve donare ciò che ha più valore di tutto, dopo Dio stesso, cioè l'uomo; e fra gli uomini quelli che valgono di più.
I Vichinghi, per esempio, in circostanze eccezionali sacrificavano il proprio re. Gli Incas allevavano a questo scopo figli di re e principi. I Fenici e altri popoli antichi sacrificavano il primogenito del re, e così via. Mai comunque uomini di poco valore, e cioè delinquenti comuni e bassa plebe. Al sacrificato era tributato grande rispetto e ogni sorta di onori. Anche nel "sacrificio" della Santa Messa cristiana si immola a Dio il valor supremo in terra, dopo Dio stesso: il suo divino figliuolo Gesù Cristo.
Tutto questo impressionante spiegamento di mezzi, per convincere dell'autorità del Garante dei valori morali che regolano la vita dell'uomo, è reso necessario dal fatto che non esistono né possono esistere valori assoluti. Qualsiasi valore è sempre e comunque opinabile e soggettivo, e può essere messo in discussione , ma senza valori certi in base ai quali regolare la propria vita, l'uomo entra in crisi e si autoannienta. Diventa pure impossibile la vita in comune e quindi l'esistenza stessa della società.
Che Dio esista veramente oppure no non ha alcuna importanza; una cosa è certa: senza un dio l'uomo non può esistere e neppure la società.
L'ateismo di massa predicato dagli ex regimi comunisti è stato un grosso errore. Nessuna società può sopravvivere senza regole morali; distruggere Dio significa distruggere il garante supremo di quelle regole. E' una battaglia senza senso, perché se ne deve subito creare un altro, magari con barba e baffi, come Marx , ma per quanto si faccia e si dica, l'autorità di un semplice uomo non arriverà mai a eguagliare quella di un Dio sovrannaturale, invisibile e inconoscibile. E' e resta pur sempre un uomo, che ben difficilmente può assurgere al rango di valore supremo a cui dedicare templi fastosi, riti sfarzosi e offerte di valore, senza apparire ridicoli. Se il marxismo si fosse limitato a modificare i valori morali, senza sostituire il Garante di essi, probabilmente la storia del secolo scorso avrebbe avuto un corso ben diverso.
Oggi come oggi, nessun uomo e neppure la Scienza o lo Stato possono ricoprire il ruolo di garanti dei valori morali in modo altrettanto efficace quanto Dio, almeno presso una parte notevole della popolazione. La religione, quindi, ha davanti a sé ancora un lungo avvenire.
La religione gestisce soltanto una parte dei valori che formano la cultura, quella che abbiamo indicato col nome di "morale", e che è evidentemente la più importante, perché normalizza il comportamento dell'individuo nei confronti di se stesso e degli altri individui del suo gruppo. Ma anche tutti gli altri valori che formano la cultura determinano il comportamento dell'individuo. Chi "gestisce" questi valori, emettendo normative di comportamento? E soprattutto chi ne garantisce la validità?
Nelle società primitive è la comunità stessa che li gestisce, elaborando al suo interno consuetudini e costumi che costituiscono norma di comportamento. Consuetudini la cui validità è garantita dagli antenati, che sono sempre oggetto di culto particolare. Nelle società moderne il gestore e garante di questi valori è lo Stato, il quale deve ovviamente mettere in atto gli stessi mezzi di convinzione impiegati dalla religione. Deve innanzitutto rafforzare la propria immagine di garante, la propria autorità. Poi emettere delle normative di comportamento sulla base dei valori che egli gestisce, e cioè emettere delle leggi. Infine mettere in atto i mezzi per premiare chi si attiene a queste normative di comportamento e punire chi le trasgredisce.
Nelle società antiche lo Stato era rappresentato da una persona, il monarca assoluto, al quale era tributato un culto divino, viveva in palazzi fastosi, circondato da un cerimoniale sfarzoso, ed era investito della sua autorità da Dio stesso, il Garante supremo. Oggi questo non avviene più e lo Stato è divenuto un'entità più astratta, ma non per questo è venuta meno la necessità di monumenti, riti e cerimoniali (che si esplicano nel culto delle istituzioni, della bandiera e delle varie ricorrenze nazionali), che rendano indiscutibile la sua autorità.
Lo Stato, quindi, ha necessità di porsi come valore supremo, ed emettere tutta una serie di normative di comportamento, di tributi formali e materiali, che confermino questo suo valore, e di punizioni adeguate contro chiunque attenti alla sua autorità o alla sua esistenza. Chi attenta alle istituzioni, chi tradisce segreti di stato, chi predica valori in contrasto con quelli garantiti dallo Stato, è passibile delle massime punizioni. Quali sono i valori gestiti e garantiti dallo Stato, quelli sulla cui base egli emette le sue leggi? Basta vedere quali sono i comportamenti regolati da queste leggi. Normalmente le leggi dello Stato regolano i comportamenti dell'individuo nei confronti di tutto ciò che ha un interesse ai fini della convivenza sociale.
La legge, infatti, stabilisce come ci si deve comportare nei rapporti con gli altri, sia quelli più propriamente "morali" che economici e politici, e nei confronti delle cose materiali, dei beni propri e di quelli altrui, dell'arte, dell’istruzione, delle conoscenze, della religione stessa e così via. Tali normative sono ovviamente ricavate sulla base di determinati valori culturali. Sono questi stessi valori che vengono assunti come metro di giudizio per stabilire se un dato comportamento è buono o cattivo, meritevole di premio o passibile di castigo, e per stabilire l'entità del premio e del castigo.
Ma chi stabilisce questi valori? Non certo lo Stato, che è una pura astrazione; evidentemente quelle persone che agiscono in nome e per conto dello Stato e che materialmente compilano le sue leggi. Queste persone, ovviamente, appartengono a un determinato ceto sociale, che ha una propria cultura e cioè un suo proprio complesso di valori, il quale può differire enormemente dalla cultura caratteristica di altri ceti sociali. Se il legislatore appartiene alla classe che detiene il potere economico, darà grande importanza a quei comportamenti che servono o ledono i valori di cui questa classe è portatrice. Ad esempio, accade che l'industriale che avvelena l'ambiente, distrugge le bellezze naturali, costringe una moltitudine di persone ad agire come schiavi, produce macchine che compiono stragi indiscriminate fra la gente, non solo non è punibile, ma viene premiato e insignito delle massime onorificenze. Invece il povero diavolo che per sfamarsi è costretto a rubare una mela in un mercato, viene condannato e messo in prigione.
Questo evidentemente perché la classe sociale che ha ispirato quelle leggi attribuisce molto più valore alla produzione, al denaro, alle macchine, alla proprietà che non all'uomo e all'ambiente.
Ogni norma di comportamento, e cioè ogni legge, è emessa sulla base di valori. Sarebbe divertente risalire ai valori sulla cui base sono state emesse la nostra e le altrui legislazioni. Divertente o sconvolgente? Ovviamente dipenderà dalla "cultura" di chi giudica e cioè dai valori che costituiscono il suo metro di giudizio.
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