Era il 137 a.C.. Da soli dieci anni Gerusalemme era riuscita a cacciare definitivamente l’ultima guarnigione di soldati siriani dalle sue mura, ad opera di Simone, quinto e ultimo dei fratelli Maccabei, che governava la Giudea in qualità di sommo sacerdote e con il titolo di “sar am El”: principe del popolo di Dio.
Egli aveva mandato il suo figlio primogenito Giovanni, alias Ircano I, in una missione ultrasegreta nel paese dei Nabatei, a capo di un forte contingente militare, formato dai soldati più fedeli, e di un nutrito gruppo di operai.
Partita da Gerusalemme in gran segreto, la carovana era scesa a sud della Giudea, col pretesto di raggiungere Gazara, di cui Ircano era formalmente governatore (Antichità Giudaiche, XIII, VIII.). Di qui si era spinta fino ad Avdat, centro carovaniero nabateo arroccato sullo sperone di un monte, che controllava la pista che da Petra conduceva al Mediterraneo, e che in epoca romano-bizantina sarebbe diventato la più grande e prospera città del Negev, grazie ai traffici che transitavano lungo quella che è nota come la “via delle spezie”.
Aveva seguito quella pista che da Avdat segue il crinale del monte per un certo tratto, scendendo poi nel grande cratere del Maktesh Ramon; lo aveva attraversato e proseguito fino a Beer Ada, il pozzo artificiale posto all’imboccatura del wadi Paran. Di qui avevano risalito il wadi Karkom, lungo lo stesso percorso che sarebbe stato seguito cinque secoli dopo da Egeria, sbucando nella valle Karkom.
Infine aveva piantato il campo al centro della valle, ai piedi del monte 788, in vista della grande roccia che più tardi Egeria avrebbe identificato con l’altare del vitello d’oro. Quella roccia era il riferimento per le squadre di operai che ogni mattina si recavano sull’acropoli a scavare.
Scavarono in ogni buco lungo i fianchi dell’acropoli e rovesciarono ogni pietra sulla sommità, fino a che trovarono quello che cercavano: l’ingresso ad una tomba. Ircano sapeva che l’ingresso era protetto da una qualche trappola mortale, per cui dovette mandare avanti qualcuno dei suoi operai, vittima sacrificale per liberare la strada. Poté così arrivare finalmente alla meta agognata: la stanza del tesoro. Prelevò tremila talenti d’argento, lasciando però intatte le tombe dei proprietari (dopotutto era un sacerdote) e non insistendo oltre nelle sue ricerche. Quella cifra enorme era più che sufficiente per il momento, ed in caso di necessità sapeva come tornare. Fece imballare accuratamente il suo tesoro, mimetizzandolo in qualche modo.
Poi provvide a risigillare la tomba. Risistemò accuratamente la spianata superiore dell’acropoli, riparando i danni che aveva provocato nella sua ricerca. Rimise al loro posto le pietre che aveva smosso, facendole combaciare al meglio. In alcuni punti ricostruì di sanapianta il basolato, facendo eseguire delle colate di malta, su cui infisse le pietre. Le dispose in modo da simulare le scaglie della testa di un enorme serpente, di fronte ad un altarino fatto a forma di incudine, con le punte allineate per nord-sud; e di fronte all’altarino (lo stesso menzionato da Egeria) sistemò nuovamente la stele che era stata posizionata almeno duemila anni prima, in epoca calcolitica. Attorno vi dispose altre tre minuscole steli, forse in onore di vittime di quell’impresa che gli erano state care.
Quando lasciò il posto, il monte era perfettamente ordinato e rimesso a nuovo, senza la minima traccia evidente del suo passaggio, se si eccettuano i frammenti di alcune anfore che erano andate rotte durante i lavori. Una volta tornato al campo ai piedi del monte, Ircano dovette procedere alla triste bisogna di far tacere per sempre coloro che avevano partecipato ai lavori di scavo e tutti quelli che erano entrati in contatto con loro e che potevano quindi essere stati messi al corrente delle scoperte effettuate.
Dalle evidenze archeologiche possiamo immaginare con sufficiente grado di attendibilità come si sia regolato in questa circostanza. Fece smontare il campo. Caricò sugli animali da trasporto le tende, i materiali ed il suo tesoro, mimetizzato alla meglio. Poi suddivise il personale in gruppi e si mise in marcia, dirigendosi verso il pozzo di Refidim (Beer Karkom), all’imboccatura della valle. In testa un manipolo di soldati, seguito dalle bestie da soma coi loro attendenti. Seguivano poi gli operai e i servi e chiudeva il corteo un contingente di militari, con Ircano e i suoi fedeli. Dopo un paio di chilometri la carovana si fermò, sul bordo sinistro del wadi.
Ircano fece scendere gli operai nel wadi, circondati dai soldati; lo attraversarono e salirono sulla sponda opposta, dove si trovava un antico cimitero, con una quarantina di tombe allineate lungo la sponda a picco del wadi. Fu soltanto in quel momento, forse, che essi dovettero rendersi conto della sorte che li attendeva. Forse qualcuno tentò di fuggire, ma su quel terreno non aveva scampo: da un lato la sponda a precipizio del wadi, con soldati in basso pronti ad infilzare chiunque si fosse lanciato di sotto. Dall’altro una distesa aperta, brulla e sassosa, dov’era impossibile trovare un nascondiglio per centinaia di metri.
E’ probabile che abbiano negoziato condizioni di sepoltura onorevoli. Dopotutto non erano colpevoli di alcun crimine; non era giusto che i loro corpi fossero abbandonati in pasto agli sciacalli e agli avvoltoi. Ircano non dovette avere difficoltà a far loro questa concessione. Molto probabilmente furono essi stessi a scavare le fosse in cui sarebbero stati sepolti, a gruppi di tre o quattro per ogni fossa.
Mano a mano che venivano abbattuti, i cadaveri venivano gettati nelle buche e coperti di terra dai superstiti e poi il tumulo veniva ricoperto di sassi. Alla fine i soldati se ne tornarono sulla sponda opposta, lasciandosi dietro di sé sessantaquattro tombe allineate in buon ordine a continuazione di quelle precedenti, disseminate dai frammenti di ciotole e vasi appartenuti agli uccisi, rotti durante le operazioni.
Soltanto allora la carovana, ridotta ormai a metà delle dimensioni iniziali, si rimise definitivamente in marcia verso Gerusalemme.
Proprio in quel momento, a Gerusalemme, il padre di Ircano, Simone, stava per cadere vittima di un complotto ordito da suo genero Timoteo. Vista l’assenza del primogenito Ircano e del fior fiore delle truppe del suocero, di cui non si sapeva più nulla, essendo partiti da Gerusalemme in gran segreto, pensò fosse giunta la sua grande occasione. Durante un banchetto uccise il suocero
“e catturò e mise in prigione sua moglie e due dei suoi figli, e spedì uomini per uccidere il terzo figlio, Giovanni, detto anche Ircano. Ma il giovane, allertato del loro arrivo, si sottrasse al pericolo sfuggendo alle loro mani” (Ant Giudaiche, XIII, 228-235).
Quando questo succedeva, Ircano stava giusto rientrando dalla sua missione ad Har Karkom, con i suoi tremila talenti d’argento, che nelle intenzioni del padre avrebbero dovuto risollevare le sorti della Giudea e della sua famiglia; egli si affrettò ad entrare a Gerusalemme, dove fu benaccolto dal popolo.
Tolomeo fuggì e si rifugiò in una fortezza sopra Gerico, detta Dogon, o Nok, trascinandosi dietro la madre e i fratelli di Ircano, che furono impiegati come scudi umani per impedire al cognato di assaltare la fortezza. E infatti Ircano, dopo lunghe esitazioni, desistette dall’assalto, nonostante la sua schiacciante superiorità e tornò a Gerusalemme. Anche perché un’altra grave minaccia si profilava all’orizzonte.
Il re di Siria, il macedone Antioco Eusebes (il Pio), approfittando della morte di Simone, aveva deciso di riprendersi la Giudea ed era sceso con un forte esercito, ponendo l’assedio a Gerusalemme. Ircano pose fine all’assedio non con le armi, ma con il denaro che aveva portato da Har Karkom. 500 talenti furono sufficienti a comperare l’amicizia di Antioco e a convincerlo a togliere l’assedio e ritirarsi (Ibid. cap XIII, 248).
Gliene rimanevano a sufficienza per assoldare un esercito mercenario e divenire la potenza dominante della regione, superiore alla stessa Siria.
A questo punto disponiamo di una serie di
elementi, storici ed archeologici, che si confermano ed integrano a vicenda.
L’autore dell’Apocalisse di Mosè afferma che la Caverna del Tesoro si trovava
sulla montagna sacra, la stessa dove Geremia aveva nascosto i vasi sacri del
Tempio di Gerusalemme e dove Mosè e Salomone avevano eseguito riti di
consacrazione. Giuseppe Flavio parla di quella medesima caverna, ma non dice
dove si trovasse esattamente; dal contesto, però, risulta in maniera inequivocabile
che si trovava nel paese dei Nabatei. Lo stesso dove San Paolo dice che si
trovava il monte Sinai. Lo stesso dove Egeria si recò in pellegrinaggio nel
deserto del Sinai, identificando senza esitazioni il monte Horeb.
Lo stesso monte che i fratelli Barbiero hanno identificato con certezza come
tale, sulla base di una lunga serie di indicazioni convergenti: un monte senza
nome ( è indicato nelle carte con la
sola quota, 788), vera e propria acropoli nel deserto.
I resti archeologici ad Har Karkom sono tutti inequivocabili
e perfettamente compatibili con le indicazioni letterarie e storiche, sia per
quanto riguarda la data che lo svolgimento dei fatti noti. Uno dei siti
archeologici più notevoli della valle è un grande accampamento dell’epoca
ellenistica (3°-2° secolo a,C,), indicato da Anati
come BK 480, il più grande in tutta l’area del Sinai, con circa 120 strutture
allineate in stile militare. Si trova a poche centinaia di metri dall’unico
sentiero che conduce in cima all’acropoli, in direzione dell’unico pozzo della
zona, Beer Karkom (pozzo dell’età del bronzo).
Questo sito dimostra in maniera certa che in epoca
ellenistica è stata effettuata ad Har Karkom una grande spedizione dalla
Palestina, forte di almeno cinque o seicento persone, nel corso della quale sono
state condotte ricerche esclusivamente sul monte Horeb.
Sull’acropoli, infatti, sono stati trovati numerosi frammenti di ceramica di
epoca ellenistica, in particolare intorno e nel basamento del tempietto che
sorge sulla sua sommità.
Altri frammenti di ceramica ellenistica sono stati
trovati, a migliaia, all’interno dell’accampamento e lungo la via che porta al
pozzo, in particolare in un antico cimitero che si trova a metà strada, ma in nessun altro luogo nell’area di Har Karkom,
segno che i componenti della spedizione si sono mossi esclusivamente fra
l’acropoli, dove hanno svolto la maggior parte delle loro attività, ed il pozzo
a cui si recavano per approvvigionarsi di acqua.
Ai limiti dell’accampamento ci sono varie sepolture, ma un intero cimitero, con una quarantina di tombe della stessa epoca, si trova ad una certa distanza, dalla parte opposta del wadi. Segno evidente di un qualche fatto drammatico accaduto sulla via del ritorno a Gerusalemme, nel quale decine di persone persero contemporaneamente la vita.
I resti
dell’accampamento e del cimitero ellenistici dimostrano oltre ogni possibilità
di dubbio che in quella valle sono accaduti fatti molto simili a quelli narrati
nella nostra ricostruzione, ad opera di persone venute dalla Giudea. Quello che
i resti archeologici non sono stati in grado di rivelare (almeno fino ad ora) è
l’identità di quei personaggi, lo scopo ed i risultati della loro spedizione e
l’anno esatto in cui ebbe luogo.
Per dare un nome ai protagonisti di questi fatti
ed un’epoca precisa, è sufficiente
leggere con attenzione le cronache del periodo, riportate con puntiglio e
meticolosità da Giuseppe Flavio, certamente il meglio informato al mondo, da
fonti di prima mano, su questa faccenda. E’ sulla base delle informazioni da
lui fornite nella sua opera “Antichità Giudaiche”, che è stato possibile
ricostruire i fatti accaduti ad Har Karkom in quell’occasione con un grado di
attendibilità che si avvicina alla certezza.
Tutte le informazioni fornite dallo storico in
relazione al ritrovamento e saccheggio della tomba conducono nel paese dei
nabatei. Esse mostrano in maniera
incontrovertibile un interesse enorme dei Maccabei per quel paese e riportano
almeno due grandi e misteriose spedizioni da essi effettuate in quelle terre.
I reperti archeologici del periodo ellenistico ad
Har Karkom e le cronache storiche dei Maccabei combaciano e si confermano a
vicenda. Considerati separatamente non hanno spiegazione, né gli uni né le
altre. Messi assieme forniscono un quadro fortemente realistico e credibile,
tanto che è difficile sfuggire alla conclusione che la ricostruzione degli
avvenimenti fatta sulla loro base sia sostanzialmente corretta. Il grande
accampamento ellenistico che si trova ai piedi del monte 788, nella valle di
Har Karkom, fu piantato intorno al 137 a.C. da
Ircano I, che era stato mandato là da suo padre Simone per portare a
compimento la missione progettata da
Giuda Maccabeo poco più di vent’anni prima e che era costata la vita a suo
fratello Giovanni: cercare la “caverna del tesoro”.
Nelle foto: veduta
aerea del campo ellenistico (sito BK480). A destra vista del cimitero
ellenistico. In basso pianta dello stesso cimitero, rilevata dai
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Erode e la caverna del tesoro
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