Sommario – Un manoscritto scoperto nel 1884 ad Arezzo, con il diario scritto da
una pellegrina Cristiana, Egeria, che alla fine del quarto secolo ha compiuto
una visita al monte di Mosè, dimostra che a quell’epoca i cristiani
identificavano il monte Sinai non con il Santa Caterina, ma con Har Karkom.
Subito dopo la
scoperta, infatti, gli studiosi decisero unanimemente che il racconto si
riferisce al Sinai tradizionale, il Santa Caterina; ma sfortunatamente la
descrizione, molto dettagliata e accurata, non ha niente a che fare con la
realtà di questo monte.
Le distanze riportate,
i tempi di percorrenza e le descrizioni ambientali sono macroscopicamente
errate se riferite ad esso. Inoltre Egeria riferisce dell’esistenza di comunità
di monaci e di attività agricole da essi condotte sia sopra il monte che nella
valle sottostante e descrive strutture abitative e religiose di cui non esiste
traccia, per quell’epoca, al Santa Caterina.
Appare certo, quindi,
che il racconto di Egeria si riferisce ad una località diversa.
Da sopralluoghi
effettuati dal sottoscritto e suo fratello Claudio, risulta
evidente che esso si riferisce ad Har Karkom. Se si seguono alla lettera le
indicazioni del manoscritto, partendo dal punto in cui Egeria si affaccia per
la prima volta sulla valle di Dio, si è condotti lungo un percorso che
corrisponde in pieno, fin nei più piccoli dettagli, con le informazioni fornite
dal diario, al punto che questo potrebbe essere assunto come la migliore delle
guide possibili per visitare i luoghi di interesse biblico di Har Karkom.
Le scoperte archeologiche ad Har Karkom dimostrano che questa montagna nei primi secoli dell’era cristiana era conosciuta come il monte Sinai biblico.
Il 30% dei dei suoi oltre 1200 siti archeologici, infatti, appartiene all’epoca romano-bizantina ed era dovuto quasi certamente a comunità di monaci, che prosperarono nella zona fino a che non furono spazzate via dall’invasione islamica.
San Paolo, nella lettera ai Galati, dice che subito dopo la sua conversione a Damasco si recò per tre anni in Arabia, e cioè nel regno dei nabatei, aggiungendo dopo poche righe che “il Sinai è un monte dell’Arabia” (4, 25).
L’esistenza di monaci, più precisamente ebioniti, nella Transgiordania è testimoniata da Epifanio nel suo libro “Panarion” (30,18,1 e 29,7, 7-8), scritto nel 375, e le sue parole sono confermate meno di dieci anni dopo da Egeria, che descrive numerose comunità di monaci non solo sul monte Sinai, ma in tutta la Transgiordania.
Vedremo fra poco che il Sinai da lei visitato non corrisponde in tutto e per tutto ad Har Karkom, non al Santa Caterina.
Nel 1884, Gian Francesco Gamburrini, di professione giurista, scoprì nella biblioteca della Confraternita dei Laici di Arezzo (nota anche come Fraternità di S.Maria), un codice in pergamena, detto Codex Aretinus 405, uno scritto anonimo, che successivamente la critica ha attribuito ad una nobildonna spagnola del IV secolo d.C., indicata con il nome di Egeria, il quale racconta un pellegrinaggio ai Luoghi Santi, un vero e proprio diario di viaggio, scritto sotto forma di lettera indirizzata ad alcune consorelle.
La parte iniziale e quella finale e quattro pagine intermedie del manoscritto sono mancanti. Non sono state trovate altre copie del manoscritto, ma informazioni preziose sul contenuto delle parti mancanti e sull’identità e provenienza della pellegrina sono contenute in una lettera scritta intorno al 680 da un monaco chiamato Valerio ai suoi confratelli del monastero del Bierzo, in Galizia (Spagna), nella quale elenca le montagne scalate dalla pellegrina e i siti di interesse biblico da essa visitati.
Il pellegrinaggio di Egeria in Terrasanta si è svolto tra il 381 e il 383 e la visita al monte Sinai è stata datata alla fine del 383.
Fin dal primo istante tutti concordemente hanno ritenuto che si trattasse del monte che la tradizione cristiana ha consacrato come monte Sinai fin dal sesto secolo, e cioè il Gebel el Musa, nel massiccio del Santa Caterina, all’estremità meridionale della penisola del Sinai, e hanno effettuato le loro analisi e tratto le loro conclusioni sulla base di questo esplicito presupposto.
Nessuno ha mai avanzato il minimo dubbio in proposito, nonostante i motivi per nutrire dubbi non manchino di certo, specie dopo i tentativi di ripercorrere l’itinerario della pellegrina sul terreno, nel Santa Caterina, effettuati nel 1899 da M.J. Lagrange e novanta anni dopo da Franca Mian, abbiano dato risultati del tutto deludenti.
Il racconto di Egeria è molto preciso, dettagliato e chiaro al punto da non lasciare spazio ad alcuna interpretazione personale, come spesso accade in racconti del genere. Essa descrive il territorio in maniera quasi fotografica, descrivendo la forma e la posizione delle montagne, la forma e le dimensioni della valle, le precise distanze e i tempi di percorrenza da un punto all’altro.
Descrive tutto ciò che vede lungo il cammino, relazionando ogni reperto con il testo biblico: tombe, chiese, grotte, antichi accampamenti, abitazioni, altari e così via. Tutti elementi reali che dovrebbero essere facilmente verificati da una ispezione nell’area interessata.
Essa descrive le proprie attività con esattezza e coerenza, i propri movimenti, l’ora precisa di ogni attività e i suoi incontri con i monaci che vivevano sulla montagna e nella valle sottostante.
In base a queste informazioni i tre giorni di viaggio al monte (Egeria partì da Faran il mattino di un sabato e vi fece ritorno la sera del lunedì successivo) possono essere schematizzati con il grafico a fianco.
Nel racconto di Egeria le dimensioni della valle e le distanze fra alcuni punti chiave sono riportate con precisione:
- quattro miglia dal luogo in cui si vede per la prima volta il monte
(subito dopo l’imboccatura della valle) fino al monte stesso (cap. 1,2)
- sedicimila passi in lunghezza e quattro mila passi in larghezza
le dimensioni della valle (cap. 2,1)
- tre miglia dalla cima del monte Horeb al luogo del roveto (
cap. 4,5)
(cioè dell’attuale monastero nella ricostruzione di Lagrange, del monte di
Aronne in quella della Mian)
- 35 miglia da Faran al monte di Dio (cap. 6,1).
E’ importante capire cosa significhino queste misure. La parola “miglio” deriva dal latino milia, che significa semplicemente mille. Ed infatti equivaleva a mille passi. Nell’esercito romano esisteva uno speciale reparto che misurava le distanze lungo le strade e ad ogni mille passi poneva un cippo con l’indicazione della distanza da un determinato punto di partenza. I mille passi equivalevano a circa 1600 metri, che è appunto la misura del miglio romano. Con tutta evidenza, quindi, si trattava di passi doppi: destro più sinistro.
Se questa fosse l’unità di lunghezza usata da Egeria, allora le distanze riportate nel suo racconto sarebbero rispettivamente di 6, 24, 4,5 e 52 chilometri.
Egeria, però. Ci tiene a far saper che che quelle misure le sono state comunicate dalle guide locali, monaci ignoranti che quasi certamente non avevano amiliarità con le pratiche dell’esercito romano. Per loro le distanze dovevano essere espresse in passi sempli, di 70-80 centimetri, e pertanto quei valori scendono a 3, 12, 2,2 e 26 chilometri. Inoltre quelle distanze erano misurate ovviamente lungo i sentieri e perciò erano almeno un 10% maggiori delle distanze in linea d’aria.
Nel primo caso le dimensioni della valle sarebbero state di 22 km per 5, largamente fuori scala nello scenario del Santa Caterina. Nel secondo caso queste dimensioni si ridurebbero a circa 11 per 2,5 km, ancora almeno tre volte superiori a quelle reali di quella valle.
Sorprendentemente, però, la distanza della montagna dall’oasi di Feiran (e solo questa) risulta corretta se espressa in miglia romane (mentre risulterebbe la metà del valore reale se espressa in passi semplici). A parte quest’unica parziale coincidenza, in entrambi i casi le misure riportate da Egeria sono macroscopicamente errate nello scenario del Santa Caterina, come si può vedere dalla seguente mappa.
Mappe e fotografie mostrano chiaramente che non c’è corrispondenza alcuna fra il racconto di Egeria e la geografia del Santa Caterina, con la sola eccezione della distanza del monte da Feiran (che però non poteva essere conosciuta dalla pellegrina in quella forma).
Se consideriamo i tempi di percorrenza, poi, i problemi non sono minori, anche limitandosi ai soli itinerari proposti da Lagrange e Mian, che iniziano all’imboccatura della valle, nel tardo pomeriggio di un sabato e terminano nello stesso punto nella tarda mattinata del lunedì successivo.
In sintesi: dopo aver percorso una cinquantina di chilometri da Feiran, arrivata nel pomeriggio in vista del monastero, Egeria avrebbe percorso altri otto o dieci km fra i monti per andare a dormire in un qualche eremo su un monte alle spalle del Sinai.
Di qui, la domenica mattina, in tre ore avrebbe raggiunto la cima del Sinai (2.285mt), dove si intrattenne per una o due ore al massimo, dopodiché discese per raggiungere un’altra cima, di altezza paragonabile, il monte Horeb, impiegando certamente meno di due ore. Infatti le ci vollero altre due ore per raggiungere il monastero, dove arrivò all’ora decima, vale a dire un paio d’ore prima del tramonto. Il giorno dopo percorse tutto il fondo valle, fermandosi qua e là a rimirare i resti dell’esodo e rientrò in serata a Feiran.
Sono prestazioni che metterebbero in serie difficoltà anche un campione maratoneta; figurarsi una fragile pellegrina con il suo seguito di monaci malandati!
Buona parte del racconto di Egeria è dedicato ai suoi incontri con i monaci che abitavano nell’area del monte sacro e a descrivere chiese, siti agricoli, sia sopra il monte, nei pressi della vetta, sia nella valle sottostante, resti archeologici, attribuiti all’esodo degli ebrei, e così via. Niente del genere esisteva nel Santa Caterina all’epoca di Egeria. Possiamo quindi escludere che il racconto si riferisca a questa montagna.
Chiaramente c’è qualche problema con la narrativa del diario. Una accurata analisi del manoscritto ci consente di capire di che si tratta. Il codice trovato ad Arezzo non è la trascrizione completa del diario originale di Egeria, ma soltanto un “collage” di estratti che riportano i viaggi da e per Gerusalemme compiuti dalla pellegrina durante i suoi tre anni di permanenza nella città santa, assemblati però in un ordine diverso da quello originale.
Nel manoscritto l’ordine di due viaggi è stato invertito in modo da far risultare che Egeria ha raggiunto il monte sacro partendo dall'Egitto. La prova di questa manipolazione è fornita da una nota inserita dal copista al fondo di pagina 37 del codice aretino. Gli unici dati del racconto coerenti con lo scenario del Santa Caterina vengono così a perdere ogni valore.
Il diario di Egeria è un racconto troppo preciso, coerente e dettagliato per essere un frutto di fantasia; esso descrive certamente un viaggio reale in un luogo reale. Vediamo come esso corrisponde all’area di Har Karkom.
Se ambientiamo tutte le informazioni contenute nel manoscritto nello scenario di Har Karkom, siamo costretti a seguire un percorso che corrisponde completamente, fin nei più piccoli dettagli, ai dati forniti da Egeria.
Punto di partenza e ritorno dell’itinerario è il sito di Beer Ada, alla confluenza del wadi Karkom nel wadi Faran; scelta obbligata, dal momento che la base di partenza e arrivo di Egeria era un abitato di nome Faran. Egeria deve essere partita da qui un sabato, di buon mattino, e deve aver risalito il wadi Karkom, a dorso di una cavalcatura, probabilmente un mulo, accompagnata da alcune guide locali. Un percorso facile e scorrevole, che deve aver richiesto non più di cinque o sei ore, sette al massimo contando le soste, per arrivare all’imboccatura della valle Karkom.
Nel primo pomeriggio si affaccia sul piccolo cratere di Beer Karkom, situato all’estremità settentrionale della Valle Karkom, un pozzo dell’età del bronzo, con una portata d’acqua piuttosto limitata, come appunto il pozzo della biblica Refidim. Di fronte ad esso, al di là del wadi, si innalza una collina, dalla quale si domina una spianata adiacente al pozzo stesso, identificabile con il campo di battaglia fra israeliti e amalechiti. Questo sarebbe il “monte” su cui salì Egeria, con grande fatica, secondo quanto riportato nella lettera di Valerio del Bierzo, perché dovette compiere l’ascensione a piedi, non essendo possibile salirvi in groppa ad un animale.
Sulla cima delle collina c’è un mucchio di pietre, disposte a formare un comodo sedile (indicato da Anati come sito BK 446 ). Fin troppo facile immaginare che fosse identificato dai monaci locali con il sedile su cui sedette Mosè, assistito da Aronne e Cur, mentre nella piana sottostante si svolgeva la battaglia. Oggi la piana è disseminata di tombe islamiche, ma al tempo di Egeria doveva essere vuota.
La salita sulla collina e la descrizione del sedile, con lettura dei relativi passi della Bibbia, deve aver avuto ampio risalto nella parte purtroppo mancante del diario, ma non deve aver richiesto poco più di un’ora, lasciando ad Egeria tutto il tempo per raggiungere, il sabato sera, la località sopra il monte dove avrebbe pernottato.
Scesa dalla collina, Egeria si inoltra nella valle. E’ qui che inizia il racconto sopravvissuto nel manoscritto aretino. Dopo alcune decine di metri si arriva “ad un luogo in cui quei monti, fra cui passavamo, si aprivano e formavano una valle … al di là della valle appariva il monte santo di Dio, il Sinai”. In questo punto Egeria si ferma per recitare una preghiera, com’era consuetudine. Poi imbocca un’antica mulattiera, perfettamente segnata ancor oggi, che percorre per un buon tratto il lato destro del wadi, passando a fianco di un cimitero con una novantina di tombe (sito BK 428), una quarantina delle quali di età ellenistica, le rimanenti più antiche.
Poche centinaia di metri più oltre il sentiero costeggia le 4 grandi piattaforme del sito BK 426, di epoca BAC, e attraversa poi il sito 430, dove nel raggio di 150 metri si elevano almeno 9 grandi tumuli nabatei. Egeria dice che all’inizio del sentiero si imbatté nei “sepolcri dell’ingordigia”, quelli dove furono sepolti gli israeliti morti per aver mangiato troppe quaglie, evidentemente identificati nell’uno o nell’altro di questi complessi di strutture, o forse anche in tutti e tre.
Il sentiero “attraversa l’estremità della valle” per un paio di chilometri, dopodiché si inerpica su un costone che sale direttamente su uno stretto crinale lungo il quale si può accedere all’altipiano di Har Karkom. Un sentiero ben tracciato, con ampi tornanti costruiti appositamente per facilitare la salita con cavalcature, probabilmente dai monaci che abitavano in un villaggio situato in cima al crinale, al bordo di un’ampia conca. Certamente essi lo utilizzavano per trasportare l’acqua a dorso di asino dal pozzo fino ai loro orti sul fondo della conca.
Lungo il sentiero si trovano alcune incisioni rupestri che mostrano cavalcature e anche personaggi a cavallo. Una in particolare, di epoca bizantina, la stessa della visita di Egeria, situata a mezza costa, mostra un importante personaggio, accompagnato da due personaggi a piedi. Si tratta certamente di una donna, perché monta su una sella particolare, unica del suo genere in tutta l’area di Har Karkom; una sella femminile, rialzata ai lati anteriore e posteriore. Coincidenza forse casuale, ma tanto straordinaria da indurre a ritenere, se non proprio certo almeno assai probabile, che l’incisione sia stata eseguita per commemorare la visita di un illustre personaggio femminile. Chi altri se non Egeria?
La mulattiera conduce ad un insediamento, il sito HK 183, esattamente sul crinale che separa la valle Karkom dal Paran e che si configura come una lunga propaggine dell’altipiano. E’ un sito di epoca BAC, ma riutilizzato in epoca romano-bizantina. Consiste in un grande recinto, una specie di piazza circondata da strutture abitative, fra cui una ovale con sul fondo un suggestivo ortostato, identificabile con una chiesa. Accanto alle strutture c’è una conca di circa 500 metri quadri, che raccoglie e trattiene l’acqua piovana che cade sulla cima, per cui ha il fondo coperto di terreno fertile e verdeggiante, che all’epoca era sicuramente coltivato, perché mostra ancor oggi la suddivisione in appezzamenti.
La conca è dominata da una roccia la cui faccia verticale è istoriata con incisioni BAC, che sembrano essere state “cristianizzate”. Il personaggio centrale della raffigurazione, infatti, regge un attrezzo verticale, originariamente forse un arco, che è stato ritoccato per farlo assomigliare ad una croce. Perfetta allegoria del “buon pastore” cristiano.
Egeria trascorre la notte nel sito, probabilmente in una cella riservata agli ospiti illustri (vedi figura). Il percorso dal pozzo all’eremitaggio in cima al crinale richiede da una a due ore, a seconda del passo e delle soste. Perfettamente coerente con il racconto di Egeria, che dice di aver “affrontato la montagna il sabato sera”.
La corrispondenze di questa parte del percorso, a cominciare da Faran, con il racconto di Egeria è pressoché totale, sia come tempi di percorrenza che come caratteristiche ambientali e strutture incontrate, a cominciare dai sepolcri dell’ingordigia, per finire con il sito archeologico BK 183, che all’epoca di Egeria era sicuramente occupato da una comunità di monaci. C’è in più la testimonianza incisa su roccia, contemporanea di Egeria, della visita di un alto personaggio femminile che si reca al sito HK183 a dorso di una cavalcatura.
“Alle
prime ore della domenica, con il prete e i monaci che vi abitavano, cominciammo
a salire le montagne, una dopo l’altra. Queste si scalano con enorme fatica,
perché non è possibile salirle a poco a poco, girando intorno o, come si suol
dire, ‘a chiocciola’, ma le sali tutte a diritto e sempre a diritto bisogna
scenderle una per una ...”
Difficile capire il significato di queste parole, se non si ripercorre lo stesso itinerario percorso da Egeria. Per andare dal sito HK 183 fino all’altipiano di Har Karkom si deve seguire, a piedi, un sentiero che corre lungo il crinale e si devono superare tre selle, di cui l’ultima molto profonda. In corrispondenza delle selle il crinale è molto stretto, con i bordi strapiombanti, per cui è giocoforza scendere e salire sempre a diritto, superando forti pendenze. Una volta raggiunto l’altipiano il percorso diventa agevole, fino alla vetta centrale, che si presenta come una grande piattaforma, con i versanti relativamente ripidi.
Andando di buon passo, la distanza fra il sito BK 183 e la cima della vetta centrale (sito HK 40) può essere coperta comodamente in un paio d’ore. Egeria ed i suoi accompagnatori vi arrivano alla quarta ora, cioè verso le nove della mattina, impiegando non più di tre ore. Un tempo più che ragionevole, anche se dobbiamo presumere che il percorso pianeggiante sull’altipiano lo abbia effettuato in sella alla sua cavalcatura, com’era solita fare (cap. 3,2).
Arrivata sulla cima Egeria trova “una chiesa non grande, dato che il luogo stesso, cioè la sommità del monte, non è molto grande”. Visto lo spreco di superlativi che Egeria fa in ogni occasione, la chiesetta in questione doveva essere davvero piccola. Attualmente sulla cima non ci sono strutture di epoca romano bizantina. Negli anni ottanta, quando il Prof. Anati si recò per la prima volta su quella cima, c’erano evidenti tracce di un’antica struttura semicircolare, di un paio di metri di diametro. Successivamente, quando è iniziato il turismo esterno, i visitatori hanno rimosso ogni traccia di struttura, utilizzando le pietre per erigere un tumulo al centro della spianata.
Quando Egeria arrivò alla chiesetta sulla cima, le si fece incontro un vecchio “prete che veniva dal suo eremo … ci vennero incontro anche gli altri sacerdoti, insieme a tutti gli altri monaci che abitavano lì, nelle vicinanze del monte.”
Oltre agli occupanti del sito 183, quindi, anche altri eremiti raggiunsero la vetta provenienti da insediamenti che, stando alla descrizione, si dovevano trovare nelle immediate vicinanze ed in vista della vetta centrale. Questa vetta è lambita dal solco profondo del wadi che raccoglie le acque dell’altipiano, scaricandole con un salto spettacolare sul fondovalle, un chilometro più lontano. Lungo il wadi, proprio ai piedi della vetta, ci sono due insediamenti (i siti HK38 e HK39) che erano abitati in epoca romano-bizantina. Gli occupanti coltivavano alcuni piccoli terrazzamenti agricoli ricavati lungo il corso del wadi e si rifornivano di acqua da una pozza perenne, che si trova alla sua estremità (sito HK92).
Associati a questi siti abitativi esistono piccoli terrazzamenti agricoli (sito HK43), tuttora lussureggianti di vegetazione. Essi confermano la verosimiglianza del passo in cui Egeria dice che
“al momento di uscire di chiesa i
preti del luogo ci dettero le ‘eulogie’, cioè delle mele che nascono sul monte.
Benché la santa montagna del Sinai sia tutta di pietra, tanto che non ha alcuna
vegetazione, tuttavia in basso, vicino alle falde di quei monti, ossia intorno
a quello centrale e intorno a quelli che si trovano in cerchio, c’è un po’ di
terra. Così i santi monaci vi depongono piccoli alberi, creano dei piccoli
frutteti o colture, vicino ai loro stessi eremitaggi. Dopo che ci ebbero date
le ‘eulogie’, cominciai a chiedere loro di mostrarci i vari luoghi … ci fecero
vedere la grotta dove stette san Mosè, quando per la seconda volta salì sul
monte di Dio…”.
E’ significativo che la grotta sia mostrata dalla cima del monte; infatti dalla vetta centrale di Har Karkom si vede perfettamente una grotticella che si apre su una vetta gemella a poca distanza (sito HK 42), che anche oggi viene indicata come la grotta in cui si nascose Mosè.
Tutto perfettamente congruente con il racconto di Egeria
La vista che si gode dalla cima (la più alta della zona) è straordinaria e viene così descritta nel diario:
“Quella cima speciale sulla cui
sommità è questo luogo in cui discese la maestà di Dio, si trova al centro di
tutte le altre. E benché i monti che si trovano intorno siano tanto alti quanto
penso di non averne mai veduti, tuttavia quello al centro, sul quale discese la
maestà di Dio, è tanto più elevato di tutti che, una volta salitici sopra,
allora tutte le altre montagne, che avevamo viste tanto alte, si trovavano così
al di sotto di noi, come se fossero state collinette piccolissime.
Basta un’occhiata all’orografia dell’altipiano di Har Karkom, con la sua cima centrale, il sito HK40, per rendersi conto quanto adeguata a quel preciso luogo sia questa descrizione. Egeria descrive quei monti come altissimi, i più alti che avesse mai visto. E’ una sensazione soggettiva, ma reale, perché da quella cima, che è la più alta della zona, si domina tutto il territorio all’intorno e sembra proprio di essere in cima al mondo; una sensazione amplificata dalla sacralità del luogo e probabilmente anche dall’emozione del ricordo. In realtà i tempi di percorrenza che lei descrive, quelli suoi come quelli dei monaci che la raggiungono prontamente sulla cima, sono compatibili con le dimensioni reali della cima di HK. Ma è solo recandovisi che si può apprezzare in pieno la efficacia e “correttezza” di quella descrizione. L’impressione che se ne ricava è esattamente la stessa.
Anche la descrizione di questa parte del monte Sinai, quindi, corrisponde in pieno, fin nei più piccoli particolari, come tempi di percorrenza, caratteristiche topografiche, strutture abitative, con relativi abitanti, orti ecc, con l’altipiano di Har Karkom.
Egeria si deve essere trattenuta sulla cima del monte di Dio non più di un paio d’ore, al termine delle quali ne discese per salire su un’altra montagna sacra, ben distinta dalla prima, che lei identifica come il monte Horeb “quello in cui andò il santo profeta Elia, quando fuggì dal cospetto del re Achab e dove Dio gli parlò...” (l’Horeb è distinto dal Sinai anche al St. Caterina nda).
La descrizione di quel che le viene mostrato su quel monte è precisa e circostanziata.
“La grotta in cui rimase nascosto
sant’Elia ancora oggi viene mostrata davanti alla porta della chiesa che vi si
trova. Viene fatto vedere anche l’altare di pietra che vi pose lo stesso
sant’Elia, per offrire un sacrificio a Dio.... ci dirigemmo poi verso un altro
luogo non lontano da lì, che monaci e preti ci mostravano, cioè il luogo in cui
era stato sant’Aronne con i settanta anziani,... In quel posto c’è un’enorme
pietra circolare, con la superficie superiore pianeggiante, sulla quale si dice
che stettero quei santi. Lì in mezzo si trova come un altare, fatto di pietre.”
E’ la perfetta descrizione di un piccolo monte isolato, al centro della valle Karkom, il sito 221 bis, che presenta sulla cima due enormi rocce adiacenti.
Sulla maggiore, una sorta di imponente acropoli naturale, si trova un tempietto di epoca ellenistica, di 3 metri per 6, sul cui fianco si apre un ampio riparo sotto roccia e di fronte a cui è innalzato un piccolo altare. La minore, separata dalla prima da una piccola sella, è grosso modo circolare, con la superficie piana, che presenta un rialzo roccioso al centro. Luogo perfetto per Aronne ed i settanta anziani.
Anche i tempi di percorrenza indicati nel diario sono congruenti con le indicazioni fornite nel diario. Il percorso da cima a cima può essere coperto comodamente in un paio d’ore, soprattutto tenendo conto che è in gran parte percorribile in sella ad un animale da soma. Egeria dovette scendere dal monte Sinai tra le dieci e le undici di mattina, arrivò sulla cima del monte Horeb intorno all’una del pomeriggio e vi si intrattenne per circa un’ora. Perfettamente coerente.
Dalla cima del sito 221 B, il monte Horeb di Egeria, si vedono distintamente, a valle verso ovest, alcuni siti abitativi di epoca romano bizantina (siti BK 492, BK 506), che mostrano chiaramente il loro carattere di “laurae” monacali e possono essere raggiunti agevolmente in mezz’ora circa. Da qui, proseguendo sul fondo valle verso sud, si arriva ad una serie di terrazzamenti agricoli (siti HK 225, 227 e 228) di epoca romano bizantina.
Al centro di essi, nei pressi di un grande appezzamento ancor oggi particolarmente fertile e rigoglioso, si trova il sito HK 228 c, costituito da quattro grandi strutture abitative allineate, più diverse strutture minori, con nei pressi un gruppo di 13-14 cumuli di pietre, probabilmente il cimitero del villaggio. All’epoca di Egeria questo sito, essendo coltivato e irrigato, doveva essere particolarmente rigoglioso, per cui risulta abbastanza appropriato identificarlo con il “luogo del roveto ... all’altra estremità della valle”, dove Egeria dice di aver trascorso la seconda notte.
Il tutto viene a coincidere esattamente con il suo racconto, anche per quanto concerne i tempi di percorrenza. Essa dice di essere scesa dal monte Horeb all’ora ottava, e cioè verso le due del pomeriggio, e di essere arrivata al luogo del roveto all’ora decima. Il sito 228 è comodamente raggiungibile dal sito 221 b in un paio di ore, ivi comprese brevi soste nei siti BK 492 e 506.
Partendo dal “luogo del roveto”, e percorrendo il fondo della valle da sud verso nord, si incontrano alcuni dei più straordinari siti archeologici della zona, come il sito BK513, ai piedi del 221 B, con una grande roccia infissa nel terreno, circondata di stele, che possiamo immaginare i monaci della zona identificassero con l’altare del vitello d’oro (una pietra di forma zoomorfa era stata appoggiata al masso); a qualche centinaio di metri il sito ellenistico BK 480, impressionante con le sue oltre 100 strutture abitative.
Ovviamente né Egeria né monaci che l’accompagnavano potevano essere in grado di datarne i resti – perfettamente naturale e legittima, quindi, che attribuissero quelle strutture agli israeliti. Procedendo oltre si incontrano una lunga serie di siti, tutti di epoca anteriore ad Egeria, BK 462, 463, 458, , 454, 450 ecc. con piattaforme, tumuli ed ogni sorta di strutture abitative.
Il tutto in perfetta aderenza al racconto, ivi compresa “l’impronta del tabernacolo”, identificabile con due grandi impronte rettangolari, nei pressi di Beer Karkom, attribuite da Anati al periodo romano, per la loro forma rettangolare.
Alla fine si arriva nuovamente al pozzo di Refidim, da dove si imbocca il wadi Karkom e si torna al punto di partenza, a Beer Ada, nel wadi Paran. Da notare che lungo questo percorso si incontrano vari siti abitativi romano-bizantini (BK 503, 622, 628, 641 ecc), dove Egeria dovette effettuare brevi soste, in visita ai monaci che vi risiedevano e per rifocillarsi.
Anche per la terza giornata i tempi di percorrenza corrispondono. Dal sito 228 a Beer Karkom ci sono non più di 10 km, comodamente percorribili a dorso di mulo, comprese brevi soste nei siti archeologici scaglionati lungo la via, in circa tre o quattro ore.
Il resto della giornata appare sufficiente per percorrere i circa 20 km che separano Beer Karkom dal wadi Paran. Un tragitto perfettamente fattibile con animali da soma, anche se faticoso. Egeria, infatti, rimase a Faran per i successivi due giorni, per riposarsi dalle fatiche di questo viaggio.
Tempi di percorrenza, descrizione ambientale, descrizione dei siti archeologici, personaggi e luoghi abitativi, coltivazioni e loro ubicazione: tutto ad Har Karkom corrisponde in maniera impressionante alla descrizione di Egeria. La totalità dei particolari da lei riferiti, ivi comprese le impressioni personali, trova un preciso riscontro, al punto che il suo diario potrebbe a buon diritto proporsi, senza alcuna modifica, come guida turistica per la visita ad Har Karkom. L’itinerario percorso seguendo le indicazioni del testo, infatti, è il migliore concepibile per visitare tutti i luoghi di interesse biblico della zona.
Che Har Karkom sia o meno il vero monte Sinai è forse non dimostrabile in modo certo sulla base delle evidenze archeologiche scoperte fino ad oggi. Quello che invece appare innegabile, sulla base della relazione di Egeria, è che esso fu identificato come tale da monaci e pellegrini cristiani dei primi secoli della nostra era.
Har Karkom è situato al confine sud-occidentale del regno dei Nabatei. La capitale, Petra, si trova a circa 40 km
a est.
Particolare della mappa di Cepparuti (1680
ca) che colloca il monte Sinai nel paese dei Nabatei, esattamente dove si trova
Har Karkom.
Insediamento di monaci ad Har Karkom, con otto celle allineate lungo il wadi (sito BK506).
Pagina del codex aretinus 405, con il
racconto del viaggio di Egeria al monte di Dio
La mappa riportata da Maraval dei due tentativi di ricostruzione dell’itinerario di Egeria, fatti
da Lagrange (1) e dalla Mian (2) al Santa Caterina.
Gli stessi itinerari riportati su
una carta israeliana della zona del Gebel Mousa (monte di Mosè)
Schema di principio
del percorso effettuato da Egeria nella sua visita al monte di Dio, secondo quanto riportato nel suo diario
Nel riquadro interno l’itinerario di Egeria al Santa Caterina, secondo le
ricostruzioni di Lagrange e Mian. Le dimensioni del riquadro sono di poco più
di 3 km per 5. Questo dà un’idea abbastanza precisa delle distanze in gioco,
enormemente inferiori a quelle riportate nel diario.
La valle di Dio nello scenario del Santa
Caterina. Sullo sfondo, al centro, si vede la gola da cui Egeria si sarebbe
affacciata alla valle per la prima volta, a poco più di un’ora di cammino dal
monastero.
Il viaggio di tre giorni di Egeria nello scenario del Santa Caterina, secondo le ricostruzioni di
Lagrange e della Mian. Nel quadratino a destra è riportato il percorso effettuato
intorno e sopra il monte
Una nota inserita a fondo pagina dal copista beneventino dimostra che il testo originale è stato manipolato
Il percorso di Egeria dalla base di partenza, Faran, a Refidim (Beer Karkom)
Il percorso di Egeria dall’imboccatura della valle al sito del primo pernotto
Il pozzo di Refidim (Beer Karkom), all'imboccatura della valle di Dio
Il cosiddetto “Trono di Mosè”, su una collina di fronte a Beer Karkom (sito BK446)
Il monte Horeb come apparve ad Egeria all'imboccatura della valle di Dio
Il sentiero di Egeria in testata della valle Karkom
Antiche tombe (sito BK428) lungo il sentiero di Egeria, identificate con le tombe dell’ingordigia
Il sentiero di Egeria si inerpica sul monte
Gran dama a cavallo in visita al monte
Il sito HK 183 con strutture abitative, orti e una "chiesa"
Incisione rupestre “cristianizzata” di epoca Bac nel sito BK 183, dove Egeria avrebbe
trascorso la prima notte
La struttura del sito HK 183 identificata come “chiesa”
I dislivelli lungo l'itinerario di Egeria ad Har Karkom
Il sentiero sull’altipiano di Har Karkom, proveniente dal sito HK 183,che conduce alla vetta
centrale (sullo sfondo)
La vetta centrale dell'altipiano di Har Karkom
Il tumulo innalzato recentemente sulla vetta centrale di Har Karkom in luogo di un’antica
struttura semicircolare
Strutture abitative di epoca romano-bizantina ai piedi della vetta centrale di
Har Karkom, di fronte a piccoli terrazzamenti agricoli, (sito HK43) ancora oggi
verdeggianti, nel letto del wadi.
Pozza perenne al termine del wadi (sito HK92), dove i monaci che abitavano quegli insediamenti attingevano
l’acqua.
Piccola altura di fronte alla vetta centrale di Har Karkom, sulla cui
cima si trova la “grotta di Mosè”.
La grotticella, indicata come quella in cui si nascose Mosè (sito HK42)
Percorso del secondo giorno: dal sito HK 183 al luogo del roveto.
Le due cime del sito 221, il monte Horeb di Egeria
La piattaforma principale, con la “chiesa” e la grotta sul finaco della roccia
L’altare innalzato da Elia.
La piattaforma di Aronne e i settanta anziani
Terrazzamenti agricoli di epoca romano-bizantina lungo il wadi
all’inizio della valle Karkom
Strutture abitative e tombe nei pressi dei terrazzamenti (luogo del roveto - sito HK 228)
Itinerario completo di Egeria ad Har Karkom
L’altare del vitello, ai piedi del monte
Horeb.
Accampamento ellenistico, attribuito da Egeria agli Israeliti dell'esodo
L’impronta del tabernacolo di Mosè vista da Egeria.