Uno dei risultati più importanti del racconto “la caverna del tesoro”, fu che consolidava definitivamente il quadro della cripta sul monte Horeb, confermando l’attendibilità di tutte le altre fonti, archeologiche, storiche e leggendarie, che in un modo o nell’altro fornivano informazioni su di essa. Ciò rendeva possibile tracciare un profilo storico completo e credibile non solo della cripta, ma anche della famiglia di Mosè, i cui destini erano strettamente intrecciati con questa. Consentiva anche di fare previsioni attendibili circa il contenuto della cripta.
Tutto era cominciato verso la fine del terzo millennio a.C., a cavallo fra il calcolitico ed il bronzo antico. Qualcuno, sulla cima del monte 788, ad Har Karkom, aveva trovato un facile invito a scavare sotto la grande roccia che costituisce l’acropoli e aveva cominciato a scavarvi una caverna. Per risolvere il problema di approvvigionamento dell’acqua aveva sfruttato la pendenza naturale della roccia e l’esistenza di una spaccatura proprio nel punto di deflusso dell’acqua, che sembrava ideale per costruirvi una cisterna. Cosa che fecero riempiendo la spaccatura di sassi e ricavandovi all’interno una cisterna segreta. Visto che c’erano scavarono anche una cisterna all’interno della cavernetta attraverso cui passava il flusso delle acque. Fu allora che dovettero lasciare le tracce del loro intervento, rompendo un vaso, di cui abbandonarono i cocci sul posto, ritrovati dal sottoscritto.
Forse il monte a quell’epoca era già considerato sacro da tempo immemorabile o forse no. Di certo lo fu da quel momento in poi. Fu in quest’epoca, molto probabilmente, che vennero innalzati il tempietto ad una estremità dell’acropoli e il muro all’altra e che il monte cominciò ad essere interdetto ai comuni mortali. L’accesso doveva essere consentito soltanto ai sacerdoti.
Mille anni dopo Mosè, in fuga dall’Egitto, si trovava a passare dalla valle di Har Karkom e al pozzo di Refidim conobbe quella che sarebbe presto diventata sua moglie, Zippora, figlia del sacerdote madianita Ietro, alias Reuel. In quei mille anni la primitiva caverna doveva essersi espansa, con l’aggiunta di altre camere, che occupavano il sottosuolo di gran parte dell’acropoli.
Ietro, in quanto sacerdote, doveva essere, se non il proprietario, per lo meno uno fra coloro che avevano diritto di accesso alla caverna. Mosè ereditò dal suocero tale diritto e da quel momento meditò di farne la propria tomba di famiglia. Quando Aronne gli fece visita nel Sinai, Mosè gli dovette mostrare la cripta sul monte Horeb. Come premio del suo incondizionato appoggio a Mosè, Aronne dovette ottenere il privilegio di esservi sepolto.
I primi defunti israeliti ad entrare in quella caverna, tuttavia, dovettero essere i due figli maggiori di Aronne, Nadab e Abiu. Mentre si preparava il mortale confronto con Cora, dovettero maneggiare in modo maldestro il materiale incendiario destinato a incenerire gli avversari e morirono bruciati essi stessi. (Lev. 10,1-5) I loro corpi furono trasportati fuori dal tempio-tenda nel cuor della notte e di loro non si seppe più nulla. Già da tempo avevo ipotizzato che le grandi piattaforme del sito BK 426 fossero state costruite in loro onore. “Cenotafi” le aveva definite Valerio Manfredi; tombe senza cadavere. “Gal - ed”, ovvero “mucchi della testimonianza”, li chiamavo io, utilizzando un termine biblico.
Era una prassi comune, descritta in vari passi della Bibbia, quella di erigere piattaforme di sassi e consumarvi sopra dei pasti rituali, a perenne testimonianza di un avvenimento importante: un patto, un’alleanza, una cerimonia funebre. Il popolo ebraico, infatti, aveva pianto i due fratelli scomparsi, nei giorni seguenti, e a testimonianza del loro dolore avevano costruito due grandi “gal-ed” uguali.
Pochi giorni dopo altri personaggi illustri morirono, i cui corpi non vennero mai ritrovati: i fratelli Datan e Abiram, principi di Giuda, e Cora, cugino primo di Aronne. I loro familiari dovettero piangerli nello stesso luogo in cui erano stati commemorati i figli di Aronne. Costruirono due “gal-ed” sovrapposti in ricordo di Datan e Abiram ed uno isolato per Cora. Quest’ultimo molto piccolo, perché a piangerlo dovevano essere soltanto i suoi familiari più stretti. Sono appunto le piattaforme del sito BK 426.
I corpi di Cora, Datan e Abiram dovevano essere rimasti interrati da qualche parte nella valle; ma quelli di Nadab e Abiu quasi certamente furono trasportati nel buio della notte sulla cima 788. I loro corpi bruciacchiati dovrebbero essere da qualche parte nella caverna.
Qualche anno dopo fu la volta di Aronne. La morte lo colpì sulla cima del monte Hor, non lontano da Cades Barnea. Fu trasportato in gran segreto ad Har Karkom durante i trenta giorni di lutto decretati in quell’occasione e sepolto con tutti gli onori nella cripta sull’acropoli. Sei mesi dopo fu seguito da Mosè.
Nel racconto di Ephrem, “la Caverna del Tesoro”, è descritto molto bene quel che accadde alla morte di Mosè, per cui non c’è neppure bisogno di immaginarlo:
Mosè parlò al figlio Ghersom, comunicandogli: Figlio mio Ghersom! Presta attenzione a quanto oggi ti comando! Tu a tua volta lo dovrai comandare , nel giorno della tua morte, a tuo figlio Sebuel, Sebuel a suo figlio! Questo discorso si dovrà tramandare in tutte le generazioni! Quando io sarò morto dovranno imbalsamarmi con cinnamonno e mirra e mi deporranno nella caverna del tesoro! .
Durante i trenta giorni di lutto proclamati dopo la morte di Mosè, i suoi figli Ghersom ed Eli, insieme a Giosuè ed Eleazzaro, trasportarono il corpo ad Har Karkom e lo deposero nella cripta sul monte 788, nella splendida tomba che da molti anni ormai il profeta veniva preparando e arricchendo.
Dopo la conquista e la spartizione della Palestina, il sommo sacerdote Ghersom, titolare della città di Silo, vi fece costruire, sul “Belvedere di Silo”, il “Mizpa Siloh”, il tempio in muratura che per i successivi cento anni costituì il punto di riferimento religioso ed elemento unificatore delle tribù di Israele, che restavano soggette, politicamente, all’impero egizio.
Terminata la costruzione del tempio, Ghersom ripose il Tabernacolo nella cripta sul monte Horeb, insieme all’altare dei sacrifici, il tavolo delle offerte dei pani, il tavolino dell’incenso e l’arca. Sei secoli dopo erano ancora là, dove Geremia poté ammirarli, ultimo uomo, forse, nella storia. Un piccolo problema si pone per l’arca. Nel primo libro di Samuele, al tempo di Eli, l’arca si trovava nel tempio di Silo. Fu portata in battaglia contro i Filistei e catturata. Venne recuperata soltanto mezzo secolo dopo da Davide e riposta infine nel Sancta Sanctorum del tempio di Salomone. Non poteva essere contemporaneamente in due posti.
Molto probabilmente si tratta di due oggetti diversi. L’arca fatta costruire da Mosè era un bauletto lungo 2.5 cubiti e largo e alto 1,5 (Es.25.10); con l’unità di misura appurata per il tempio-tenda, 75 cm. per 45. Aveva sul coperchio due cherubini in oro massiccio e veniva trasportata a spalle, mediante due stanghe infilate in appositi anelli fissati ai piedi. L’arca di Eli era tutt’altra cosa: era un cassone pesante e ingombrante, per il cui trasporto era necessario un carro trainato da buoi (1 Sam.6,7; 2 Sam. 6,3). Infatti non viene mai precisato che fosse la stessa di Mosè. Inoltre non aveva i cherubini sul coperchio; Salomone, infatti, per rispettare la tradizione li dovette costruire in formato gigante nel Santissimo del suo tempio; segno che sull’arca non c’erano.
Ad ogni modo, qualunque sia l’epoca in cui vi fu riposta, è certo che alla fine l’arca di Mosè stava nella cripta sul monte Horeb.
Alla sua morte Ghersom venne sepolto nella cripta da Sebuel e questi a sua volta da Eli. Eli morì a Silo nel momento in cui apprese la notizia della morte in battaglia dei suoi due figli Ofni e Fineas. Poche ore dopo Silo fu distrutta, i suoi abitanti passati a fil di spada e il tempio raso al suolo. Il sommo sacerdozio passò in eredità ad un bimbo, Achitub, nato il giorno stesso della battaglia.
In queste circostanze è inverosimile che il segreto della cripta sul monte Horeb abbia potuto essere trasmesso a qualcuno. Il segreto della sua ubicazione andò perduto una prima volta. Eli e i suoi figli rimasero probabilmente insepolti; o, se lo furono, non fu certo nella cripta sul monte Horeb. Le vicende politiche probabilmente impedirono ad Achitub e al primogenito Achimelec, che gli succedette nel sommo sacerdozio, di effettuare ricerche per ritrovare la “parola perduta”.
Durante il loro pontificato la struttura organizzativa del popolo ebraico cambiò profondamente. L’autorità politica dell’impero egizio, che aveva fino allora garantito l’ordine pubblico, era svanita e la Palestina era lasciata in balìa di se stessa. I Filistei incalzavano il popolo ebraico, espandendosi a sue spese. La famiglia sacerdotale, fino ad allora massima autorità in seno ad Israele, per far fronte all’emergenza creò una monarchia israelitica, cui competeva la responsabilità politica e militare della nazione, riservandosi l’autorità religiosa. Saul, della tribù di Beniamino, venne consacrato primo re d’Israele.
Questa nomina fu salutare per Israele, ma si risolse in un disastro per la famiglia sacerdotale; Achimelec fu ucciso da Saul insieme alla sua famiglia e a tutta la popolazione della sua città, Nob. Suo fratello Zadoc si schierò con Saul, mentre suo figlio Ebiatar, scampato al massacro, si rifugiò presso Davide, allora alla macchia.
Zadoc, divenuto sommo sacerdote di Israele, fece effettuare ricerche sul monte Horeb e alla fine ritrovò la cripta. Alla morte del figlio di Saul, Is-Baal, consegnò il regno di Israele nelle mani di Davide, che nel frattempo si era creato un suo regno personale a Gerusalemme. In cambio Davide gli garantì il sommo sacerdozio sul nuovo regno unificato, insieme al nipote Ebiatar, e il possesso esclusivo della cripta sul monte Horeb.
Alla morte di Davide, Ebiatar puntò sul cavallo sbagliato, consacrando Adonia. Zadoc invece si schierò ancora una volta con il vincente, Salomone. Divenne così unico titolare del sommo sacerdozio a Gerusalemme, mentre Ebiatar veniva esiliato ad Anatot e privato del sacerdozio. La famiglia di Mosè si spezzò in due tronconi, che rimarranno separati per oltre quattro secoli, fino al rientro dall’esilio babilonese.
Zadoc fu il vero artefice della costruzione del tempio di Salomone, a Gerusalemme. Tradizioni di origine ebraica sono esplicite nel dichiarare che fu proprio lui a fornire il denaro necessario, traendolo dalla cripta del monte Horeb. Queste stesse tradizioni affermano che fu Salomone, insieme a Zadoc, a mettere a punto il sistema di protezione e trasmissione del segreto della cripta, che funzionò in maniera efficace per i successivi quattro secoli.
Esse affermano inoltre che Salomone fece eseguire lavori nella cripta dal suo architetto Hiram Abib. Questo particolare è confermato, come abbiamo visto, dalla presenza di un accampamento dell’epoca di Salomone proprio ai piedi del monte 788. Che re Salomone si sia recato sul monte Horeb è testimoniato in modo indiretto anche dalla Bibbia stessa, in 2 Cro. 8,17.
Queste testimonianze sono importanti, perché dimostrano che Salomone aveva un interesse speciale per quel monte e in particolare per la sua cripta. Per quale motivo fece eseguire dei lavori nella cripta dal suo architetto personale? Solamente per adeguare i sistemi di sicurezza dell’entrata? Sarebbe davvero strano; dopotutto la caverna era proprietà e responsabilità di Zadoc e semmai doveva essere lui a preoccuparsi di far eseguire i lavori, non il re.
C’è un particolare, comune sia al testo apocrifo dell’Apocalissse di Mosè, sia al passo di 2 Maccabei, che è interessante e può servire a far luce su questo punto. In 2 Maccabei 2,10 è specificato che Salomone eseguì sul luogo della caverna una solenne cerimonia di santificazione, uguale a quella eseguita a suo tempo da Mosè in quello stesso luogo:
“E allo stesso modo che Mosè aveva pregato il Signore ed era sceso il fuoco dal cielo a consumare le vittime immolate, cosi pregò anche Salomone e il fuoco sceso dal cielo consumò gli olocausti. Mosè aveva detto: poiché non è stata mangiata la vittima offerta per il peccato, essa è stata consumata. Allo stesso modo anche Salomone celebrò gli otto giorni.”
Il fatto è confermato anche dai versetti 1 Re,3,5: e 2 Cro,1,3:
Da nessun passo del Pentateuco risulta che Mosè abbia mai eseguito cerimonie di santificazione sul monte Horeb. Nel testo apocrifo, però, è evidenziato il fatto che egli “prese dai confini del paradiso oro, mirra e incenso, li pose nella caverna e la benedisse e la consacrò, perché fosse la casa sua e dei suoi figli e la chiamò ‘la caverna del tesoro’”. Dunque una cerimonia di consacrazione c’era stata effettivamente, ma non riguardava il monte Horeb, che era già sacro di suo, bensì la caverna del tesoro, che per poter essere adibita a tomba doveva essere opportunamente purificata e santificata.
Salomone ripeté lo stesso rito di Mosè. Evidentemente egli santificò non il monte, ma una tomba che era stata approntata su quel monte: la sua.
Salomone fu il più grande ed il più ricco dei re di Israele; di gran lunga più ricco di suo padre Davide, che passò gran parte della sua vita a guerreggiare e arrivò a riunificare i due regni di Israele e Giuda soltanto negli ultimi suoi anni. Salomone ne godette i frutti e poté dedicarsi interamente alla edificazione di un palazzo grandioso, del tempio sulla cima del monte Moriah e di altre grandi opere un po’ ovunque in Palestina. Ma come tutti gli uomini del suo tempo, era certamente ossessionato dalla preoccupazione di costruirsi una tomba adeguata alla sua potenza e al suo rango ed inviolabile.
Possiamo essere certi che ad essa dedicò una parte significativa delle ricchezze di cui disponeva, anche se non risulta dalle cronache a disposizione. Queste sono estremamente avare di informazioni su un argomento di tale importanza e si riducono a due versetti identici in tutta la Bibbia, 1 Re 11,43 e 2 Cro.9,31, che dicono: “Salomone si addormentò coi i suoi padri e fu sepolto nella città di Davide suo padre.” Versetti che si ripetono praticamente identici per tutti i re di Giuda.
Di questa tomba a Gerusalemme, che pure doveva essere in assoluto la più ricca mai costruita in questa città, non è stata trovata traccia né sul terreno, né in qualche documento storico, se si eccettua Giuseppe Flavio. Lo stesso dicasi per le tombe di tutti gli altri re, che non sono mai state ritrovate a Gerusalemme e dintorni.
Tutto sta ad indicare che Salomone fece approntare la propria tomba sul monte Horeb, nella cripta dove già riposavano Mosè e i suoi discendenti, on in una scavata accanto. Diede incarico al suo architetto di fiducia Hiram Abib di approntarla e quando tutto fu pronto si recò sul posto per ispezionare i lavori e consacrarla. Tracce di questo viaggio, oltre a quelle già evidenziate, si trovano anche in 2 Cro. 8,17, dove si dice che “Salomone andò ad Ezion Gever e ad Elat”. Ezion Gever si trova di fronte alle miniere di rame di Timnah, dette anche “miniere di re Salomone”, e si trova a non più di una giornata da Har Karkom.
Tornando alla famiglia sacerdotale, Zadoc dovette riprendere la tradizione instaurata da Mosè, che voleva che tutti i suoi discendenti diretti, i sommi sacerdoti, fossero sepolti nella “caverna del tesoro”. Lui, e poi suo figlio Achimaas e così via fino a Chelckia, il sommo sacerdote che precedette lo sfortunato Seraja, decapitato a Ribla da Nabuccodonosor. Dalla Bibbia è difficile, se non impossibile, ricavare la lista dei sommi sacerdoti succedutisi a Gerusalemme in questo periodo.
Per fortuna ci viene in soccorso Giuseppe Flavio, che sulle cose di famiglia doveva essere bene informato. In Antichità Giudaiche (LIX. X. Cap. XI. VII), subito dopo aver narrato l’episodio di Ribla, elenca i nomi dei sommi sacerdoti che si sonno succeduti a Gerusalemme durante il regno di Giuda:
“Primo gran sacerdote del tempio che fabbricò Salomone fu Sadoc. Dopo di lui ebbe la dignità Achimaas, suo figliuolo, e dopo Achimaas Azaria. A questo successe Gioram; a Gioram Issus; dietro a lui Assioramo e ad Assioramo Fidea. Vennegli appresso Sudea, poi Gioele. A Gioele sottentrò Jotam, a Jotam Uria, ad Uria Neria, a Neria Osea; a questo Sallum, a Sallum Elcia, ad Elcia Saraja, e a quest’ultimo Giosedec, tratto in Babilonia prigione. Tutti questi, per successione diritta di padre in figlio, ebbero il pontificato.”
Tutte queste persone, ad eccezione degli ultimi due, dovrebbero essere sepolti nella “caverna del tesoro”, sul monte Horeb. L’ultimo ad esservi deposto, come abbiamo detto, fu Chelckia. Dopo di lui fu il “diluvio”. Nessuno ebbe la possibilità di trasmettere il segreto della cripta a Giosedec, trascinato in catene a Babilonia ancora fanciullo. La “parola” andò perduta e questa volta definitivamente.
Oltre a queste persone note, nella cripta dovrebbero essere sepolti altri, di cui non abbiamo notizia. I sacerdoti di Gerusalemme potrebbero avervi trasferito altri illustri antenati, precedentemente sepolti altrove, a Mac Pela per esempio, per sottrarli alla possibilità di profanazioni; ma su questo non abbiamo il minimo indizio. Un non israelita che dovrebbe essere stato deposto lì dentro è Ietro, suocero di Mosè e primitivo titolare della tomba. E chissà quanti altri prima di lui. Le loro ossa potrebbero essere state raccolte in una fossa comune, dove giacciono anonime, come è stato fatto, ad esempio, nelle tombe dette anch’esse dei re di Giuda, che si trovano nei pressi della scuola biblica francescana a Gerusalemme.
Veniamo ora ai materiali contenuti nella caverna del tesoro. Le fonti, per così dire dirette, di informazione in proposito sono tre: la Bibbia, senz’altro la più ricca e interessante delle tre, le tradizioni massoniche e il testo apocrifo de “la caverna del tesoro”. La Bibbia elenca il tabernacolo, completo di tutti i suoi ammennicoli, dall’altare dei sacrifici all’arca dell’alleanza. Elenca inoltre tutta una serie di oggetti collegati all’esercizio del culto nel tempio di Gerusalemme: paramenti sacri, vasi, pietre e così via.
Le solite tradizioni citano soltanto l’arca dell’alleanza, con il suo contenuto, e un misterioso oggetto, presentato come la cosa più preziosa sulla terra, che si troverebbe nell’ultima delle camere della cripta. Viene descritto come un triangolo d’oro, con su inciso il nome di Jahweh, applicato ad una cubo di agata che poggia su un supporto di marmo. Dovrebbe essere un oggetto collegato al culto del dio cui il monte era sacro, ma cosa sia in realtà è difficile ipotizzarlo. Il testo apocrifo elenca soltanto oro, incenso, mirra, più oggetti di culto non meglio specificati. Il nome, però, “caverna del tesoro”, lascia chiaramente intendere che la caverna fosse il luogo dove la famiglia sacerdotale conservava tutte le sue ricchezze.
Ce n’è abbastanza per scatenare cupidigie sfrenate, ma vale la pena cercare di farne un elenco più dettagliato. Per cominciare dobbiamo considerare che quando Mosè ne entrò in possesso, nella caverna c’erano quanto meno i corredi funebri di coloro che vi erano stati sepolti nei mille anni precedenti. Forse poca cosa da un punto di vista venale, dal momento che una tribù del deserto non poteva possedere grandi tesori. Ma da un punto di vista storico e archeologico potrebbero avere un valore inestimabile. Dovevano poi esserci gli oggetti destinati al culto del dio cui il monte era dedicato e forse anche il tesoro del dio.
La parte più importante, però, dovrebbe essere costituita dagli oggetti accumulati da Mosè in poi. I più preziosi, per il loro valore storico e religioso, sono quelli citati dalla Bibbia, il tempio-tenda e gli oggetti di corredo. Ma la quantità di altri oggetti preziosi doveva essere semplicemente sbalorditiva. Può darsi che i sacerdoti non usassero accumulare corredi funebri; ma è inverosimile che non si portassero nella tomba oggetti personali cui erano particolarmente affezionati, come ad esempio paramenti da cerimonia, che da soli costituirebbero già un tesoro inestimabile. L’efod descritto in Esodo, infatti, era intessuto di pietre preziose.
Il grosso del tesoro, però, doveva essere costituito da oro e altri preziosi accumulati in secoli di offerte al tempio e depositati nella caverna come scorta per i tempi difficili. I soldi per la costruzione del tempio di Salomone erano usciti dalla caverna del tesoro e dobbiamo presumere che i sacerdoti vi abbiano attinto anche in altre occasioni, per finanziare guerre, ricostruzioni e cose simili. I tesori, quindi, entravano e uscivano, ma è da ritenere che il bilancio fosse largamente in attivo.
Secondo quanto riferisce Giuseppe Flavio, Ircano non saccheggiò completamente la tomba e si guardò bene dal profanare il sarcofago di Davide, limitandosi a prelevare denaro “liquido”: tremila talenti, che costituivano in ogni caso una cifra imponente per quei tempi.
“Partendo da tale somma, divenne il primo re dei Giudei a spesare truppe straniere. Strinse amicizia e alleanza con Antioco (suggellata dal “dono” di 500 talenti), lo accolse in Città con abbondanza e generosità, aiutò il suo esercito con tutto ciò di cui aveva necessità” (ib. XIII, 249-250).In breve, grazie a quei soldi, la Giudea, divenne la maggior potenza regionale, incorporando ampi territori della Siria, la Samaria e l’Idumea.
Un secolo dopo Erode il Grande le saccheggiò selvaggiamente, arrivando a spogliare i due re dei loro gioielli. Ne trasse una cifra gigantesca, che utilizzò per comperarsi la benevolenza dell’imperatore Augusto e per attuare un programma edilizio che non ha precedenti nella storia di quell’area. In particolare la costruzione del grandioso tempio di Gerusalemme, realizzato interamente a “proprie” spese, senza gravare sui suoi sudditi.
Una cosa di grande interesse riferita da Giuseppe Flavio è che non della tomba del solo Davide si trattava, ma anche di quella di suo figlio Salomone e di altri re di Giuda, non meglio specificati. Su questo punto non poteva essere più esplicito. Egli parla a più riprese di quella tomba, fornendo ogni volta nuovi particolari.
Un fatto che appare certo dalla sua cronaca è che soltanto due persone furono in grado di aprirla e depredarla: Ircano ed Erode. La notizia viene introdotta per la prima volta, come si è visto, nel libro VII delle Antichità Giudaiche (392 e seg.), con il pretesto di mostrare l’enorme quantità di ricchezze accumulate in quella tomba:
“. Salomone seppellì suo padre Davide con tutta la magnificenza dei funerali reali: sotterrò con lui molta e abbondante ricchezza la cui quantità si può desumere facilmente da quanto sto per riferire: ... allorché Ircano, sommo sacerdote, fu assediato da Antioco soprannominato Eusebes, figlio di Demetrio, volle dargli del denaro affinché togliesse l’assedio e togliesse l’esercito, non avendo altra risorsa, aprì una delle camere della tomba di Davide e prelevò tremila talenti e ne diede una parte ad Antioco, così ebbe fine l’assedio.
Dopo l’intervallo di molti anni, re Erode aprì nuovamente un’altra camera e portò via una grande somma di denaro. Nessuno di loro, tuttavia, giunse fino alle casse dei re, poiché erano state abilmente sepolte in terra in modo che non potevano essere viste da alcuno che entrasse nella tomba. Ma di queste cose a noi basta quanto riferito”.
Quest’ultima frase lascia intendere che Giuseppe Flavio sapeva assai più di quanto riferisce, ma non intende sbottonarsi oltre. Tre informazioni essenziali vengono fornite in questo primo passo. Innanzitutto che fu Salomone a costruire e consacrare la tomba di suo padre Davide e a rifornirla di tesori. E questo combacia con le informazioni fornite dal libro dei Maccabei, che riferiscono di una cerimonia di consacrazione effettuata da Salomone sul monte Horeb, e trova conferma nei resti archeologici del decimo secolo a.C. scoperti ad Har Karkom.
La seconda informazione importante è che si trattava di una “tomba di famiglia”, dove erano sepolti altri re di Giuda, fra cui lo stesso Salomone, come verrà precisato in seguito.
Infine che Ircano fu il primo ad entrare nella tomba e dopo di lui soltanto Erode il Grande e nessun altro. Essi prelevarono enormi quantità di denaro, ma non riuscirono, per ragioni che vedremo poi, a depredarla completamente, perché non vollero (nel caso di Ircano) o non furono in grado (nel caso di Erode) di raggiungere le camere dove si trovava la parte più importante del tesoro.
A quanto è dato sapere, quelle camere sono tuttora inviolate.
In ogni caso l’oro e le pietre non erano le cose più preziose contenute nella cripta. Ricordiamo che il sommo sacerdote Chelckia vi aveva prelevato il “libro della legge”. La caverna, quindi, era sicuramente utilizzata come deposito di documenti scritti. E’ significativo il fatto che il libro prelevato da Chelckia fosse soltanto una delle copie prodotte un secolo prima da re Giosafat per l’indottrinamento del popolo. L’originale doveva essere stato lasciato al sicuro nella cripta, insieme a chissà quanti altri documenti.
Fra essi forse anche documenti scritti di pugno dallo stesso Mosè. Nel Pentateuco è citato varie volte che Mosè faceva riporre degli scritti nell’arca. Anche il testo del cantico recitato da Mosè nel suo discorso di commiato dal popolo ebraico è stato riposto nell’arca. Tutte le “cose” di Mosè, una volta esaurita la loro funzione, sono state riposte nella cripta sul monte Horeb. Fra esse dovrebbero esserci anche i suoi documenti.
E’ probabile che vi siano stati riposti anche la maggior parte dei documenti originali prodotti nei sei secoli durante i quali la caverna fu agibile alla famiglia mosaica. Uno dei grandi misteri dell’archeologia in Israele, è che non è mai stato trovato un documento scritto risalente al regno di Giuda.
Nel vicino Egitto si trovano migliaia di rotoli ben conservati risalenti alla stessa epoca. In Palestina non si trova nulla di quell’epoca. Eppure tutti i re di Giuda avevano a corte degli storici incaricati di scrivere le cronache del regno. Di esse sono sopravvissuti soltanto gli estratti citati nella Bibbia, che spesso fanno riferimento esplicito agli originali.
Da tempo gli archeologi sospettano che da qualche parte debba esistere un archivio segreto, dove è stata raccolta la maggior parte degli scritti prodotti durante questa epoca. Quest’archivio dovrebbe essere proprio lì, nella caverna del tesoro. Una intera biblioteca, intatta, con la storia vera e dettagliata di quei seicento anni e chissà cosa altro.
Tutti gli altri tesori impallidiscono al confronto.
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