Nel libro di Giosuè si trovano soltanto indizi indiretti a favore dell’ipotesi che la famiglia di Mosè sia entrata in Palestina, costituiti dalla assenza di notizie importanti che nessuno poteva ignorare a quell’epoca, primo fra tutti l’autore del libro, chiunque esso sia stato. Nel libro successivo, quello di Giudici, invece, si cominciano a trovare le prime vere e proprie prove dirette.
Ben due capitoli di Giudici, il 17.mo e 18.mo , vengono dedicati a una storia apparentemente strana e avulsa dal contesto narrativo del libro stesso.
Si parla infatti di un "certo" levita, figlio cadetto di un personaggio ignoto, che parte da Betlemme in cerca di fortuna e viene accolto in casa di un non meglio identificato Mica, che abitava sulla “montagna di Efraim” e che lo assume come suo "sacerdote" personale. Dopo varie vicende, il nostro sacerdote approda a Dan, dove fonda un santuario, divenendo sacerdote al servizio di quella tribù.
Alla fine (Gdc. 18,30), si scopre che questo levita innominato aveva un nome ben preciso, Gionatan, ed era figlio di un certo Ghersom. Chi era questo Ghersom?
Nel testo masoretico, si specifica che si trattava di “Ghersom figlio di Manasse”. L’unico Manasse comparso nelle cronache fino ad allora era il figlio primogenito di Giuseppe, morto in Egitto almeno un secolo prima. Non può quindi trattarsi di lui, nel modo più assoluto.
Che si tratti di un errore, o peggio ancora di una interpolazione voluta? Dopotutto nella scrittura ebraica è sufficiente inserire una n tra la m e la s per cambiare il nome di Mosè in Manasse.
Questo sospetto trova conferma nella versione biblica detta “dei settanta”, ritenuto da molti un testo più aderente all’originale ebraico. Qui c’è scritto chiaramente che si tratta proprio di lui, Ghersom figlio di Mosè. Nel testo masoretico, quindi, il nome di Mosè è stato cambiato in Manasse: opera di un lontano epigone del nostro censore.
Questo passo, quindi, fornisce la conferma che Ghersom, figlio primogenito di Mosè, era entrato in Palestina. Non soltanto: una informazione molto importante fornita da questo brano di Giudici è che i figli di Ghersom erano sacerdoti per diritto di nascita.
Ma c’è anche un ultimo particolare di estremo interesse, e cioè il fatto che
“Gionatan, figlio di Ghersom, figlio di Mosè, e quindi i suoi discendenti furono sacerdoti della tribù di Dan fino al giorno della deportazione dalla terra. Essi si eressero l’idolo che si era fatto Mica, che rimase in quel luogo per tutto il tempo in cui la casa di Dio fu in Silo”. (Gdc. 18,31).
Cosa c’entra Silo con Gionatan? E perché compare in riferimento a Ghersom? E’ evidente da questo cenno che fra Gionatan e il santuario di Silo doveva esistere un qualche legame diretto. E la spiegazione più immediata che balza alla mente è che il titolare del santuario di Silo fosse uno della sua stessa famiglia, e quindi verosimilmente suo padre Ghersom, o il suo erede, fratello maggiore di Gionatan.
Qualcuno, comunque, di famiglia: della famiglia di Mosè.
Anche l’episodio successivo, che prende interamente gli ultimi tre capitoli di Giudici, colpisce per alcune “omissioni” inammissibili. Protagonista dei fatti, pure in questo episodio, è un non meglio identificato “levita, che abitava all’interno delle montagne di Efraim” (Gdc. 19,1); proprio dove stava Silo.
Questo personaggio, durante un viaggio da Betlemme (1) a casa propria, accompagnato da una sua moglie, effettua una sosta nella città di Gabaa, dove viene fatto oggetto di avances da parte degli abitanti, beniaminiti. Per trarsi d’impaccio egli consegna loro la propria moglie, che muore in seguito alle violenze subite (Gdc.19,22-28).
Tornato a casa, il nostro levita taglia il cadavere della moglie in tanti pezzi e li manda, tramite messaggeri, a tutte le tribù di Israele, le quali si radunano “come un sol uomo dinanzi a Jahweh, a Mizpà” (Gdc. 20,1) e decidono di vendicare l’offesa arrecata all’anonimo levita.
L’intera tribù di Beniamino, migliaia e migliaia di persone, donne e bambini compresi, viene sterminata. Soltanto un piccolo gruppo di giovani maschi viene alla fine risparmiato, per non far scomparire del tutto una delle dodici tribù di Israele.
Ci sono varie cose che non convincono in questo episodio. Innanzitutto la natura di un peccato così grave da meritare lo sterminio di un’intera tribù, donne e bambini inclusi. I tentativi di spiegazione che si leggono nelle note esegetiche al testo, che identificano il peccato in una violazione delle regole dell’ospitalità, sono tutt’altro che convincenti.
Appare chiaro che la gravità della punizione è giustificata non tanto dalla gravità del peccato, quanto piuttosto dall’importanza di colui contro cui era stato commesso: certamente non un anonimo levita, ma una personalità di primissimo piano in Israele, che aveva il potere di convocare tutte le tribù “dinanzi al Signore” e chiedere vendetta.
Non può esserci dubbio che il suo nome fosse ben noto al redattore di questo episodio, che quindi doveva averlo omesso deliberatamente. Oppure, come per la famiglia di Mosè, il nome è stato oggetto di censura successiva.
Anche il luogo in cui le tribù si riuniscono per decidere la rappresaglia, il santuario di Mizpà, risulta quanto meno strano. Mosè aveva insistito a lungo nel suo ultimo discorso nella valle di Moab, riportato in Deuteronomio, perché ci fosse un unico luogo di culto, a cui far affluire tutte le offerte.
L’eccezione a questa regola, il luogo di culto istituito da Gionatan a Dan viene riportato con evidenza, ma in ogni caso collegato a Silo, dove sorgeva il tempio legittimo, l’unico legittimato ad eseguire il “sacrificio”. Non esistevano altri santuari in Israele, a quell’epoca, tanto meno nelle immediate vicinanze di Silo.
Mizpà significa “belvedere, luogo elevato, luogo di vedetta” e normalmente viene associato con il nome della località in cui si trova, come ad esempio Mizpà Ramon, il Belvedere di Ramon. Il nome da solo può indicare un luogo elevato di una località qualsiasi.
Appare chiaro dal contesto che questa Mizpà si trovava proprio a Silo; infatti i delegati di Israele si radunarono “davanti a Jahweh” (Gdc.20.1) e sappiamo bene che in quell’epoca la “casa di Jahweh” era a Silo.
Nella stessa circostanza viene detto che gli israeliti si radunarono davanti a Jahweh a Betel (2) (Gdc.20,26 - Gdc.21,2), per chiedere, soltanto due versetti dopo “chi non era intervenuto a quell’assemblea davanti a Jahweh, a Mispa”
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Subito dopo (Gdc. 21,19), l’autore ricorda “che ricorreva la festa annuale di Jahweh a Silo ”
.
Tutta la faccenda delle riunioni e giuramenti “davanti a Jahweh”, quindi, si svolge nella stessa area e certamente nello stesso luogo, perché è impensabile che potessero esistere tre diversi santuari in località limitrofe.
Il santuario presso cui i responsabili delle tribù si erano riuniti, quindi, doveva essere l’unico della zona, quello di Silo, il quale, come più tardi quello di Gerusalemme e come tutti i luoghi di culto a quell’epoca, era verosimilmente costruito in posizione elevata, su un “mizpà”, appunto. I nomi Mizpà, Betel e Silo, quindi, almeno in questo brano di Giudici, si riferiscono alla stessa località.
Ovvia e ineludibile conclusione è che l’anonimo levita protagonista di questo truculento episodio doveva essere un pezzo grosso del tempio di Silo, quasi certamente il titolare stesso, e cioè il sommo sacerdote, che a quell’epoca era, come abbiamo appena visto, il padre di Gionatan, Ghersom.
E in ogni caso era una persona che Israele doveva considerare sacra e intoccabile, al punto che ogni offesa arrecatagli ed ogni trasgressione ad un suo ordine (da rilevare che gli abitanti di Jabes del Galaad vengono sterminati semplicemente perché non si erano presentati all’assemblea da lui convocata a Silo - Gdc. 21,8-12) doveva essere punita con lo sterminio.
Questo si spiega perfettamente se si ritiene che la persona in questione fosse appunto un discendente diretto di Mosè.
E’ evidente che qualcuno ha apportato dei piccoli “ritocchi” al testo del libro di Giudici, per nascondere la vera identità del protagonista di quell’episodio.
Si tratta di un episodio di una barbarie rivoltante, per cui sarebbe comprensibile se qualcuno, nelle varie trascrizioni del libro, avesse cercato di nascondere ogni collegamento fra il suo protagonista e Mosè, per non macchiare la memoria e l’operato del sommo profeta con le malefatte dei suoi discendenti.
Ci sono altri motivi, oltre alla vigliaccheria e alla crudeltà, in grado di giustificare una censura volta a cancellare ogni connessione fra Mosè ed i suoi discendenti. Primo fra tutti il fatto che essi non potevano essere considerati dei veri e propri israeliti.
Un indizio in questo senso è fornito da un breve passo in Giudici 3, il cui significato è sfuggito fino ad ora od ogni spiegazione da parte degli esegeti.
Dopo la morte di Mosè, Giosuè non fece altro che eseguire punto per punto gli ordini da lui ricevuti: conquistò una larga parte della Palestina, la spartì fra le dodici tribù, disperdendo i leviti fra di esse, e assegnò ai sacerdoti, e cioè ai figli di Mosè, Ghersom ed Eliezer, la città di Silo.
Ghersom, in quanto sommo sacerdote, era la massima autorità religiosa di Israele, e alla morte di Giosuè avrebbe riunito nuovamente nelle sue mani, come suo padre Mosè, sia il potere spirituale che quello temporale.
Perché Mosè, prima di morire, trasmise il comando supremo del popolo a Giosuè e non a suo figlio Ghersom? Per debito di riconoscenza verso il più fedele compagno della sua vita?
Improponibile. I diritti del sangue venivano comunque prima dei vincoli di amicizia. Probabilmente fu una mossa che Mosè mise in atto proprio per rendere possibile, o per lo meno facilitare, la presa del potere da parte dei suoi figli.
Possiamo immaginare che Ghersom non fosse precisamente popolare fra gli israeliti. Era infatti di madre madianita, nato e cresciuto fra i madianiti e quindi decisamente di cultura madianita. Abbiamo visto al capitolo 12 di Numeri che perfino Miriam ed Aronne si rivoltarono contro la moglie “cushita” di Mosè.
Potevano gli ebrei, alla vigilia della conquista, accettare di punto in bianco un “cushita” come loro capo supremo in luogo di Mosè? Poteva un giovane nato e cresciuto nel deserto avere l’esperienza e la capacità di guidare una campagna militare di quelle proporzioni? Aveva la statura ed il carisma necessario per tenere saldamente in pugno quella massa di armati sempre pronti alla ribellione? In quanto “cushita” non aveva nessuna chance.
Fu probabilmente l’impopolarità e qualche grave deficienza caratteriale del suo figlio primogenito, Ghersom, che indussero Mosè ad affidare le sorti di quella campagna militare, e quelle della propria famiglia, nelle mani infinitamente più capaci e sperimentate del suo fidatissimo Giosuè. Il quale servì fino in fondo gli interessi della famiglia.
Prima di morire Giosuè radunò tutto il popolo ebraico a Sichem, e raccomandò loro con estrema forza di rimanere per sempre fedeli a Jahweh. Ghersom era il sommo sacerdote di Jahweh, titolare del tempio Silo.
Le parole di Giosuè, quindi, erano un invito esplicito ad essere fedeli a Ghersom ed alla famiglia sacerdotale. E l’insistenza e le minacce con cui Giosuè ribadì questo concetto, sono un chiaro indice che l’uomo a cui egli stava per rimettere i suoi poteri era tutt’altro che popolare in Israele.
Un indizio di ciò è essere fornito dal passo di Giudici 3, in cui si dice che subito dopo la morte di Giosuè Jahweh
abbandonò Israele nelle mani di Kusan Risataim, re di Aram. Gli Israeliti stettero sottomessi a Kusan Risataim per otto anni. Allora gli Israeliti alzarono il loro grido a Jahweh, il quale suscitò un salvatore che li liberò: fu Othoniel, figlio Qenaz, fratello minore di Caleb. Lo spirito di Jahweh fu sopra di lui, cosicché egli poté salvare Israele: quando Othoniel si mosse per combattere, Jahweh dette nelle sue mani Kusan Risataim, re di Aram, che fu vinto. La regione ebbe pace, poi per quaranta anni…
Gli esegeti si sono sempre chiesti chi potesse essere questo personaggio, che non era certamente un re Arameo, né risulta avesse un esercito, una sede, o che avesse invaso la Palestina o compiuto azioni militari di alcuna sorta.
Anche il nome è strano: Kusan, infatti, era il nome della tribù madianita cui appartenevano Ietro e Zippora, rispettivamente suocero e moglie di Mosè.
Inoltre, il “salvatore” (non giudice) Othaniel libera gli israeliti dalla sua oppressione, durata, secondo il testo, 8 anni, ma non si dice come abbia fatto. Il testo dice soltanto che “Othaniel si levò a combattere e Kusan fu vinto”
: la più breve descrizione di un fatto militare di tutto il libro di Giudici, solitamente ricco di particolari. Non è dato sapere se ci fu battaglia, con quali forze in campo, dove, come e cosa accadde a Kusan subito dopo.
Tanta parsimonia di informazioni è sospetta. Il tutto appare piuttosto misterioso ed in netto contrasto con la ricchezza di particolari con cui vengono riportate le gesta dei giudici successivi, tanto da far ritenere a tutti gli esegeti che il testo sia stato manipolato o corrotto.
La chiave sta molto probabilmente in quel nome: Kusan Risataim. E’ verosimile si tratti di un soprannome. La Bibbia non è nuova al fatto che personaggi delle sue vicende vengano identificati con un soprannome. Esaù, figlio di Giacobbe, passò alla storia col nome di Edom, “il Rosso”; anche Seir, “il Peloso”, è molto verosimilmente un soprannome.
Questo suggerisce l’ipotesi che il “cushita” Ghersom fosse indicato sprezzantemente col soprannome di Kusan, dalla tribù di appartenenza della madre, quella in cui egli era nato e cresciuto. Risataim significa “dalla doppia malizia” ed è quindi un’aggiunta dispregiativa al soprannome, che ne delinea il carattere maligno.
Una conferma a questa ipotesi ci viene involontariamente fornita dal solito apocrifo (3), quello stesso che definisce Ietro e Zippora come cushiti.
Pochi versi dopo, infatti, egli fornisce un elenco dei giudici che dominarono Israele significativamente diverso da quello fornito dal libro dei Giudici. Infatti egli dice testualmente:
“Dopo la morte di Giosuè si pose a capo dei figli di Israele, per ottanta anni, Kusan il terribile. Quindi guidò Israele per venti anni Othaniel, figlio di Kena e fratello di Kaleb, figlio di Iefunne”
Kusan, quindi, è il capo israelita che subentra immediatamente a Giosuè nel comando, non un re straniero invasore, e domina Israele per “ottanta anni”, non per otto. E, soprattutto, Othaniel gli succede in modo naturale, senza guerre e battaglie, come è detto in Giudici.
Sono “errori” dell’anonimo cronista (che peraltro appare straordinariamente preciso e accurato in tutte le altre informazioni), o non è piuttosto il testo di Giudici a nascondere la verità sotto un testo interpolato? I conti tornano.
Il nome è quello giusto: Ghersom è un cushita ed il soprannome Kusan gli si attaglia a pennello. Anche l’epoca, subito dopo la morte di Giosuè, è quella giusta, perché è proprio allora che Gershom gli subentra al potere.
Anche l’appellativo “terribile” è una indicazione coerente. Infatti è assai probabile che fosse proprio lui, Ghersom, l’anonimo levita che squarta la moglie morta in seguito alle violenze a cui lui stesso l’aveva abbandonata, ed esige una vendetta terribile, inaudita: lo sterminio dell’intera tribù di Beniamino, fino all’ultimo infante.
Ed è lui che ordina lo sterminio degli abitanti di Jabes rei di non aver risposto al suo appello di vendetta (4). Azioni così sproporzionate ai fatti dimostrano un carattere sanguinario ed incline alla ferocia, che certamente non valsero ad aumentarne la popolarità. Dobbiamo dedurne che la famiglia di Mosè fosse profondamente disprezzata in Israele e probabilmente è questo uno dei motivi per cui il collegamento fra Mosè e la sua discendenza è stato spezzato.
Mosè aveva imposto e mantenuto il suo dominio sul popolo ebraico e lo aveva mantenuto con il terrore. Aveva ucciso tutti i suoi oppositori esterni, dopo averli indotti a smarcherarsi con la faccenda del vitello d’oro.
Aveva ucciso i suoi oppositori interni, il cugino Cora, Datan e Abiram, con i loro “250” spalleggiatori. A Kibroot Attahava aveva ucciso altri che tramavano contro di lui; tutte le volte che la gente protestava, risolveva la questione con minacce di morte. Le sue leggi erano severissime e prevedevano la pena di morte per una serie interminabile di trasgressioni.
L’eco di questo terrore è riportata nello stesso suo “necrologio”, in chiusura di Deuteronomio:
“Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè … per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele”.
Con tutti quei morti alle spalle, non doveva essere molto amato dal popolo di Israele; ma era temuto e rispettato. Era giusto: puniva in modo feroce i ribelli, ma sapeva premiare i fedeli e manteneva le sue promesse.
Soprattutto, la sua violenza non era mai gratuita, ma sempre giustificata dall'interesse supremo della nuova religione, e non era mai sproporzionata allo scopo.
Fra lui ed i suoi figli c’era un abisso. L’appellativo “terribile” lascia presumere che Ghersom governasse con il terrore, come aveva fatto suo padre; ma non ne aveva il carisma e non dava niente in cambio. Soprattutto non era ebreo, ma madianita, perché figlio di madre madianita. Era soltanto odiato e disprezzato. Il soprannome Kusan è, infatti, un indice di profondo disprezzo.
Era senz’altro la famiglia più impopolare e malvista dell’epoca. Questo disprezzo traspare con tutta evidenza anche nel libro successivo, quello di Samuele. Il sommo sacerdote di Silo, Eli, e i suoi due figli risultano impopolari e invisi a tutti, descritti come lestofanti avidi e scostumati, interessati soltanto a depredare il popolo.
In 1 Sam.2,12, si legge:
“I figli di Eli erano uomini perversi: essi non conoscevano Jahweh nè il diritto dei sacerdoti presso il popolo. Ogni volta che uno offriva un sacrificio, veniva il servo del sacerdote, mentre si coceva la carne, con un tridente in mano, e lo ficcava nel caldaio: il sacerdote si prendeva tutto quello che il tridente tirava su. Così facevano con tutti gli Israeliti che andavano a Silo. … Il peccato dei giovani era molto grande davanti a Jahweh, poiché quegli uomini disonoravano le offerte di Jahweh.”
Se si considera che queste parole sono rivolte ai figli del sommo sacerdote, eredi essi stessi al sommo sacerdozio, si capisce bene di quale profonda impopolarità soffrisse la famiglia sacerdotale.
Si capisce anche come nessuno fosse desideroso di sottolineare la discendenza di tale famiglia dal sommo profeta Mosè e come i vari propagandisti e copisti del testo biblico omettessero volentieri ogni accenno che potesse stabilire un legame fra Mosè ed i suoi indegni discendenti.
Aronne era indubbiamente una persona più idonea ad assumersi la paternità di una simile discendenza.
vedi successivo:
I giudici
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La famiglia di mosè censurata
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La famiglia di Mosè
1. Si tratta delle stesse località citate a proposito di Gionatan, a conferma dello stretto legame esistente fra i due personaggi
2. Betel significa “casa del Signore”; è evidente che si riferiva alla località dove sorgeva la casa di Dio, cioè il tempio, e quindi alla stessa Silo.
3. Herich Weidinger, “Gli Apocrifi – L’altra Bibbia che non fu scritta da Dio”. Nel libro “L’Apocalisse di Mosè”, al cap 34,13 si legge: “Dopo la morte di Giosuè, si pose a capo dei figli di Israele per ottanta anni Kusan il Terribile. Quindi guidò il paese per venti anni Othaniel, figlio di Kena e fratello di Kaleb, figlio di Jefunne.”
4. La collocazione dell’episodio è alla fine del libro dei Giudici, ma non ci sono elementi che consentano una sua collocazione temporale alla fine del periodo storico coperto dal libro stesso. Vari indizi fanno propendere per una collocazione “bassa”. Il periodo storico dei Giudici, infatti, termina ai tempi di Eli e Samuele, quando Israele è impegnato nella guerra contro i Filistei; non c’è spazio in questo contesto storico per un episodio come quello narrato. Tanto più che Samuele sceglie un re proprio dalla tribù di Beniamino e dal racconto è evidente che essa aveva recuperato popolazione e territorio. Eli non poteva essere l’autore della strage dei beniaminiti; quindi era senza dubbio un suo predecessore. Giuseppe Flavio, nella sua Storia Giudaica, la pone poco dopo la spartizione della Palestina.