La leggenda vuole che il St. Caterina sia stato scoperto da Elena, madre di Costantino, durante la sua permanenza in Terrasanta, tra il 327 ed il 331.
Quel che sappiamo con certezza, invece, è che il Santa Caterina divenne Sinai a partire dal 536[1], a seguito di un decreto dell’imperatore Giustiniano, che fece erigere ai piedi di quello che fu poi chiamato Gebel el Musa un monastero fortificato. Contemporaneamente egli inviò coloni e soldati a Feiran, che fu eretta allora a sede di un arcivescovado (ancor oggi il priore del monastero ha il titolo di arcivescovo).
Prima di quella data non esiste alcuna prova storica e neppure archeologica che quel monte fosse mai stato identificato da chicchessia con il Sinai biblico. Resti di una basilica, di un monastero e di abitazioni sono stati trovati nell’oasi di Feiran; resti di abitazioni attribuite a monaci sono stati rinvenuti anche in varie altre località del massiccio del St. Caterina, testimonianza certa che dopo la costruzione del monastero il fenomeno del monachesimo ha avuto un grande sviluppo nella zona. Si calcola che alla fine del sesto secolo ci fossero nell’area qualcosa come 600 monaci.
Prima di allora non ci sono testimonianze archeologiche di insediamenti di una qualche importanza. Gli storici, però, insistono pressoché concordi sul fatto che “dovevano” esserci monaci, sulla base della testimonianza di Egeria, che dice appunto di averne incontrati in gran numero, come pure su altre testimonianze di monaci e pellegrini che si sono recati sul monte Sinai nel corso del IV e V secolo. Questo nell’aprioristico presupposto che tali resoconti si riferiscano al St. Caterina. Ma l’archeologia si rifiuta di confermare queste testimonianze per quanto riguarda il St. Caterina, e d’altra parte ad un esame obbiettivo appare evidente che esse si riferiscono a tutt’altra località.
Per il IV e V secolo, invece, abbiamo un imponente complesso di resti archeologici ad Har Karkom, i quali testimoniano la presenza di numerose comunità monacali nell’area del monte, che sembrano fare capo ad un importante insediamento romano-bizantino a Beer Ada, nel vicino wadi Pharan. Vedremo fra poco che anche le testimonianze storiche fino a tutto il V secolo acquistano un senso esatto e trovano riscontri geografici, topografici ed archeologici precisi se riferite ad Har Karkom.
Il primo “cristiano” a mettere piede sul monte Sinai fu probabilmente S. Paolo. Nella lettera ai Galati egli scrive che, subito dopo la sua conversione a Damasco, si recò per “tre anni in Arabia” (quindi dal 33 al 36 d.C), aggiungendo poco dopo (Galati 4,25), che “il Sinai è un monte dell’Arabia”. Ciò lascia presumere che egli lo abbia visitato, o quanto meno che sapesse esattamente dove si trovava.
La tradizione cristiana, invece, quella che viene recitata ai turisti che si recano a visitare il St. Caterina, vuole che questo monte sia stato scoperto per la prima volta da S. Elena, madre di Costantino, durante la sua permanenza in Terrasanta, tra il 327 ed il 331, tre secoli dopo Paolo.
Si era recata a Gerusalemme, su invito del Vescovo Macario, per visitare i luoghi santi. Qui, assistita da Macario e dal vescovo Eusebio di Nicomedia (che soltanto 2 anni prima era stato condannato al concilio di Nicea come ariano e bandito da Costantino), Elena fece eseguire ricerche che, secondo una tradizione ormai consolidata, portarono al ritrovamento di pezzi della croce di Cristo e di tante altre reliquie di ogni genere, nonché di tutti i luoghi di un qualche interesse nella vita del Redentore, da quello della sua nascita, dove avrebbe fatto erigere la chiesa della Natività, a quello della sua morte, dove fu eretto il Santo Sepolcro. La tradizione, quindi, attribuisce a Elena il ritrovamento praticamente di quasi tutte le reliquie e i luoghi santi di un qualche interesse per i cristiani; ma fra questi certamente non c’era il monte Sinai.
Il primo a parlare di un ritrovamento della croce ad opera di Elena è stato Ambrogio di Milano, intorno al 395 (De Obitu Theodosii c.43 e segg), seguito poi da Rufino, Socrate e altri storici della Chiesa. Ma l’Itinerarium Burdingalense ed Eusebio di Cesarea (il padre della storiografia ecclesiastica, contemporaneo di Elena - morto nel 339), ignorano completamente il fatto. Lo stesso Cirillo, vescovo di Gerusalemme dal 348 al 387, considerava i ritrovamenti attribuiti a Elena come sue invenzioni, o degli abbagli che la stessa aveva preso ascoltando le fantasiose testimonianze di gente che voleva trarre dalla madre dell'imperatore benefici, donazioni e concessioni. Anche i pellegrini che visitano i luoghi santi nel IV secolo, appena 50 anni dopo, da San Girolamo a Egeria non fanno alcun cenno a Elena, cosa che dovremmo invece aspettarci, se non altro per riguardo a cotanto personaggio.
Elena non viene mai nominata da Egeria neppure in relazione al monte Sinai, cosa significativa, vista la pignoleria con cui la pellegrina fa la cronistoria della sua visita al monte. Ciò fa sorgere seri dubbi in merito alla esattezza anche della leggenda, secondo cui fu proprio Elena a far costruire la prima chiesa nel luogo del roveto, dove più tardi sarebbe sorto il monastero del St. Caterina. Egeria, che trascorre una notte nel luogo del roveto, nomina la chiesa, ma non la sua presunta fondatrice.
Sta di fatto che non c’è alcuna prova storica che Elena abbia mai fatto ricerche del monte Sinai e tanto meno che l’abbia ritrovato, né al St. Caterina, né altrove. La tradizione che ne attribuisce a lei la scoperta non trova conferma in nessun autore contemporaneo ed è testimoniata soltanto a partire dal nono secolo.
Per quanto riguarda il monte di Mosè, invece, esso era certamente conosciuto e frequentato dai cristiani almeno fin dal quarto secolo. La prima fonte letteraria cristiana che parla del monte Sinai (se si trascura il cenno di S. Paolo) è Teodoreto di Ciro[2], che, scrivendo la storia del monachesimo in Siria, riporta il nome di due monaci che si sarebbero insediati nell’area del Sinai nella prima metà del quarto secolo (e cioè più o meno all’epoca di S. Elena): Giuliano Saba, che era accompagnato da un gruppo di discepoli, e l’anacoreta Simeone il Vecchio.
Dobbiamo quindi ritenere storicamente accertato che l’ubicazione del biblico monte Sinai fosse nota fin dai primi inizi del cristianesimo e che già verso la metà del quarto secolo d.C. esistessero comunità di monaci cristiani intorno e “sopra” quel monte.
Ma di che monte si trattava? Le indicazioni su riportate non sono congruenti con il monte che viene venerato oggi come Sinai, cioè il St Caterina. Ai tempi di Paolo, l’Arabia si identificava con il regno dei Nabatei, che grosso modo comprendeva i territori che attualmente formano la Giordania, più l’area sinaitica appartenente oggi allo stato d’Israele[3]. Il resto del Sinai, e in particolare proprio la parte meridionale della penisola, erano territorio egizio[4] e non fecero mai parte, in nessuna epoca, dell’Arabia. San Paolo, quindi, si riferisce a un monte che si doveva trovare molto più a nord del St. Caterina. Teodoreto, invece, non fornisce alcuna indicazione geografica utile alla localizzazione del monte, e quanto a Egeria, si è visto che il suo racconto non corrisponde al Sinai attuale.
Egeria non accenna minimamente a Elena in relazione al monte, né ad alcun altro presunto “scopritore”: il monte era semplicemente là dove era sempre stato, in un luogo ben conosciuto ai cristiani e agli ebrei prima di loro. L’unica indicazione precisa circa la localizzazione del monte nei primi quattro secoli dell’era cristiana, dunque, è quella di San Paolo e non punta certo al Santa Caterina.
Anche l’archeologia ha accertato che all’epoca di Egeria, il quarto secolo, niente di quanto essa ha descritto a proposito di chiese ed eremitaggi esisteva sul Santa Caterina.[5]
E’ ben vero che nell’oasi di Feiran (50 km a nord-ovest del monte) sono stati trovati i resti di un insediamento del quarto secolo, epoca in cui Egeria vi avrebbe pernottato. Ma gli insediamenti di monaci nei dintorni del monte sono tutti successivi e cominciano soltanto dal sesto secolo, quando, a seguito di un decreto dell’imperatore Giustiniano, che bandiva l’eresia monofisita da tutto l’impero tranne che in Egitto, centinaia di monaci monofisiti si riversarono nella penisola del Sinai. Furono i monaci monofisiti (gli stessi che occupano attualmente il monastero del Santa Caterina) a identificare il massiccio centrale di quella penisola con il biblico monte di Mosè.
Visto il gran numero di monaci presenti nella zona, Giustiniano, intorno al 536 (la data precisa non è conosciuta) fece erigere ai piedi di quello che fu poi chiamato Gebel el Musa un monastero fortificato, per difendere i monaci dalle incursioni e ruberie dei saraceni. La costruzione di monasteri fortificati rientrava nella sua politica di difesa degli abitanti (in maggioranza monaci) delle estreme periferie desertiche dell’impero. Analoghe fortezze, infatti, egli fece costruire in Egitto, Libia e Tunisia[6]. Contemporaneamente egli inviò coloni e soldati a Feiran, che fu eretta allora a sede di un arcivescovado (ancor oggi il priore del monastero ha il titolo di arcivescovo).
La prima menzione storica che associa il Santa Caterina al monte di Mosè, risale appunto a questo periodo ed è dovuta allo storico di corte di Giustiniano, Procopio, il quale, parlando di una chiesa alla Madonna fatta erigere dall’imperatore sulle pendici del monte, aggiunge un poco convinto: “si dice che questo sia il luogo in cui Mosè ricevette le leggi divine.” La chiesa che si trova nel monastero, quindi, fu fatta erigere non da Elena, come vuole la leggenda, ma dallo stesso Giustiniano; ulteriore prova che detta leggenda è sorta dopo il sesto secolo. Procopio non avrebbe certo mancato di attribuirne la costruzione alla madre del primo imperatore cristiano, se solo qualcuno avesse lanciato l’idea. Cosa che i monaci del monastero fecero soltanto molto tempo dopo.
Il Santa Caterina, quindi, è stato identificato con il Monte Sinai soltanto a partire dal sesto secolo. Prima di allora era certamente un altro monte che si fregiava di questo titolo.
Ebbene, Har Karkom si trova all’estremo limite sud-occidentale del regno del territorio allora controllato dai nabatei, una trentina di chilometri in linea d’aria a sud di Avdat, grande centro carovaniero nabateo, nel Negev, e ad una quarantina a ovest di Petra, la capitale. Era sicuramente in territorio nabateo, come dimostrano le numerose tombe e iscrizioni nabatee della zona. E’ quindi un ottimo candidato ad identificarsi con il monte menzionato da S. Paolo. Anche la diffusione del monachesimo nel quarto secolo dell’era cristiana contribuisce a rafforzare questa candidatura.
Egeria subisce in modo particolare il fascino dei monaci anacoreti, che lei considera tutti santi e ci tiene ad incontrarli ed intrattenersi con loro in tutti i luoghi visitati. Il monte di Dio non fa eccezione e risulta particolarmente affollato, con insediamenti di monaci sopra il monte stesso, nei suoi immediati dintorni e lungo le vie di accesso.
Grazie al racconto di Egeria, e soltanto a questo, alcuni storici ritengono quindi che il Santa Caterina fosse popolato di monaci già nel quarto secolo. Ma si è visto che l’archeologia li sconfessa e non si conoscono altre fonti storiche che supportino questa affermazione. Perfino il racconto dell’Anonimo Piacentino relativo ad un pellegrinaggio effettuato nel sesto secolo, quando il monastero del Santa Caterina già esisteva, sembra riferirsi ad Har Karkom, anziché al primo.
I siti romano-bizantini di Har Karkom, invece, testimoniano in modo certo che nel quarto secolo quest’area era abitata da un rilevante numero di monaci. Le fonti storiche ci confermano che a partire dalla fine del terzo secolo si diffonde in tutta la Palestina ed in particolare nell’Arabia nabatea il monachesimo. Le prime comunità sono dovute ad Origene, il quale, perseguitato in Egitto, fu costretto a lasciare la Tebaide coi suoi seguaci e a trasferirsi in Palestina. Il fenomeno del monachesimo raggiunse il suo culmine nel quarto secolo d.C., quando invase ogni angolo di deserto disponibile. Esistono numerose testimonianze dirette che il fenomeno era assai diffuso nei deserti della Transgiordania. Egeria, per esempio, quando visita il Nebo e l’Arabia Perea cita l’esistenza di monaci anacoreti ovunque ci fosse una qualche località di interesse biblico.
Non è indifferente, ai fini storici e per la comprensione dei resti archeologici da loro lasciati, riuscire a stabilire a quale particolare setta cristiana appartenessero i monaci che popolavano Har Karkom nel quarto secolo. Innanzitutto essi si incontrano sempre in piccoli gruppi, o addirittura isolati; in secondo luogo il loro stile di vita, quale appare dal racconto e dai resti archeologici, è improntato alla massima povertà. Ciascuno di essi viveva da solo in una abitazione con mura di pietre a secco, coperte da pelli o frasche, raggruppate in piccoli gruppi, disposte a schiera intorno ad una struttura più grande, che doveva servire per le riunioni comuni e come chiesa. Per sopravvivere coltivavano appezzamenti di terreno più o meno vasti, resi coltivabili terrazzando il fondo delle wadi.
Questo porta a ritenere che potesse trattarsi di monaci ebioniti. Gli ebioniti erano una particolare setta di cristiani che seguivano contemporaneamente la legge mosaica e quella cristiana[7]. Erano cioè ebrei convertiti al cristianesimo, che continuavano a seguire anche i dettami della religione ebraica. La loro origine ebraica li portava naturalmente a seguire un ideale di vita ascetica nel deserto, in assoluta povertà, così ben documentato negli scritti di Giuseppe Flavio. Il nome stesso “ebioniti”, infatti, deriverebbe dalla loro estrema povertà, dal momento che la parola ebraica “ebion” significa povero.[8]
Una conferma storica ci viene da Epifanio, che nella sua opera Panarion (30,18,1 e 29,7,7-8), del 375 (pochi anni prima di Egeria), afferma che gli ebioniti erano diffusi nella Celesiria, Decapoli, Berea, Basanitide e Moabitide, vale a dire praticamente in tutta la provincia dell’Arabia nabatea, entro i cui confini si trova Har Karkom.
Il monachesimo era sorto sulla scia di una rapida cristianizzazione di quell’area. L’Arabia nabatea, infatti, è la regione in cui il cristianesimo si diffuse per primo e più rapidamente che in ogni altra parte del mondo. Il primo “cristiano” a mettervi piede fu S. Paolo, all’indomani della sua fuga da Damasco, e vi rimase per ben tre anni, durante i quali è presumibile che abbia fatto dei proseliti. Le prime comunità cristiane nella Transgiordania dovrebbero risalire a quest’epoca. Non sarebbe un caso, quindi, che la comunità cristiana di Gerusalemme, allo scoppiare della rivolta antiromana, nel 66, si sia trasferita proprio nell’Arabia nabatea, a Pella, dove trascorse indenne tutto il periodo della guerra.
Nel 106 d.C. Traiano conquistò il regno dei Nabatei e lo trasformò in provincia romana con capitale a Bosra. Il cristianesimo vi era già saldamente impiantato e si diffuse rapidamente, al punto che l’imperatore romano Filippo l’Arabo (244-249), nato a Bosra un secolo dopo, era, secondo Eusebio, cristiano.
Nello stesso 244, si tenne un concilio a Bosra, al quale intervenne anche Origene. Nel 362, il vescovo di Bosra, Titus, in una lettera a Giuliano l’Apostata dichiarava che il 50% della popolazione era cristiana. Le testimonianze archeologiche ci confermano che a quella data il cristianesimo era diffuso in tutta la provincia dell’Arabia ed in particolare nel Negev, dove sono stati ritrovati i resti di numerose chiese risalenti al IV e V secolo, come a Beersheba, Kournoub, Elousa, Shivta, Nissana, Rehovot, Avdat, e altre località. Vale a dire in tutta l’area immediatamente a nord di Har Karkom, lungo quella che era, secondo il resoconto dell’Anonimo Piacentino, la via orientale per recarsi sul monte di Dio.
Per la pia pellegrina spagnola Egeria tutti i monaci che incontrava nei suoi pellegrinaggi erano santi, in virtù del loro stile di vita, senza alcun riguardo alla loro particolare professione religiosa. A giudicare dai resti archeologici lasciati ad Har Karkom, i monaci che vi abitavano a quel tempo erano ebioniti, una setta considerata eretica, ma certamente non da Egeria.
La polemica sull’ortodossia degli ebioniti, infatti, si accese qualche anno dopo la sua visita al monte Sinai e vide come grandi protagonisti S. Agostino da un lato e S. Girolamo dall’altro. Agostino, divenuto vescovo di Ippona nel 396, era piuttosto tollerante e ben disposto nei confronti degli ebioniti, riconoscendo loro il diritto a proclamarsi cristiani, pur seguendo contemporaneamente la legge mosaica. Girolamo, invece, dal suo monastero di Betlemme, polemizzava con Agostino, scagliandosi veementemente contro gli ebioniti, che egli considerava eretici, né giudei né cristiani (lettera CXII di Girolamo ad Agostino).
Egeria nel suo scritto non si occupa mai di questioni dottrinali; ma anche se lo avesse fatto, non poteva avere nulla contro i monaci ebioniti, dal momento che proveniva dalla Chiesa occidentale, favorevole ad essi. Ed in ogni caso la condanna di Girolamo è venuta soltanto qualche anno dopo. Una condanna netta, che si è spinta ben oltre la mera questione dottrinale, fino a investire anche i luoghi stessi presidiati da monaci ebioniti e in particolare proprio il monte da essi ritenuto sacro.
Girolamo nel 386, due anni dopo Egeria, si trasferì in Palestina, accompagnato dalla nobildonna romana Paola e da altri discepoli. Per prima cosa visitò i luoghi citati nel nuovo e vecchio testamento, come Sarepta, luogo di soggiorno del profeta Elia, e Tiro, dove evocò il ricordo di S. Paolo; poi Cesarea, Jaffa, Lidda, Gerusalemme, Emmaus, Bethoron, Aialon, Gabaon, Gabaa ecc., tutti luoghi dove egli fece sfoggio della sua grande erudizione biblica. Seguirono Betlemme, Jerico, Silo, la Galilea e infine anche l’Egitto, dove visitò la terra di Gessen e Alessandria.
In pratica visitò tutti i luoghi di un qualche interesse biblico della Palestina e dell’Egitto, ma non attraversò mai il Giordano e, benché abbia vissuto per trenta anni in Palestina, non visitò mai il monte Sinai[9]. Il che è stupefacente, visto l’interesse primario che ha questo luogo nella vicenda di Mosè. E certamente non poteva non conoscere l’ubicazione del monte, dal momento che soltanto due anni prima era stato visitato da Egeria e dal suo seguito, probabilmente su indicazione del vescovo di Gerusalemme Cirillo, con cui Girolamo aveva stretti rapporti.
La spiegazione a questo incredibile comportamento sta forse nella profonda avversione di Girolamo per gli ebioniti, i quali, stando alla testimonianza di Epifanio (suo contemporaneo e amico), presidiavano proprio i luoghi santi della Transgiordania.
Per quel che riguarda il monte di Dio, però, c’era anche una questione sostanziale. Abbiamo visto che Egeria visita due cime separate manifestamente sacre, che lei identifica come Sinai e Horeb, ovviamente su indicazione dei monaci locali. Girolamo rifiutava decisamente questa versione. Per lui Horeb e Sinai erano due diverse denominazioni della stessa montagna, cosa che ribadiva chiaramente nei suoi scritti. Dobbiamo quindi ritenere che rifiutasse di identificare il monte presidiato dagli ebioniti con il Sinai biblico.
Non risulta che siano mai esistiti monaci ebioniti nell’area del Santa Caterina, che fin dagli inizi (nel sesto secolo) fu monopolizzata dai monofisiti, mentre ad Har Karkom la loro presenza è documentata (nel quarto secolo) da decine di siti archeologici perfettamente conservati. In questa prospettiva la testimonianza di San Girolamo acquista grande valore, perché dimostra che ai suoi tempi, gli stessi di Egeria, il Sinai era popolato da monaci ebioniti. Viene quindi escluso il Santa Caterina, mentre Har Karkom aggiunge un altro decisivo elemento a favore della sua identificazione con il Sinai biblico.
Har Karkom, dunque, era il monte che la tradizione ebraica e successivamente quella cristiana hanno identificato con il monte Sinai della Bibbia fino al sesto secolo. Sorge allora legittima la domanda di come mai questa tradizione sia stata in seguito abbandonata in favore del Santa Caterina e dimenticata. Possiamo trovare la risposta in tre eventi successivi: l’opposizione di San Girolamo agli ebioniti, i monaci che popolavano l’area di Har Karkom; la politica di consolidamento dei confini di Giustiniano, che stabilì una guarnigione a Feiran e costruì un monastero fortificato al Santa Caterina; ed infine l’invasione islamica, che spazzò via le comunità monastiche dai deserti della Transgiordania, ma risparmiò il monastero del Santa Caterina.
Nel quarto secolo Har Karkom era abitato da una folta schiera di monaci; su questo non c’è il minimo dubbio sulla base dei resti archeologici e del racconto di Egeria. Monaci quasi certamente appartenenti alla setta degli ebioniti, avversati da San Girolamo, che li condannava, spingendosi fino a negare la santità dei luoghi da essi presidiati. Si è visto, infatti, che non si recò mai al di là del Giordano, per visitare siti di preminente interesse biblico, come ad esempio il monte Nebo; e si rifiutò sempre di visitare il monte Sinai, il più importante in assoluto per quel che concerne l’Antico Testamento. Un comportamento inspiegabile per uno dei più grandi biblisti della storia, se non si tiene conto della sua avversione nei confronti dei monaci che presidiavano quelle località.
L’ostilità di Girolamo dovette senza dubbio raffreddare alquanto l’entusiasmo dei cristiani nei confronti del monte sacro degli ebioniti, specie per coloro che abitavano lontani dalla Palestina, che dovevano ritenere che Girolamo conoscesse bene la situazione sul posto. Ma la sua pur enorme autorità non sarebbe valsa, probabilmente, a cancellare Har Karkom dalla storia, se non fossero intervenuti altri fattori, che fecero sorgere un nuovo candidato al titolo di monte Sinai, assai più credibile agli occhi di una comunità imbevuta di cultura ellenistica.
Nel V secolo sorse e si consolidò l’eresia monofisita, che sotto l’imperatore Anastasio (491-518) divenne maggioritaria in oriente. Il successore, Giustino (518-527), si sforzò di ristabilire l’ortodossia religiosa stabilita al concilio di Calcedonia. Questa politica suscitò violente reazioni e persecuzioni contro i monofisiti in tutto l’impero d’oriente, tranne che in Egitto, che divenne il rifugio dei monofisiti perseguitati. Centinaia di prelati e monaci vi si riversarono da tutte le parti dell’impero e un numero notevole si stabilì nel Sinai meridionale, tradizionalmente parte dell’Egitto, che da millenni vi sfruttava le miniere di turchese e di rame.
Con l’avvento, nel 527, di Giustiniano, la cui moglie Teodora era monofisita e proteggeva apertamente i suoi correligionari, la pressione contro di essi si allentò. Nel 531 vescovi e monaci monofisiti furono reintegrati nelle loro sedi. Nel 533 Giustiniano pubblicò due editti in cui in pratica avvallava le loro tesi. Nel 535 due patriarchi monofisiti furono installati a Costantinopoli e ad Alessandria. Fu in questi anni che Giustiniano fece erigere il monastero fortificato al Santa Caterina, dove si erano insediati appunto molti monaci monofisiti.
Secondo Procopio, storico di corte di Giustiniano, lo scopo principale della fortezza non era di proteggere i monaci, ma di tenere a freno le tribù beduine locali, per evitare incursioni in Palestina[10]. A quanto pare era una politica usuale di Giustiniano, di appoggiarsi a centri monastici situati alla periferia dell’impero, per sviluppare un sistema di difesa. Infatti egli aveva eretto un monastero fortificato anche a Cartagine e due ai confini occidentali dell’Egitto[11]. Oltre alla fortezza al Santa Caterina, Giustiniano stabilì un presidio a Feiran.
Non ci sono evidenze che egli personalmente identificasse quel monte con il Sinai biblico. Procopio dice che l’imperatore vi fece costruire una chiesa alla Madonna, “non sulla cima della montagna, ma molto più in basso, perché è impossibile per un uomo passare la notte sulla cima … si dice che questo sia il luogo in cui Mosè ricevette le leggi divine.” E’ la prima menzione storica certa che associa il Santa Caterina al monte di Mosè. Ma come si vede è alquanto “timida”. Riporta un “si dice” evidentemente originato dai monaci che vi si erano stabiliti, ma nel contempo conferma che non fu la sacralità del luogo a indurre Giustiniano a edificare il monastero e la chiesa. Furono dunque i monaci monofisiti a fare del Santa Caterina il loro monte Sinai.
E’ presumibile che per un certo tempo le due tradizioni abbiano convissuto. L’Anonimo Piacentino, per esempio, visita il monte intorno al 570, assai dopo l’edificazione del monastero. Il suo racconto presenta aspetti contraddittori, tanto da lasciar presumere che abbia preso elementi dell’uno e dell’altro[12].
Ma l’avvenimento decisivo a favore del Santa Caterina è stata probabilmente la conquista islamica, nel 634. Har Karkom, posto lungo le grandi direttrici dell’invasione, in un’area relativamente centrale, è stato investito in pieno e non ha potuto conservare le sue piccole e indifese comunità di monaci, che sono stati spazzati via. Esso, quindi, è piombato rapidamente nell’oblio. Il monastero di Santa Caterina, invece, posto in area periferica e priva di interesse militare, è riuscito a superare indenne questo evento e a sopravvivere, garantendo così la sopravvivenza della nuova tradizione di cui era stato esso stesso l’iniziatore.
[1] La data esatta dell’erezione del monastero non è conosciuta, né si
conoscono decreti che ne stabiliscano la costruzione. Il 536 appare come la
data più probabile, perché il monastero venne assegnato ai monaci monofisiti,
che avevano guadagnato la benevola tolleraqnza dell’imperatore soltanto l’anno
prima, grazie a Teodora.
[2] Teodoreto di Ciro, Historia religiosa
[3] Esistono numerose iscrizioni nabatee nel Sinai meridionale (più di
2700 graffiti, che coprono un periodo di circa 2 secoli); esse però sono tutte
concentrate nelle valli Mokatteb e nel wadi Feiran, sul lato occidentale della
penisola, presso le miniere di turchese e rame sfruttate dagli egizi.
Iscrizioni nabatee dello stesso tipo si trovano numerose dall’altra parte del Mar
Rosso, in suolo egiziano, lungo le valli che legano Coptos e Tebe a Leucos
Limene, dal mare fino alla valle del Nilo. Non sono state ritrovate invece
iscrizioni nabatee nel lato orientale della penisola. Questa distribuzione
conferma che la penisola del Sinai era al di fuori degli interessi e delle
rotte dei nabatei di Transgiordania e che le iscrizioni in questione sono state
fatte da cammellieri al servizio degli egizi per il trasporto dei minerali.
[4]
Gli egizi, comunque, non occuparono mai militarmente la penisola,
se si eccettua la parte settentrionale, dove erano state stabilite guarnigioni
per difendere le vie di comunicazione con l’Asia. Quanto al resto della
penisola, si limitarono a sfruttare alcune miniere di materiali per essi preziosi,
come i lapislazzuli e il rame.
[5] Anati E., Har Karkom,
montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaca Bokk, Milano, p. 194
[6]Le Sinai durant l
’Antiquité et le moyen age, a. v., Parigi, 1998
[7]
K. Bihlmeyer, H. Tuechle, Storia della Chiesa, 1- l’antichità cristiana,
Brescia, 1955; 28.1
[8]
Alcuni, però ritengono che il nome derivasse dal fatto che erano seguaci
dell’eretico gnostico Ebione
[9] Pierre
Maraval, Petit Vie de Saint Jérome, Desclée de Brouwer, 1995, pp 59 seg.
[10] Procopio di Cesarea, De Aedificiis, V, 8
[11] H. Torpe, “Murs d’encinte des monastères coptes primitifs e couvents
forteresses”, école françaises de Rome, Mélange d’archéologie e d’histoire,
76, 1964, p 173-200
[12] Egeria afferma che sulla cima del Sinai c’era una chiesa piccolissima.
Antonino Piacentino dice che sulla cima c’era solo un “oratorio” di 6 piedi per
6, le stesse misure dei resti di struttura trovati sulla vetta
centrale di Har Karkom, dove Egeria afferma che c'era una chiesa piccolissima.