Gli ebrei giunsero in Egitto nel ventiquattresimo-ventiseiesimo anno di Haremab e vi restarono per tutto il regno di Ramsess I, Seti I e Ramsess II. Quattro anni dopo la morte di quest’ultimo, lasciarono Pi-Ramsess per recarsi in Palestina. In tutto poco meno di novant’anni, “il tempo di quattro generazioni” (Gn.15,16). I primi tempi, finché regnarono Ramsess I e Seti I, grandi protettori di Giacobbe, furono anni d’oro per Israele. Le cose cambiarono sotto Ramsess II, che non aveva alcun motivo per considerare quei suoi sudditi come speciali.
Ramsess II, dispotico e megalomane, mise alla frusta l’intero Egitto per realizzare i suoi piani edilizi “faraonici”. Israele non sfuggì al destino comune e dovette piegare la schiena come gli altri. Tanto più che viveva nel Gosen, regione che rientrava fra i domini privati di Ramsess, per la quale egli aveva in serbo grandi progetti, fra cui la costruzione di una nuova splendida capitale, Pi-Ramsess, e di una città commerciale, Pitom.
La Bibbia sparge fiumi di lacrime sulle condizioni di schiavitù degli ebrei in Egitto in questo periodo. Ma è la stessa Bibbia che si smentisce in più occasioni, per far sapere che dopotutto non se la passavano proprio male e non potevano definirsi dei veri e propri schiavi. Quanto a lungo, infatti, nel deserto del Sinai rimpiansero quella “schiavitù”; e quante volte furono sul punto di ritornare indietro! (Es. 16,3; Nm. 14,1-4; ecc.)
In realtà gli Ebrei conservarono tutti i loro diritti, le loro proprietà, la loro struttura sociale. Ramsess si limitò ad imporre loro un certo numero di corvées gratuite, in particolare la fabbricazione dei mattoni necessari per la costruzione della città. Ma non li ridusse in catene, né li espropriò dei loro beni e della loro autonomia economica.
A quanto risulta dallo stesso Esodo, gli Ebrei erano ricchi. Possedevano grandi quantità di bestiame; erano i maggiori produttori di carni, latticini e pellami; andavano e venivano, compravano e vendevano a loro piacimento; avevano alle loro dipendenze schiere di servi e mandriani (sui quali cadeva il peso della produzione di mattoni). Quasi certamente essi possedevano nel loro territorio di Gosen strutture fisse: recinti, stalle, mercati, seconde case. Se ne disfecero prima della partenza, barattandole con oggetti preziosi di piccolo ingombro: oro, tessuti, gioielli, secondo le disposizioni di Mosè (Es. 3,21-22, 11, 2 e 12,35). Non sono le condizioni che siamo soliti immaginare per uno schiavo. Certamente l’immagine cinematografica, cara ai nostri registi, di schiere di ebrei incatenati, curvi sotto il peso di grossi macigni, tormentati da giganteschi e sadici aguzzini, è del tutto irreale.
E’ possibile che, dopo tanto tempo, un certo numero di Ebrei, specie fra le classi sociali meno abbienti, si fossero sedentarizzati, stabilendosi nelle periferie delle città e trovando impiego nei cantieri edili o alle dipendenze di proprietari egizi: “Se tu riconosci che vi siano tra loro degli uomini capaci, costituiscili sopra i miei averi come capi delle greggi” (Gn. 47,6). Costoro erano “naturalizzati” Egizi ( lo stesso Mosè doveva essere fra questi) e in gran parte non dovettero partecipare all’Esodo; le loro condizioni non dovevano essere diverse da quelle di un qualsiasi altro lavoratore egizio di pari livello. Ma in ogni caso non è sul destino di questi ultimi che la Bibbia versa qualche lacrima.
Certo, Israele era soggetto all’autorità del faraone. Un’autorità assoluta e insindacabile, spesso capricciosa, nei cui confronti non aveva difese. Come tutti gli altri Egizi, del resto. Come tutti doveva pagare le “tasse”, che a quel tempo consistevano principalmente in prestazioni d’opera gratuite. Il lavoro che gli fu imposto era probabilmente pesante, ma non massacrante, con responsabili ebrei che rispondevano di fronte all’autorità egizia. Gli ebrei avevano modo di presentare le proprie lamentele e di essere ascoltati (Es. 5,6-19). Erano senza dubbio soggetti ad angherie da parte dell’autorità, come qualsiasi altro Egizio, del resto. Ma le loro condizioni non potevano definirsi orribili.
Pur vivendo nell’Egitto, che garantiva l’ordine, la sicurezza personale e l’esercizio della giustizia, gli Ebrei continuarono a mantenere la struttura patriarcale che avevano quando vennero in Egitto e quindi la loro individualità come popolo. Tutti i beni appartenevano alla classe nobiliare, costituita dai discendenti diretti di Giacobbe, divisi in tredici (i figli di Giuseppe, Manasse ed Efraim, infatti, avevano costituito due tribù separate) grandi “famiglie” relativamente indipendenti fra loro e ognuna proprietaria di bestiame e servi. La famiglia di Giuda conservava una sorta di supremazia sulle altre, forse più nominale che di fatto, in virtù del testamento di Giacobbe (Gn. 49,8). Probabilmente serviva soltanto come portavoce del popolo presso il faraone e viceversa. Ma all’interno di Israele vigeva una sorta di governo aristocratico, costituito da un organismo, il consiglio degli anziani, in cui erano rappresentate alla pari tutte le tribù. Le decisioni venivano prese collegialmente da tale organismo (sempre, in seguito, le decisioni e i compiti più importanti saranno demandati a comitati composti da rappresentanti di tutte le tribù).
Ogni tribù, come vedremo meglio in seguito, era costituita mediamente da due a tremila persone, che avevano nel bestiame la loro principale risorsa economica. I capi di ogni singola tribù erano esclusivamente i maschi discendenti legittimi di Giacobbe (gli "elef"), in media una cinquantina ogni tribù; essi costituivano la classe nobiliare ed erano collegialmente i proprietari di tutti i beni comuni, in particolare il bestiame. I vari capitribù erano senza dubbio refrattari ad accettare una autorità superiore appartenente alla propria stirpe. L’unica autorità che riconoscevano e rispettavano era quella egizia.
Vivendo a stretto contatto con gli Egizi, gli Ebrei dovevano aver assimilato molte loro tecniche di vario genere, soprattutto nel campo dell’artigianato dei piccoli oggetti di uso quotidiano. Occasionalmente venivano impiegati nelle opere pubbliche, per lavori di bassa manovalanza, privi di un grande contenuto tecnologico (Es. 5,7). Come è sempre accaduto al popolo ebreo in terra straniera, dovevano aver adottato la lingua del Paese ospitante. Ma la loro acculturazione non doveva essersi spinta oltre.
Gli unici che potevano in qualche modo aver acquisito conoscenze tecnologiche, scientifiche, amministrative e di altro genere proprie degli egizi, erano quegli ebrei naturalizzati (come Mosè e certamente anche Giosuè), divenuti sedentari ed impiegati nell’amministrazione pubblica. Erano una minoranza trascurabile, nell’esodo; ma grazie alla loro superiorità culturale, riuscirono ad assumere il controllo del popolo intero.
E’ importante, per capire gli avvenimenti, la mentalità, i moventi e le aspirazioni degli Ebrei che uscirono dall’Egitto, a cominciare da Mosè, stabilire quali fossero le loro convinzioni religiose prima dell’Esodo. Certamente non avevano alcuna attinenza con la cultura e la religione successive. Prima di Mosè gli Ebrei professavano più o meno la stessa religione di Giacobbe, Isacco ed Abramo (Gs. 24,2; 24,14 e 24,19), con forti “inquinamenti” egizi.
La tradizione vuole che Abramo, pur non osservando la legge mosaica, la Pasqua e tutte le altre cose che caratterizzano la religione ebraica, si distinguesse dagli uomini del suo tempo perché rigorosamente “monoteista”. Sarebbe stato davvero strano! Era un Mitanni, per nulla diverso dai connazionali del suo tempo; il suo “Olimpo” era certamente non meno popolato del loro.
In Egitto gli Ebrei onoravano una moltitudine di dèi: “… gli dèi ai quali hanno servito i vostri padri al di là del fiume ed in Egitto” (Gs. 24,14). Fra tutti riconoscevano probabilmente che ce n’era uno di speciale, esclusivamente loro (Es. 5,3 e 18,1). Come il dio degli Ebrei, potente e feroce, lo conoscevano i Palestinesi (Gs. 9,9); non l’unico o il vero Dio: uno dei tanti. Ma dopo Mosè divenne un dio gelosissimo: non tollerava che i suoi protetti volgessero gli occhi ad altre divinità concorrenti (Dt. 4,35 e 5,6; Gs. 24,19 ecc). Fu così che nacque il monoteismo. Grazie a Mosè.
Gli Ebrei si erano stabiliti in Egitto, ma continuavano a ritenersi i legittimi titolari del principato di Ebron, che era stato dato da Tutmosi III ad Abramo e ai suoi discendenti. Questo doveva essere scritto su un documento stilato da Tutmosi stesso. Isacco consegnò tale documento a Giacobbe in occasione della sua “benedizione”[1], e Giacobbe lo dovette portare sempre con sé. Verso la fine del periodo di permanenza in Palestina, ritroviamo Giacobbe a Beer Sheba (Gn. 46,1), ma soltanto di passaggio. Egli non fu mai reintegrato nei suoi antichi domini, perciò lasciò di buon grado la Palestina per stabilirsi in Egitto.
Il principato di Ebron era stato probabilmente smembrato in minuscoli feudi, in mano agli Amorrei e ai Cananei. Gli Ebrei, però, dovettero portare con sé i titoli di proprietà del principato, consegnati a suo tempo da Giacobbe a Giuda, nominato suo erede universale a capo del popolo di Israele (Gn. 49,8). Giacobbe aveva certamente rinunciato ai suoi diritti su Ebron quando rientrò in Palestina, in occasione del suo incontro con Esaù; ma fra gli Ebrei d’Egitto la cosa veniva accuratamente taciuta, mentre veniva accreditata la storia della primogenitura venduta per un piatto di lenticchie e della “benedizione” strappata con l’inganno.
Sembra quindi che Israele non abbia mai cessato di rivendicare la proprietà del principati di Ebron. Un territorio che, con il passare del tempo e la lontananza, assunse caratteristiche mitiche: una terra fertilissima, dove scorrevano il latte ed il miele. Mano a mano che le condizioni di vita in Egitto diventavano più dure, prendeva sempre più piede il nostalgico ricordo di quella terra perduta e cominciava a farsi strada l’idea di tornare in Palestina e riprendere possesso dei territori aviti.
A poco a poco si formò un partito favorevole al ritorno di Israele in Palestina, che doveva avere i suoi aderenti soprattutto fra le classi più umili, sulle quali si scaricava maggiormente il peso delle corvées edilizie imposte da Ramsess II, ma a cui non erano insensibili i “nobili”, allettati dall’idea di ricreare uno stato libero e sovrano. Dovevano essere comunque fermenti sotterranei, chiacchiere di anziani intorno ai fuochi di bivacco; sogni ad occhi aperti che nessuno in realtà riteneva realizzabili. Gli Ebrei discendevano da una stirpe di grandi guerrieri, ma nei novant’anni in Egitto non avevano mai combattuto una battaglia e avevano perduto ogni spirito guerresco. E’ fuori dubbio che non potevano possedere mentalità o spirito guerriero; né strutture organizzative di tipo militare; né armi, materiali o equipaggiamenti da guerra; né conoscenza o esperienza di cose militari. Gli Egiziani non lo avrebbero mai permesso.
Gli Ebrei non avevano quindi la benché minima possibilità di fuggire, perché gli Egiziani erano incomparabilmente più potenti e non era neppure concepibile allontanarsi senza il loro consenso, magari aprendosi la strada con le armi. E per andare dove, poi? La Palestina era ancora saldamente sotto il dominio egizio, e non era ipotizzabile, ai tempi di Mosè, una eclisse dell’impero. La Terra Promessa era dunque un sogno senza speranza, finché non arrivò Mosè, l’uomo più straordinario della storia, che trovò il modo di realizzarlo.
[1] “Per quanto possa sembrare strano, il testamento non è uno strumento molto usato; è l'imyt-per, l'atto di proprietà, che viene generalmente trasmesso dal padre ancora vivente a un figlio...” (F. Cimmino Vita quotidiana degli Egizi, Rusconi, Milano 1985, p. 159).
vedi successivo:
Le piaghe d'Egitto
Torna a:
pagina iniziale