“Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore. Fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba”. (Dt. 34, 6)
Un solo versetto per descrivere la morte e la sepoltura del più grande dei profeti. A quei tempi e in quell’area del mondo, gli avvenimenti più importanti nella “vita” di un individuo; a maggior ragione di un personaggio imponente come Mosè. Ero sbalordito.
Ebbi subito l’impressione che le scarse, ma precise, informazioni da parte di colui che qualche tempo dopo aveva scritto quelle parole circa l’ubicazione della tomba, fossero volutamente fuorvianti, per indirizzare le ricerche di aspiranti violatori in un’area ben delimitata, dove di sicuro non l’avrebbero mai trovata.
Un espediente che aveva avuto successo, dal momento che nessuno, fino a quel momento, era riuscito a trovarla, nonostante in molti ci avessero provato, come traspare dalle parole ridondanti soddisfazione del cronista.
Avevo la netta sensazione che lui sapesse fin troppo bene dove si trovava la tomba, ma si guardasse bene dal fornire indicazioni precise su quello che doveva restare un segreto.
Che esistesse un grande segreto da tutelare a tutti i costi mi era apparso evidente fin da quando avevo letto in Numeri 31 dell’eccidio ordinato da Mosè, quando si trovava già ai confini della Palestina. Ben cinque tribù di madianiti, donne e bambini compresi, erano stati massacrati a freddo con il pretesto di un misterioso “peccato” commesso da una donna madianita sposata a uno dei capi della tribù di Giuda.
E che si trattasse di un segreto collegato in qualche modo all’imminente morte di Mosè appare evidente dal primo versetto di Numeri 31, dove il Signore gli ordina: “Compi la vendetta degli Israeliti contro i Madianiti, poi sarai unito ai tuoi antenati”.
Comprensibile, quindi, che il cronista di Deuteronomio si guardasse bene dal fornire indicazioni utili alla localizzazione della tomba. Ma forse, chissà! Qualche indizio poteva essergli sfuggito.
Non riuscivo a togliermi dalla mente che proprio il primo versetto di Deuteronomio, dove il cronista ci tiene a precisare che Mosè era andato a morire in un posto situato a «undici giorni di cammino dal Monte Horeb, per la via del monte Seir», (1) fosse uno di questi involontari indizi. Cosa c'entravano, in questa circostanza, la montagna sacra e la sua distanza in giornate?
Il sospetto che la tomba dovesse trovarsi dalle parti della montagna sacra, lo scenario che mi era sempre apparso il più appropriato per un personaggio che aveva fatto di quel monte il fulcro per imporre la sua legge, si rafforzava ulteriormente. Tanto più che la distanza dalla valle del Giordano a Har Karkom, è appunto di 11 giorni di cammino.
Un indizio rafforzato da un altro fatto che si è verificato in quella circostanza: la proclamazione di un lutto di “trenta” giorni. Trenta è un numero inconsueto nel Pentateuco, che compare solo in un’altra circostanza, in occasione della morte di Aronne, che ha molti punti in comune con quella di Mosè. Aveva qualche nesso con gli undici giorni e con il monte sacro?
Verosimilmente Mosè fu seppellito dai suoi due figli Gershom ed Eliezer, insieme a Giosuè e al figlio di Aronne, Eleazaro. Dovevano aver utilizzato il periodo del lutto per andare a riporre Mosè nella tomba che era stata approntata durante i lunghi anni trascorsi nel deserto.
Il lutto doveva consistere in una sorta di coprifuoco, durante il quale il tempio-tenda restava sbarrato e nessuno poteva allontanarsi dal campo. Misure che avrebbero consentito ai nostri di allontanarsi indisturbati per tutto il tempo necessario.
Vediamo i tempi: il primo giorno se ne andò per proclamare il lutto e controllarne l'applicazione. Undici giorni richiese il viaggio di andata; sette giorni furono spesi sul posto per i riti funebri, secondo le tradizioni dei padri (Gn. 50,10) ; undici giorni per il viaggio di ritorno. Fanno trenta giorni esatti.
La mattina del trentunesimo Giosuè abolì il coprifuoco e iniziò immediatamente i preparativi per l'invasione della Palestina. Di Mosè nessuno seppe più nulla.
Fino a qui gli indizi che puntavano al monte sacro come luogo della tomba erano convergenti; ma ci voleva ben altro per confermarli.
Questo venne una sera, quando al campo di Har Karkom Gino Girolomoni propose una lettura che mi fece una grande impressione. Si trattava di un brano di 2 Maccabei:
"Si diceva anche nello scritto che il profeta Geremia, ottenuto un responso, ordinò che lo seguissero con la tenda e con l'arca. Quando giunse presso il monte dove Mosè era salito e aveva contemplato l'eredità di Dio, Geremia salì e trovò un vano a forma di caverna e là introdusse la tenda, l'arca e l'altare degli incensi e sbarrò l'ingresso.”
I vari commenti esegetici a questo brano ritengono concordemente che il monte in questione fosse il Nebo, da dove Mosè rimirò “l’eredità di Israele” . Ma io ero certo che si trattasse invece del monte Horeb, quello su cui Mosè, stando a Es. 15, 17 rimirò l’eredità di Dio. Su quel monte Geremia aveva riposto in una caverna le cose più sacre e preziose di Israele e l’aveva poi richiusa accuratamente.
L’esistenza di una caverna proprio sul monte Horeb non mi era affatto sconosciuta, perché viene citata per la prima volta in Esodo 33. 21 , quando Jahweh dice a Mosè: “Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mia mano finché non sarò passato.”
Successivamente la “cavità nella rupe” ricompare in Re 19 in un lungo passo che descrive il viaggio del profeta Elia al monte Horeb effettuato, a quanto risulta dalla narrazione, con l’unico scopo di entrare in quella caverna: “Elia .. camminò … fino al monte di Dio, l'Horeb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte ...Gli fu detto: "Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore." Ecco il Signore passò ... Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna.”
Si trattava della stessa caverna di Geremia? Difficile sfuggire a questa conclusione. La stessa dove era sepolto Mosè? Stando al racconto di 2 Maccabei la caverna di Geremia era soltanto un nascondiglio di tesori sacri. Non c’è alcun cenno che lasci supporre che quella stessa caverna fosse utilizzata anche come tomba.
Una forte indicazione in questo senso, però, doveva ben presto venirmi dalla lettura di un testo straordinario dal titolo significativo di “La Caverna del Tesoro”, contenuto in un testo dal titolo altrettanto significativo di: “L’Apocalisse di Mosè”.
Apocalisse significa “rivelazione” e pertanto quel documento sembra promettere di rivelare qualcosa di inedito a proposito di Mosè. Ma sembrerebbe che non ci sia proprio nulla a proposito del nostro profeta che già non si conosca dalla Bibbia stessa.
Una sorprendente “rivelazione”, invece, viene fatta a proposito di una caverna, che si trovava su un monte sacro al centro del paradiso terrestre, che Adamo aveva consacrato, riempiendola di tesori, e per questo l’aveva battezzata caverna del tesoro, destinandola a tomba propria e dei propri discendenti, che vi vennero regolarmente sepolti, fino all’avvento del “diluvio”.
Apparentemente Mosè non c’entra niente con questa vicenda, ma anche ad una lettura frettolosa appare evidente l’ingenuo espediente del redattore del testo apocrifo di “nascondere” sotto il nome di Adamo e dei patriarchi antidiluviani quello del capostipite della famiglia sacerdotale di Gerusalemme e dei suoi discendenti.
Quanto al monte sacro su cui si trova la caverna del tesoro appare chiaro dal contesto che non si tratta del monte Moyah, a Gerusalemme, ma di un altro monte di maggiore e più antica sacralità e lontano da ogni centro abitato. Che altro se non il monte Horeb?
E’ questa la “rivelazione” promessa dall’Apocalisse di Mosè? Non riuscivo a pensare a una diversa spiegazione plausibile. Avevo indicazioni a sufficienza per concludere che sul monte Horeb deve esistere una caverna, accuratamente nascosta, che era servita come ripostiglio dei tesori del Tempio e come tomba comune della famiglia sacerdotale, a partire da Mosè.
Si trattava ora di stabilire con certezza dove si trovava il monte Horeb. Anati propone come Horeb la cima principale dell’altipiano di Har Karkom. La sua proposta sembra confermata da una pellegrina romana del quarto secolo, Egeria, che indica quella cima proprio come il Sinai biblico, dove Mosè ricevette le tavole della legge.
Nello stesso giorno, però, Egeria salì su un piccolo monte isolato al centro della valle Karkom, senza un nome, indicato nelle carte israeliane semplicemente con un numero, 788, la sua altezza in metri, indicandolo come Horeb, il monte di Elia, quello della caverna.
La sua sommità è sormontata da una “rupe”, un enorme blocco monolitico di calcare, che si configura come una vera e propria acropoli, con un muro artificiale da un lato, un tempietto dall’altro, un altare e delle stele al centro. Ne ero rimasto profondamente colpito fin dalla mia prima visita nella valle e da allora non avevo cessato di studiarlo, insieme a mio fratello Claudio.
Dopo anni di verifiche sul terreno, incrociate con quelle sul testo biblico, ed una serie di scoperte strettamente collegate al testo, avevo raggiunto la certezza che fosse proprio quello il sacro monte delle cronache bibliche. La caverna in questione doveva trovarsi sotto quella rupe, che si configurava così come la più grande pietra tombale della storia.
Scopersi inaspettatamente una conferma a Gerusalemme, visitando l’antico cimitero ebraico alle spalle della spianata del Tempio. Ebbi la sorpresa di notare che le tombe avevano un aspetto familiare: erano altrettanti modellini del monte senza nome, il 788, ognuno sormontato da una pietra sagomata come la rupe dell’Horeb e spesso con la stessa inclinazione.
Chiesi a storici, archeologi e rabbini quale fosse l’origine di quella forma, così insolita per un popolo i cui patriarchi venivano sepolti in caverne alla maniera degli egizi (vedi Gen.50). Nessuno seppe darmi una risposta, neppure ipotetica.
Per quel che mi riguardava, trovai una risposta plausibile e convincente. La tomba sul monte Horeb era riservata ai sommi sacerdoti, gli unici, fra l’altro, a conoscerne l’ubicazione, eccettuate altre due o tre persone al massimo.
Tutti gli altri, le centinaia di sacerdoti che servivano nel Tempio, dovevano accontentarsi di essere sepolti in tombe che erano soltanto in modelli in scala del monte sacro, ma nei quali si sentivano idealmente vicini ai loro antenati che vi erano sepolti.
Stando al racconto de la Caverna del tesoro, i sommi sacerdoti di Gerusalemme, e soltanto loro, continuarono ad essere sepolti sul monte durante tutto il regno di Giuda, fino al “diluvio”, che dal testo stesso appare identificarsi con la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor.
In quell’occasione il re babilonese fece decapitare in un sol colpo tutti i grandi del Tempio e fece accecare l’erede alla somma carica, Giosedec, ancora fanciullo. Tutti gli altri sacerdoti furono deportati a Babilonia. Il segreto dell’ubicazione della tomba andò perduto.
Qualcosa, però, non mi convinceva in questa storia. Stando ad alcuni versetti molto espliciti di Cronache e Re, mi risultava con certezza che il re Davide sapeva dell’esistenza della cripta sul monte sacro, tanto che ne aveva assegnata la proprietà al sommo sacerdote Zadok e anche suo figlio Salomone ne era al corrente. Possibile che né l’uno né l’altro, o qualcuno dei loro discendenti, abbia mai sentito il desiderio di farsi seppellire sotto la rupe sacra a Jahweh?
I miei dubbi in proposito erano rafforzati dalla totale mancanza di informazioni circa la sepoltura dei re di Giuda in tutte cronache che li riguardano e dal fatto che nessuna tomba attribuibile a qualcuno di questi re è mai stata trovata a Gerusalemme e dintorni.
Soprattutto Salomone, il più grande dei re di Giuda, ricchissimo e culturalmente assai vicino agli egizi, durante i lunghissimi anni del suo regno doveva essersi preparato una tomba dotata di una certa grandiosità, tale che i suoi resti, per quanto saccheggiati, dovrebbero essere chiaramente riconoscibili ancor oggi. E invece niente del genere esiste nei dintorni di Gerusalemme
A proposito di Salomone, trovavo particolarmente intriganti le informazioni fornite al suo riguardo da 2 Maccabei 2, 4-12, nello stesso brano in cui si parla della caverna di Geremia.
"… Alcuni del seguito di Geremia tornarono poi per segnare la strada, ma non trovarono più il luogo. Geremia, saputolo, li rimproverò dicendo: il luogo deve restare ignoto, finché Dio non avrà riunito la totalità del suo popolo e si sarà mostrato propizio.
Allora il Signore mostrerà queste cose e si rivelerà la gloria del Signore e la nube, come appariva sopra Mosè , e come avvenne quando Salomone chiese che il luogo fosse solennemente santificato.
Si narrava anche che questi, dotato di sapienza, offrì il sacrificio per la dedicazione e il compimento del tempio. E allo stesso modo che Mosè aveva pregato il Signore ed era sceso il fuoco dal cielo a consumare le vittime immolate, così pregò anche Salomone e il fuoco sceso dal cielo consumò gli olocausti.
Mosè aveva detto: Poiché non è stata mangiata la vittima offerta per il peccato, essa è stata consumata. Allo stesso modo anche Salomone celebrò gli otto giorni."
Dunque Salomone era stato su quel monte e vi aveva eseguito gli stessi riti di “santificazione” effettuati a suo tempo da Mosè. Di che riti si trattava. In Esodo non c’è alcun accenno a riti di consacrazione eseguiti da Mosè sul monte Sinai: questo era già sacro di suo. Cosa consacrò dunque?
La risposta viene ancora una volta dal testo de “La Caverna del Tesoro”, dove si dice che Adamo, alias Mosè, “consacrò” la caverna, per farne la propria tomba.
E Salomone cosa consacrò? Verosimilmente anche lui una tomba: la propria. Le cronache del suo regno, pur ricche di informazioni, non registrano alcun viaggio specificamente al monte sacro; ma in 2 Cro. 8,17, si informa che “Salomone andò ad Ezion Gever e ad Elat”. Ezion Gever si trova di fronte alle miniere di rame di Timnah, dette anche “miniere di re Salomone”, e si trova lungo una via che passa nelle immediate vicinanze di Har Karkom.
Deve essere stato in quell’occasione che il re si recò segretamente al monte sacro per santificare quella che sarebbe stata la sua tomba. Probabilmente la fece scavare separatamente da quella dei sacerdoti, altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di santificazioni.
Trovai presto anche le evidenze archeologiche. Per scavare e preparare la tomba un gruppo di almeno qualche decina di persone deve aver soggiornato sul posto per un periodo abbastanza lungo e pertanto deve aver costruito un accampamento con abitazioni semipermanenti.
E infatti, proprio di fronte alla rampa di accesso al monte senza nome, a poche centinaia di metri, si trova l’unico sito “abitativo” dell’età del ferro (1000-600 a.C.) di tutta l’area di Har Karkom, indicato nelle mappe di Anati con la sigla HK173, costituito da una decina di strutture.
Anati ipotizza fosse l’accampamento di Elia, ma non è proponibile. Stando al racconto biblico, infatti, Elia fece una puntata veloce con pochi accompagnatori e si trattenne sul posto per un periodo limitato: non può aver lasciato tracce importanti. Fra l’altro è probabile che si sia accampato nello stesso luogo del vecchio accampamento del tempo di Salomone, lasciando tracce non distinguibili dalle prime.
In tutta la valle sono state trovate soltanto altre due testimonianze dell’età del ferro: una, indicata come sito BK 529, situata sul bordo del monte che domina la valle all’estremità ovest e costituita da una tenda sorretta da tre pali infissi nel terreno; con tutta evidenza era un posto di vedetta, che sorvegliava il lato nord della valle Karkom.
L’altra all’estremità opposta della valle, sul lato sud, dove alcuni frammenti di ceramica dell’età del ferro sono stati trovati ai piedi del monte, franati da quello che doveva essere un altro posto di vedetta sul bordo dell’altipiano.
Le vedette poste ai lati opposti della valle avevano evidentemente il compito di sorvegliare che nessun estraneo entrasse inosservato nella valle, cogliendo di sorpresa gli occupanti dell’accampamento centrale. Dovevano essere impegnati in un lavoro segreto di grande importanza.
Mancava soltanto di trovare le prove storiche. Non pensavo di trovare indicazioni esplicite in una materia così segreta e delicata, ma almeno qualche indicazione. Mi rivolsi all’unica fonte che poteva avere qualche informazione inedita sull’argomento, Giuseppe Flavio, storico appartenente alla più importante famiglia sacerdotale di Gerusalemme, e in possesso di documentazione esclusiva.
Mi ero rivolto a lui soprattutto nella speranza di trovare qualche indicazione utile per risolvere un problema che mi aveva assillato fin dall’inizio delle mie ricerche ad Har Karkom. La prima volta che eravamo saliti sul monte senza nome avevamo trovato una notevole quantità di frammenti di ceramica ellenistica.
Valerio Manfredi, scavando il tempietto sulla cima, aveva trovato altri frammenti sotto il pavimento in terra battuta; segno che in epoca ellenistica era stato dapprima ripulito accuratamente e poi ripristinato. Tracce della loro opera si trovavano un po’ ovunque sull’acropoli.
Gli ellenisti erano accampati in una valletta a qualche centinaio di metri dalla rampa principale di accesso al monte 788, in direzione del pozzo di Beer Karkom. È un accampamento molto grande, indicato da Anati con la sigla BK480 con più di cento strutture abitative, il che significa che il numero dei suoi occupanti doveva essere di diverse centinaia di persone. Una spedizione imponente per quei tempi e per quell’ambiente ostile, che veniva dalla Palestina, molto probabilmente dalla stessa Gerusalemme.
Cosa erano venuti a fare in quella valle? Migliaia di frammenti ellenistici di ceramica di ogni tipo erano sparsi sul monte 788, nell’accampamento e lungo il percorso che porta al pozzo di Beer Karkom, dove erano costretti a rifornirsi di acqua. Non un singolo frammento, invece, era stato trovato al di fuori di questo percorso. A quanto pare, quindi, erano venuti nella valle appositamente e soltanto per lavorare sul monte senza nome.
Non mi serviva un eccessivo sforzo di fantasia per immaginare cosa stessero cercando. Il segreto dell’ubicazione della tomba era stato perduto con la distruzione del tempio da parte di Nabucodonosor, con la decapitazione dei grandi del tempio, depositari di quel segreto. Si sapeva che era sul monte sacro, ma non in che punto e come ci si entrava.
Può essere che al rientro dall’esilio babilonese i sacerdoti abbiano cercato a lungo nelle viscere del monte Moryah, a Gerusalemme, senza risultato. Ma è soltanto in epoca ellenistica, e cioè nel terzo o secondo secolo a.C., che qualcuno fu in grado di organizzare una grande spedizione di ricerca, con centinaia di uomini, soldati, operai e addetti alla logistica, con l’obiettivo di raggiungere il monte Horeb e “rivoltarlo” da cima a fondo, fino a che non avessero trovato la caverna del tesoro.
A guidare quella spedizione non poteva essere altri che un sacerdote del Tempio. Ma chi? Mi rivolsi a Giuseppe Flavio, nella speranza di trovare qualche indicazione utile a individuarlo. Non restai deluso. Anzi! Trovai molto di più di quanto potessi aspettarmi.
Sparsi qua e là nel testo del suo libro “Antichità Giudaiche” ci sono numerosi frammenti di informazione che riguardano proprio quella caverna. Basta metterli insieme per avere una storia completa e coerente, di straordinario interesse.
Protagonisti i fratelli Maccabei, che per primi coltivarono un forte interesse per il paese dei Nabatei, entro i cui confini si trovava Har Karkom. Cominciò Giuda Maccabeo, che si recò a Petra – che si trova non lontano da Har Karkom - e ci rimase per qualche tempo. Alcuni anni dopo suo fratello Giovanni organizzò una spedizione con “equipaggiamenti da lavoro”, che però fu annientata prima di giungere a destinazione.
Ci riprovò infine – era ormai il 137 a.C. - Ircano, figlio di Simone, ultimo sopravvissuto dei fratelli Maccabei, questa volta con successo.
Ircano aprì una tomba e ne prelevò tremila talenti d’argento, con i quali costruì la grandezza del risorto regno di Giuda. Di che tomba si trattava? Giuseppe Flavio in un primo momento dice che era quella di Davide, ma in seguito rivela che c’era sepolto anche Salomone e altri re di Giuda. Non accenna mai alla possibilità che ci fossero anche dei sacerdoti o addirittura Mosè. Prudenza da parte sua o si trattava di caverne separate?
Prima di abbandonare la valle Karkom Ircano dovette procedere a quella che sembra fosse una triste necessità per mantenere il segreto: l’eliminazione di tutti gli operai che avevano partecipato ai lavori sul monte. I loro corpi giacciono in un cimitero che si trova sulla via del ritorno, a metà strada fra l’accampamento e il pozzo di Beer Karkom.
Segue una storia di intrighi e violenze fra figli e nipoti di Ircano per entrare in possesso del segreto della tomba. Le vicende tumultuose dell’epoca, però, impediscono che qualcuno possa recarvisi nuovamente. È soltanto un secolo dopo, alla fine degli anni 30 a.C., che Ircano II, ormai avanti negli anni, decide di confidare il segreto ad un suo servitore, che riteneva fedele a tutta prova, e lo manda dal re dei Nabatei con una lettera in cui chiedeva una scorta fino al monte sacro.
Il servo, invece, porta la lettera direttamente a Erode, che ovviamente ne approfitta. Si imbarca subito in una guerra contro i Nabatei, per ottenere il diritto di passo, e alla fine, dopo alterne vicende, la spunta e può recarsi al monte con un piccolo seguito di amici fidati e parenti stretti.
Erode saccheggia selvaggiamente la tomba e arriva perfino a profanare i corpi di Davide e Salomone, strappando loro i gioielli di fra le vesti. Ne esce con una fortuna gigantesca, appena in tempo per comperarsi, con un sontuoso regalo di 800 talenti, la benevolenza di Augusto, vincitore della battaglia di Azio contro Antonio e Cleoptra, di cui Erode era alleato.
Poi dà inizio ad una attività edilizia che non ha eguali nella storia, e che gli ha meritato il titolo il “Grande”. Tutto a spese del tesoro prelevato nella caverna.
Erode dopo qualche anno ritorna alla caverna, deciso a proseguire nel saccheggio, ma viene fermato da un tragico incidente. Mentre tentavano di procedere nella cripta, due dei suoi uomini vengono investiti da una fiammata, evidentemente una trappola di protezione, e muoiono bruciati.
Erode stesso rimane intossicato dai fumi e per parecchio tempo, dopo il ritorno nella Giudea, rimane afflitto da gravi disturbi motori. Ristabilitosi, procede alla solita bisogna di proteggere il segreto, eliminando tutti coloro che lo avevano accompagnato in quell’avventura, compreso il suo stesso cognato.
Qui terminano le informazioni fornite da Giuseppe Flavio. Esse completano un quadro che per quanto possa apparire incredibile, è supportato da un formidabile complesso di indizi di carattere letterario, storico e archeologico, tutti coerenti e convergenti.
Rimangono aperti parecchi interrogativi, ovviamente. Uno in particolare mi dà da pensare. Come faceva Giuseppe Flavio a possedere queste informazioni? Ce ne sono alcune, come gli uomini bruciati nella tomba, che è improbabile possa aver trovato negli archivi di Gerusalemme.
È entrato anche lui nella tomba? E chi c’era con lui? San Paolo? Ci sono coincidenze, in questa vicenda, che aprono la strada alle speculazioni più ardite.
Dal controllo incrociato dell’autobiografia di Giuseppe e degli atti di Paolo appare fuori dubbio che fra i due esistesse un vincolo di profonda amicizia. Quando si erano conosciuti e dove? Nella sua lettera ai Galati Paolo confessa che subito dopo la sua conversione si recò per tre anni nell’Arabia (nabatea). Poche righe più avanti aggiunge che “il Sinai è un monte dell’Arabia”, dal che si dovrebbe dedurre che vi si sia recato personalmente.
In quello stesso periodo anche il giovanissimo Giuseppe si ritira per tre anni nel deserto, non dice dove. Sono tutte e soltanto coincidenze fortuite?
Mi piace pensare che i due sacerdoti si siano incontrati e insieme si siano recati al monte Horeb per cancellare le tracce lasciate dall’ultima precipitosa fuga di Erode e compagni e sigillare la tomba in modo che non venga mai più ritrovata.