Il manoscritto con il
diario di Egeria, detto Codex Aretinus 405, è un codice in pergamena scoperto nel
1884 da Gian Francesco Gamburrini, di professione giurista, nella biblioteca
della Confraternita dei Laici[1]
di Arezzo (nota anche come Fraternità di S.Maria).
La sua origine sembra certa. Il tipo di scrittura beneventina è
quello che si utilizzava nel monastero di Monte Cassino dal IX al XII secolo e
più precisamente nel periodo dell’abate Oderisio I (1087 - 1105)[2].
A conferma che il manoscritto proviene da questo monastero c’è il fatto che Pietro Diacono, bibliotecario dell’abbazia dal 1131 al 1159, ha utilizzato proprio questa copia per la redazione del suo trattato sui luoghi santi, "Liber de locis sanctis". Egli infatti ne riporta interi brani, soprattutto per la parte relativa al monte Sinai, parola per parola, ivi compresi gli errori di ortografia[3].
Il manoscritto rinvenuto ad Arezzo, purtroppo, è largamente incompleto, cosa che ha dato luogo ad accese discussioni e vari tentativi di stabilire quale fosse il contenuto delle parti mancanti, basandosi sulle due uniche fonti conosciute che fanno riferimento al racconto di Egeria. La prima è il già citato “Liber de Locis Sanctis” di Pietro Diacono; la seconda è una lettera scritta attorno al 680 dal monaco Valerio ai suoi confratelli del monastero di Bierzo, in Galizia, nella quale egli addita la santa Egeria come esempio di coraggio e abnegazione, facendo un rapido elenco delle montagne da essa scalate e dei luoghi santi visitati.
Il manoscritto è costituito da tre quaternioni (un quaternione erano composto da due fogli ripiegati in due, in modo da formare un volumetto di quattro pagine, e cioè otto facciate scritte), collegati assieme. Nel quaternione di mezzo manca un foglio, vale a dire la prima ed ultima pagina, per un totale di quattro facciate scritte. In tutto, quindi, il manoscritto comprende venti pagine scritte. Il primo quaternione inizia con una mezza frase, l’ultimo termina a sua volta con una frase non finita. Ciò fa ritenere che all’inizio e alla fine del testo attuale ci fossero almeno altri due quaternioni, per un totale di altre sedici pagine (più le quattro mancanti dal quaternione centrale).
Tutte le pagine contengono esattamente 35 righe ciascuna, più o meno della stessa lunghezza, senza nessuna punteggiatura o stacco, o daccapo che indichi la separazione fra un episodio e quello successivo. Neppure le rare maiuscole che compaiono qua e là nelle pagine sono indicative in questo senso. La punteggiatura e la suddivisione in capitoli sono state effettuate dai traduttori.
Fin dalla prima pubblicazione del manoscritto, fatta dallo stesso Gamurrini nel 1884, si è sviluppato un acceso dibattito fra gli studiosi, concentrato principalmente su tre punti:
- chi
era la pellegrina che aveva scritto quel diario di viaggio
- quando
esattamente ebbe luogo il pellegrinaggio ed in particolare la visita al monte
Sinai
- qual
era il contenuto delle parti mancanti del manoscritto.
Nessuno, a quanto pare, si è preoccupato di approfondire quello che appare invece uno dei punti fondamentali dell’intero diario e cioè quale fosse veramente il monte visitato da Egeria. Fin dal primo istante, infatti, tutti concordemente hanno ritenuto che si trattasse del monte che la tradizione cristiana ha consacrato come monte Sinai fin dal sesto secolo, e cioè il Gebel el Musa, nel massiccio del Santa Caterina, all’estremità meridionale della penisola del Sinai, ed hanno effettuato le loro analisi e tratto le loro conclusioni sulla base di questo esplicito presupposto. Nessuno ha mai avanzato il minimo dubbio in proposito, nonostante i motivi per nutrire dubbi non manchino di certo, come vedremo, specie dopo i tentativi di ripercorrere l’itinerario della pellegrina sul terreno, nel Santa Caterina, effettuati nel 1899 da M.J. Lagrange e novanta anni dopo da Franca Mian[4].
Prima di passare a questo argomento, però, vediamo di chiarire gli aspetti più significativi relativi al manoscritto ed alla sua autrice, sulla base dei risultati ottenuti dagli studiosi in oltre un secolo di analisi approfondite.
Tutte le opere che parlano del manoscritto ritrovato ad Arezzo lo descrivono come “mancante della parte iniziale e di quella finale”. Se ci si riferisce al fascicolo in se stesso sembra non ci possano essere dubbi in proposito, perché il primo foglio inizia con la seconda parte di una frase (... ci venivano mostrati secondo le Scritture.) e l’ultimo foglio tronca una frase appena incominciata (Il quarto giorno...). Quindi doveva esserci una parte precedente e una successiva.
Se invece si intende, come sembrerebbe intendano la maggioranza degli studiosi e dei lettori, che il manoscritto sia conforme all’originale scritto da Egeria, ma sia mancante della parte iniziale e di quella finale, questo è certamente inesatto. La fine del diario scritto originariamente da Egeria, infatti, è riportata verso la metà del manoscritto (cap. 23, 10)[5], dove l’autrice, giunta finalmente alla sua meta, Costantinopoli, conclude la narrazione e si congeda dalle consorelle, cui il diario è idealmente diretto, con le parole. “Se dopo questa impresa sarò ancora viva, se potrò conoscere altri luoghi, o io stessa di persona, nel caso che Dio si degni di concedermelo, lo racconterò al vostro affetto, oppure, certamente, se avrò in animo un altro progetto, ve ne informerò per iscritto. Voi, mie signore, mia luce, degnatevi di ricordarvi di me, che io sia ancora nel mio corpo, oppure ne sia ormai fuori.” FINE. O almeno così dovrebbe essere.
Se non ché il manoscritto prosegue con una sezione interamente ed esclusivamente dedicata alla liturgia gerosolimitana, che continuamente rimanda a fatti, cose, luoghi e persone descritti in precedenza, di cui però non c’è traccia nel manoscritto. Non c’è infatti alcuna descrizione della città di Gerusalemme, dei suoi vari luoghi santi, delle sue sante reliquie, delle sue gerarchie religiose e delle esperienze della pellegrina, che pure, secondo lo spirito di questo diario e secondo quanto riportato nella seconda sezione, doveva occupare una parte molto importante del diario originale.
Difficile pensare che fosse strutturato allo stesso modo del manoscritto aretino. Quest’ultimo sembrerebbe piuttosto il frutto di un “taglia e cuci”, che avrebbe estratto dall’originale brani scelti, mettendoli poi assieme per ragioni e con un criterio che ignoriamo. Il testo aretino, infatti, è diviso in due parti omogenee nettamente distinte. Nella prima vengono riportati in sequenza vari viaggi che la pellegrina compie per visitare luoghi della Palestina e dintorni, di preminente interesse biblico, e infine il viaggio di ritorno a Costantinopoli. In questa parte non viene riportata una singola parola su Gerusalemme, tranne il fatto che la pellegrina vi ritorna al termine di ogni escursione.
La seconda parte inizia con una frase che nello scritto originale doveva necessariamente trovarsi al termine di una lunga ed accurata descrizione dei luoghi di culto di Gerusalemme: “Perché la vostra dilezione sappia quale ufficio ogni giorno, durante l’arco della giornata, abbia luogo nei luoghi santi, ho creduto di dovervene informare, sapendo che avreste avuto piacere di saperlo.” Descrizione che doveva costituire la parte principale e più interessante del diario originale, ma della quale non è rimasta traccia nel manoscritto.
Una cosa che appare ragionevolmente certa, quindi, è che il testo originale del diario sia stato in un primo tempo ricopiato, stralciandone alcune parti, scelte per ragioni che ignoriamo e ordinate secondo un ordine che non era quello originale. In un secondo tempo il volumetto risultante è stato ulteriormente mutilato, con lo stralcio di un numero imprecisato di pagine, anche qui non sappiamo perché, né da chi.
Una cosa è certa, comunque: il documento trovato ad Arezzo è stato ricopiato parola per parola[6], da Pietro Diacono nella compilazione della sua opera “De Locis Sanctis”. Pietro, quindi, ha certamente maneggiato quel manoscritto; potrebbe essere stato lui stesso a stralciare i fogli mancanti. D’altra parte non si trattava di un documento originale, ma di una copia effettuata nello stesso monastero di Montecassino qualche anno prima di lui; ed è lapalissiano che al momento della trascrizione il testo sorgente si doveva trovare nella biblioteca del monastero stesso. Probabilmente c’era ancora quando Pietro utilizzò la copia.
Pietro è stato il bibliotecario del monastero per quasi un trentennio e ne ha catalogato tutti i volumi. Sapendo dell’esistenza di un’altra copia, per giunta originale, è possibile che non lo trattasse con la cura dovuta ad un esemplare unico e che abbia intenzionalmente stralciato quelle pagine mancanti. Cosa contenessero quei fogli non è dato sapere, il che dovrebbe suggerire prudenza nel cercare di ricostruire le parti mancanti del racconto di Egeria, partendo dall'opera di Pietro Diacono, nel presupposto che anche le parti stralciate dal manoscritto aretino siano state ricopiate nel suo De Locis Sanctis. Il contrario potrebbe essere vero, e cioè che Pietro abbia eliminato dal manoscritto parti in contraddizione con le altre fonti da lui utilizzate, in particolare il De Locis Sanctis del venerabile Beda (672 -735), da cui è certo che egli attinse a piene mani.
Si pone così il problema dell’attendibilità dei dati riportati nel testo aretino, se siano cioè la fedele riproduzione di quelli scritti originariamente da Egeria, o se non abbiano invece subito qualche “ritocco” significativo nell’operazione di ricucitura dei vari spezzoni di racconto, per rendere il discorso più fluido o magari anche per eliminare eventuali discrepanze con altre fonti ritenute più affidabili.
Anche l’esame dei tempi dei vari pellegrinaggi di Egeria, come risultano dal manoscritto aretino, porta alla inevitabile conclusione che esso sia un collage di vari spezzoni di viaggio, avvenuti indipendentemente l’uno dall’altro, ma presentati in sequenza come se fossero stati effettuati l’uno immediatamente dopo l’altro. Questa eventualità, tuttavia, (stranamente) non viene presa in considerazione dagli studiosi.
È basandosi sul presupposto [7] della sequenzialità dei viaggi descritti nel manoscritto aretino, infatti, che P. Devos ha creduto di poter ricostruire giorno per giorno i movimenti di Egeria negli ultimi quattro mesi del suo pellegrinaggio[8]. Ricostruzione pienamente condivisa dal Maraval e da altri studiosi che si sono occupati dell’argomento, che l’hanno fatta propria.
Ma è proprio questa precisione a rendere l’ipotesi che qualcuno abbia estratto dal diario originale vari spezzoni di viaggio indipendenti, ricucendoli fra loro, molto più di una semplice congettura, quasi una certezza. Il primo dei viaggi di Egeria che compare nel manoscritto è quello al monte di Dio, che viene avvistato nel pomeriggio di un sabato (cap. 3, 1). Partendo dal presupposto della sequenzialità dei viaggi, Devos ha potuto fissare nella domenica del 17 dicembre 383 il giorno in cui Egeria è salita sulla vetta del monte Sinai. A questo risultato è arrivato in maniera immediata basandosi sui dati forniti dal manoscritto stesso.
Partita dal monte, la pellegrina si recò dapprima a Clysma (Suez) ed infine ad una città chiamata Arabia, nei pressi dell’antica PiRamsess, dove dichiara di arrivare alla vigilia dell’Epifania, e cioè il 5 gennaio. Facendo un calcolo a ritroso dei tempi necessari ad effettuare questo percorso, Devos arriva appunto a determinare che Egeria dovette affacciarsi alla valle di Dio nel pomeriggio di sabato 16 dicembre, né prima, né dopo.
L’8 gennaio partì da Arabia e visitò in lungo e in largo il paese di Gesse, dove gli ebrei erano vissuti durante la cattività in Egitto. Si spinse quindi fino a Tanis, da dove rientrò a Gerusalemme viaggiando lungo la costa. Quando vi arrivò doveva essere già la fine di gennaio e c’è da aspettarsi che Egeria si sarebbe presa un lungo periodo di riposo, dopo questo estenuante viaggio. Invece no. Passati soltanto pochi giorni, Egeria si sarebbe fatta prendere dalla smania di ripartire di nuovo, per un viaggio altrettanto estenuante, questa volta per visitare il monte Nebo, con tutti i siti di interesse biblico nella valle del Giordano e nella Transgiordania, ivi compresa la statua di sale in cui fu trasformata la moglie di Lot, a sud del Mar Morto.
Il viaggio dovette prendere buona parte del mese di Febbraio e al termine Egeria rientrò puntualmente a Gerusalemme, per ripartirne, però, pochi giorni dopo per un’escursione ancora più lunga; questa volta volle visitare la tomba di Giobbe, che si trovava all’estremità settentrionale della Palestina. Risalì il Giordano, visitando i vari luoghi biblici che vi si incontrano, dal sito del battesimo di Cristo alla città di Melchisedek e alla valle di Elia, arrivando infine in vista della Fenicia.
Per buona sorte a questo punto vengono a mancare due pagine del manoscritto, per cui non ci è dato sapere quali altri siti di interesse biblico Egeria abbia visitato, oltre alla tomba di Giobbe, sua meta finale. Sappiamo soltanto che dovette fare il tutto con grandissima fretta, perché rientrò a Gerusalemme in tempo per assistere alle celebrazioni della Santa Pasqua, che quell’anno cadeva il 24 marzo, con i suoi rituali estenuanti. Dovremmo ritenere che fosse distrutta dalla fatica, e invece il giorno dopo stesso, il 25 marzo 384, ripartì da Gerusalemme per recarsi nuovamente a Costantinopoli: un viaggio che richiedeva come minimo quaranta giorni.
E’ stupefacente! In poco più di tre mesi Egeria avrebbe visitato la maggior parte dei luoghi di un qualche interesse biblico della Palestina, Egitto e Giordania. Un tour de force che avrebbe stroncato tempre ben più forti della sua; come quella di San Girolamo, ad esempio, che, stabilitosi in Palestina un paio di anni dopo, impiegò più di un anno per visitare soltanto una parte di quegli stessi luoghi (non si recò mai, infatti, a visitare il monte Nebo e tanto meno il Sinai).
Non è assolutamente credibile, specie tenendo conto del fatto che Egeria stessa, tornando a Faran dal monte di Dio, dichiara di essersi dovuta fermare un paio di giorni per rimettersi dalla fatica di quel tragitto (50 chilometri, secondo Maraval e Devos, percorsi in due giorni!) Dopodiché dovette riposarsi a lungo a Clysma (Suez), per aver camminato qualche giorno sulle sabbie del deserto.
Senza contare che viaggi del genere, allora più di oggi, non si improvvisano alzandosi al mattino con la smania di partire, ma necessitano di una lunga preparazione. E normalmente anche di un adeguato periodo successivo di calma per assimilare e mettere per iscritto le esperienze vissute, per quei tempi davvero straordinarie.
Un’ultima considerazione: se in tre mesi Egeria ha visto quasi tutto quel che c’era da vedere in Palestina e dintorni, cosa mai può aver fatto nel rimanente dei tre anni trascorsi a Gerusalemme? A parte una puntata in Egitto, per visitare i monaci della Tebaide, non risulta nessun altro viaggio al di fuori di Gerusalemme e immediati dintorni.
Non ci dovrebbe essere alcun dubbio, quindi, che il manoscritto aretino è stato prodotto estraendo dal diario originale di Egeria i racconti dei vari viaggi da lei compiuti, partendo e tornando a Gerusalemme, durante i tre anni della sua permanenza in quella città.
Si tratta, come si è visto, di tre lunghi viaggi separati. Per il primo di essi, tuttavia, dalla lettera di Valerio e da alcune incongruenze e note nel testo aretino, è possibile dimostrare che si è trattato di due distinti viaggi effettuati in epoche diverse e giuntati in ordine inverso, in modo da farli risultare un unico viaggio.
Le misure e distanze riportate da Egeria relative alla valle e al monte di Dio sono macroscopicamente errate se riferite al Santa Caterina e niente di quello che lei descrive nel corso della sua visita, chiese, insediamenti di monaci e colture, esisteva al Santa Caterina alla sua epoca .
Sorprendentemente, però, la misura riportata per la distanza da Faran al monte è precisa, se si identifica il monte con il Santa Caterina e Faran con l’oasi di Feiran, e beninteso se si suppone che la distanza sia espressa in miglia romane. Il capitolo 5, infatti, termina con il ritorno a Faran, dopo il completamento della visita al monte sacro. Il capitolo successivo, il 6, passa ad una nuova fase del viaggio, durante la quale, stando a quanto dichiarato esplicitamente da Egeria, essa ripercorre a ritroso l’itinerario dell’esodo degli ebrei da Feiran fino all’Egitto. Esso inizia con le parole: “Così, una volta arrivati a Faran, che si trova trentacinque miglia dal monte di Dio, fu necessario per noi rimanere lì un paio di giorni, per riprenderci.”
Le miglia riportate in questo punto del testo sono indubbiamente militari romane, di 1600 metri, perché è la distanza esatta che intercorre fra l’attuale Feiran e il monastero del Santa Caterina. E che si tratti dell’attuale Feiran non c’è il benché minimo dubbio sulla base del racconto successivo, perché di lì Egeria raggiunge il mare, dopo due giorni di cammino, e prosegue quindi lungo il litorale fino alla città di Clysma, l’odierna Suez.
Stupefacente! Egeria avrebbe sbagliato clamorosamente le misure della valle, fulcro di quella che è stata indubbiamente una delle fasi più importanti del suo pellegrinaggio, pur riportando con esattezza, senza alcuna esigenza narrativa, una misura che quasi certamente non era in grado di conoscere in quella forma[9]! C’è indubbiamente qualcosa che non quadra.
Si è detto che il manoscritto rinvenuto ad Arezzo, più che una fedele riproduzione del diario originale di Egeria, appare essere un “collage” di spezzoni di viaggio estratti dall’originale. Il problema, a questo punto, è stabilire se la visita al monte e il ritorno in Egitto lungo il golfo di Suez, sulle tracce degli ebrei dell’Esodo (cap.7,1), sono due fasi di uno stesso viaggio o piuttosto due viaggi indipendenti completamente separati.
Che il viaggio da Feiran all’Egitto costituisca un episodio separato dalla visita al monte di Dio, addirittura antecedente ad essa, sembrerebbe suggerito dalla lettera di Valerio del Bierzo, dove afferma che Egeria per prima cosa si recò a visitare i monaci della Tebaide, in Egitto e “da lì, fortificata dalle benedizioni di quei santi e rinforzata dal dolce alimento della carità, si recò in tutte le province dell’Egitto e vi cercò con estrema attenzione tutte le tappe dell’antica peregrinazione del popolo di Israele...” (cap. 1). Soltanto in seguito, con un viaggio separato e programmato ad hoc, “infiammata dal desiderio di vedere la santa montagna del Signore” (cap. 2), Egeria si recò in pellegrinaggio al monte Sinai.
Anche l’epoca dell’anno ha il suo peso. Secondo il manoscritto attuale la visita al monte sarebbe stata effettuata alla fine di Dicembre, epoca del tutto improbabile per una visita alle montagne interne del Sinai e la peggiore in assoluto, perché il freddo è intenso e la possibilità di tempeste elevata. Appare poco verosimile che Egeria abbia programmato una visita al monte proprio in questo periodo. Normalmente i periodi migliori per queste visite, ora come allora, sono i mesi di aprile o di ottobre, perché non fa né troppo caldo né troppo freddo. Che la visita sia avvenuta in ottobre, o al massimo alla fine di settembre, sembra confermato dal fatto che i monaci locali offrirono a Egeria frutta di stagione, indicata con il nome di “poma”, mele presumibilmente, e comunque frutta che matura a fine estate-inizio autunno.
La parte di viaggio successiva alla visita al monte, invece, avviene tra la fine di dicembre ed i primi di gennaio, come dichiarato nel racconto, ma si svolge interamente, a parte una breve puntata all’oasi di Feiran, lungo le rive del Mar Rosso, notoriamente temperato anche nel cuore dell’inverno. Questo spezzone di itinerario, quindi, farebbe parte del viaggio in Egitto citato da Valerio del Bierzo, durante il quale Egeria visitò i monaci della Tebaide, per dedicarsi poi a cercare “ con estrema attenzione tutte le tappe dell’antica peregrinazione del popolo di Israele”.
In questa fase essa avrebbe seguito il percorso dell’Esodo fino a Feiran e di qui avrebbe fatto ritorno in Egitto e poi a Gerusalemme, perché la stagione avanzata sconsigliava di procedere sui monti interni del Sinai.
Il copista che ha prodotto il manoscritto nella forma attuale, però, sapeva per certo che il Monte Sinai si trovava al Santa Caterina e che il percorso per raggiungerlo, seguito normalmente dai pellegrini, era passando da Suez e Feiran. Qualunque fosse il percorso riportato da Egeria nel suo diario, essa diceva di essere partita da e ritornata ad una località chiamata Faran: occasione perfetta per il copista, il quale, identificando Faran con Feiran, dovette inserire proprio in questo punto la visita al monte Sinai, che doveva far parte, invece, di un viaggio successivo.
Se questa ipotesi è corretta, la parte iniziale mancante del manoscritto aretino doveva contenere la descrizione della visita ai monaci della Tebaide e la successiva rivisitazione delle tappe dell’Esodo fino a Feiran. In questo punto era stato inserito il viaggio da Faran al monte di Dio, durante il quale Egeria salì sul monte da dove Mosè assistette alla battaglia contro gli amalechiti, a Refidim, come riferito da Valerio del Bierzo. Le incongruenze che questo inserimento comportava dovevano essere abbastanza evidenti nelle pagine mancanti del manoscritto, e forse questo non è estraneo al fatto che siano state stralciate.
Non mancano, però, incongruenze anche nella giunzione successiva, dove il ritorno dalla visita al monte di Dio si “innesta” nel viaggio di ritorno da Feiran.
Nel manoscritto aretino la visita al monte di Dio termina con le parole: “Plurimi autem ex ipsis sanctis qui in montem Dei uel circa ipsum commorabantur, dignati sunt nos usque in Faran deducere qui tamen fortiori coprpore erant.” (Un buon numero di quei santi che soggiornavano sopra la montagna di Dio o nei suoi dintorni, si sono degnati di accompagnarci fino a Faran, almeno quelli che erano abbastanza in gamba).
La giunzione con il secondo spezzone di viaggio avviene senza nessun segno di separazione con le parole: “ac sic ergo cum peruenissemus Faram quod sunt a monte Dei milia triginta et quinque necesse nos fuit ibi ad resumendum biduo immorari ac tertia die inde maturantes uenimus denuo ad mansionem id est in desertum Faran.” (una volta arrivati a Faran, che si trova a trenta cinque miglia dalla montagna di Dio, abbiamo dovuto fermarci per due giorni a riposarci. Il terzo giorno, partiti di buon mattino, giungemmo nuovamente alla tappa nel deserto Faran).
Frammento del codex 405, con errore di sintassi
In questa frase c’è un piccolissimo errore (vedi fig. 8): mentre nella riga precedente è scritto usque in Faran deducere, nella riga successiva viene scritto peruenissemus Faram. La prima scrittura è corretta, perché Faran è un nome ebraico, indeclinabile in latino, ed è presumibile che così fosse scritto nel testo originale di Egeria. La seconda scrittura è errata, perché viene declinata alla latina, come se queste parole non fossero state copiate da un testo, ma composte lì per lì da qualcuno che automaticamente avrebbe impiegato la forma accusativa latina.
Errore non attribuibile ad Egeria; è più probabile che quelle parole siano state aggiunte dal copista stesso e l’errore sia dovuto alla sua dimestichezza con il latino classico. Coerente con l’epoca in cui il manoscritto fu prodotto, sia che fosse quella dell’abate di Montecassino Oderisio I, che aveva dato grande impulso alla cultura classica, sia che fosse quella di Valerio del Bierzo, il settimo secolo.
Anche l’informazione delle trentacinque miglia, ignota ad Egeria, ma ben nota sia nel settimo che nell’undicesimo secolo, deve essere stata aggiunta lì per lì, senza alcuna necessità narrativa, al solo scopo di rendere convincente la giunzione, ambientando correttamente, secondo le conoscenze del copista, il monte di Dio. Chiunque all’epoca leggesse quel passaggio, non poteva non trovarlo corretto. Ma che si tratti di una giunzione artificiosa emerge subito dopo, quando si rileva un’altra incongruenza, sfuggita nella prima stesura del manoscritto. Qualcuno, senza dubbio il copista di Montecassino dal momento che la scrittura è la sua, rileggendo il testo si deve essere accorto della sbavatura ed ha cercato di porvi rimedio aggiungendo una nota a fondo pagina.
Le prime sei righe del testo della figura riportano testualmente:
aperta
est. In eo ergo loco de inter montes exiuimus redeuntes
in quo loco et
euntes inter montes intraeramus ac sic ergo
denuo plicauimus
nos ad mare. Filii etiam Israel redeuntes ad mon_
tem Dei Syna usque
ad eum locum + ubi de inter montes exiuimus
et iunximus nos
denuo ad mare rubrum et inde nos iam iter nostrum
quo ueneramus
reversi sumus.
L’interpolazione del testo è fatta alla riga quarta, fra le parole locum e ubi. Senza l’interpolazione la frase suona pressappoco: “Siamo dunque usciti dalle montagne, al ritorno, nello stesso luogo in cui eravamo entrati fra i monti all’andata e ci siamo di nuovo avvicinati al mare. Anche i figli di Israele, nel loro viaggio verso il monte (giunsero) fino a quello stesso luogo dove noi siamo usciti di fra i monti ed abbiamo raggiunto nuovamente il mar Rosso e di qui abbiamo ripreso lo stesso cammino da cui eravamo venuti.”
Con l’aggiunta della seguente nota a fondo pagina
la frase dei figli d’Israele così si modifica:
....
Filii etiam Israel redeuntes ad montem Dei Syna usque ad eum locum +reuersi
sunt per iter quod ierant, id est usque ad eum locum+ ubi de inter montes
exiuimus et iunximus nos denuo ad mare rubrum et inde nos iam iter nostrum quo
ueneramus reversi sumus.
Che tradotto letteralmente significa:
“Anche i figli di Israele, mentre si recavano al monte di Dio, il Sinai, sono ritornati per lo stesso itinerario che all’andata, e cioè fino a quello stesso luogo dove noi siamo usciti di fra i monti ecc.” Frase che non ha senso, tanto che il Maraval (e con lui la maggior parte degli autori) si sente in obbligo di “rettificare” il testo latino, traducendo le parole “redeuntes ad montem Dei” con “di ritorno dalla montagna di Dio”, vale a dire l’esatto opposto del suo significato. Questa interpolazione è significativa, perché dimostra che chi ha trascritto il testo di Egeria vi ha apportato modifiche per renderlo coerente con l’ubicazione del monte di Dio nel massiccio del Santa Caterina.
Le parti di itinerario in evidente contraddizione con questa localizzazione sono state semplicemente omesse, mentre il dato di trentacinque miglia dal monte a Faran, riportato all’inizio di questa stessa pagina, è stato inserito nel corso della trascrizione, per rendere fluida e credibile la giunzione di due diversi spezzoni di viaggio. Era sfuggita quella che ad una rilettura successiva sembrava una contraddizione, per cui il copista ha pensato bene di eliminare ogni possibile dubbio con l’interpolazione della frase a fondo pagina. Tentativo maldestro, perché dimostra in maniera certa che le parole interpolate sono un’aggiunta del copista stesso, non una sua dimenticanza; in nessun modo, infatti, esse potevano essere riportate nel testo originale di Egeria.
Il significato della frase non interpolata, infatti, è inequivocabile: gli israeliti nel corso del loro viaggio “verso” il monte di Dio “tornarono al Mar Rosso proprio in quello stesso punto in cui Egeria si era fermata tornando da Feiran.” Questo è perfettamente coerente con il racconto biblico, perché in numeri 33 si dice assai chiaramente che dopo il passaggio del Mar di Canne (e cioè del Mar Rosso) gli ebrei si recarono a Mara, poi a Elim e di qui al Mar di Canne e cioè di nuovo al Mar Rosso, lungo il Golfo di Suez, ma evidentemente in un punto diverso da quello precedente. Egeria in ogni luogo significativo del pellegrinaggio fa leggere il passo corrispondente della Bibbia, dimostrando di conoscere perfettamente il testo, che viene sempre citato in modo corretto, per cui la frase uscita dalla sua penna è certamente quella non interpolata. L’interpolazione è farina del sacco del copista e costituisce un indizio molto consistente a sostegno della tesi su esposta.
Con questo non si vuole puntare il dito contro di lui, accusandolo di aver “falsificato” il testo di Egeria. Le sue intenzioni erano certamente più che lodevoli. In base alle informazioni di cui disponeva (lo stesso vale per il Gamurrini ed il Lagrange, del resto) non c’era il benché minimo dubbio che il monte Sinai si identificasse con il Santa Caterina ed è quindi ovvio e naturale che correggesse in qualche modo i dati del racconto che erano palesemente non congruenti con quella identificazione. E questo non con l’intenzione di falsificare il testo, ma con quella di renderlo più comprensibile e attendibile.
Non è fuori luogo osservare che la stessa operazione di “correzione” del testo (assai comune fra i traduttori di ogni tempo) è compiuta anche dallo stesso Maraval proprio nella frase incriminata. Egli infatti traduce le parole “ad montem”, che evidentemente significano “andando verso il monte”, con l’esatto opposto, e cioè “venendo via dal monte”, certamente in perfetta buona fede, nell’intento di rendere più intelligibile il testo. Quel che ottiene, invece, è di sottolineare l’incongruenza di questo passo e l’esistenza di una ricucitura non ben riuscita fra due diversi spezzoni di viaggio.
Questa lunga e puntigliosa analisi si è resa necessaria per sottolineare la concreta possibilità, se non proprio la certezza, che il testo originale di Egeria, oltre che intenzionalmente ricopiato in maniera discontinua, riportando in sequenza brani originariamente separati, è stato anche modificato con piccoli ritocchi, al solo scopo di eliminare ogni evidente contraddizione con l’ambientazione del monte di Dio nel massiccio del Santa Caterina, che veniva allora considerata certa.
Viene così a cadere l’unica prova, le trentacinque miglia di distanza da Faran e l’itinerario immediatamente successivo, che dava agli studiosi moderni la certezza che la descrizione di Egeria si riferisse proprio a quel monte; certezza su cui si sono basate tutte le considerazioni e le conclusioni raggiunte nel corso dell’ultimo secolo, e che pertanto andrebbero rimesse pesantemente in discussione.
Quasi certamente Valerio del Bierzo conosceva una versione del manoscritto di Egeria più completa di quello aretino, ma in ogni caso con la stessa struttura, e cioè un collage di viaggi separati. Questo lo si deduce dal fatto che nella sua lettera egli accenna solo di sfuggita al soggiorno di Egeria a Gerusalemme, mentre si dilunga sui suoi viaggi al contorno; inoltre scrive che il monte da cui Mosè assistette alla battaglia contro gli amalechiti sovrastava Faran, il che equivale a identificare quest’ultima con Feiran.
A quell’epoca il Sinai era stato univocamente identificato con il Santa Caterina già da almeno un secolo e mezzo e quindi le conoscenze di Valerio in merito all’ambientazione del monte non dovevano differire molto da quelle di Pietro Diacono. Egli doveva avere a disposizione un testo già con la stessa struttura di quello attuale, anche se più completo, compilato quindi da un copista del suo stesso convento (o magari da lui stesso), nella seconda metà del settimo secolo, alcuni secoli prima del copista beneventino.
Con queste ultime considerazioni possiamo tentare di creare uno scenario verosimile in cui collocare l’origine del manoscritto rinvenuto ad Arezzo, in grado di spiegarne tutte le peculiarità. Egeria aveva visitato un monte che con tutta evidenza non poteva essere il Santa Caterina e aveva inviato (o portato personalmente) il diario di quel viaggio nella sua patria di origine, la Galizia.
Copia dell’originale, se non proprio l’originale stesso, era certamente entrata in possesso del maggiore monastero della regione, quello del Bierzo, dove l’autrice doveva essere considerata una sorta di eroina nazionale. Come era prassi corrente allora, i monaci dovettero produrre copie del manoscritto da scambiare con altri monasteri.
Sennonché c’era un problema molto serio. Dal sesto secolo in poi aveva cominciato a consolidarsi nel mondo cristiano la convinzione che il monte Sinai fosse situato nel Santa Caterina e i resoconti dei pellegrini erano piuttosto precisi in merito all’itinerario da seguire, anche se vaghi nella descrizione del luogo in se stesso. Itinerario che non corrispondeva affatto con quello descritto da Egeria, che in tal modo rischiava di venire considerata una millantatrice, per nulla attendibile.
Qualcuno dovette avere l’idea di salvare la reputazione della propria eroina, rimaneggiando il suo scritto e inserendo la visita al monte nel contesto di un viaggio in Egitto, durante il quale Egeria aveva seguito le tracce dell’Esodo, spingendosi fino a Feiran. Occasione perfetta per il copista, il quale, sapendo che quell’oasi era un punto obbligato di passaggio per chi si recava a quello che già allora veniva ritenuto con certezza il monte di Dio, la identificò con la Faran di Egeria, facendone il punto di partenza e di arrivo della visita al monte.
Il testo dovette essere distribuito ad altri monasteri in questa forma. Qualche secolo dopo, il copista di Montecassino dovette apportare qualche altra piccola modifica al manoscritto, per renderlo ancora più coerente. Fu lui, probabilmente, buon conoscitore del latino classico, ad inserire nel testo la frase peruenissemus Faram quod sunt a monte Dei milia triginta et quinque , oltre alla nota fuori testo di cui si è detto.
Tutto bene, fino a che il manoscritto finì nelle mani di Pietro Diacono, che disponeva anche di altre fonti, come quella del venerabile Beda, che egli riteneva del tutto attendibili. Pietro Diacono non era mai stato in Palestina, per cui le sue conoscenze sull’argomento derivavano esclusivamente dalle fonti letterarie, che dovette studiare con grande attenzione, accorgendosi che il diario di Egeria era molto suggestivo, ma presentava in alcune sue parti delle incongruenze non compatibili con le altre fonti, soprattutto per quanto riguardava la localizzazione del luogo della battaglia contro Amalek, Refidim, che lui, evidentemente, identificava con Feiran. E fu così che il quaternione iniziale del manoscritto, dedicato in parte alla visita di questo sito, dovette essere stralciato, sempre nell’intento di salvaguardare l’attendibilità di quella fonte preziosa.
Le altre pagine finali e quelle intermedie potrebbero essere state stralciate per una ragione analoga, e cioè per una qualche incongruenza con informazioni ben consolidate all’epoca di Pietro Diacono, probabilmente attinenti alle sante reliquie di Gerusalemme e a colei che veniva indicata come loro scopritrice, Sant’Elena.
[1] Attualmente si trova
nelle Biblioteca Comunale di Arezzo, ed è siglato Codex Aretinus 405
[2] Da informazioni dirette, via mail, da parte del Prof. Mariano
Dellomo, responsabile della biblioteca del monastero di Montecassino
[3] Pierre Maraval, “Egérie,
journal de voyage et lettre sur la B.se Egérie”, p, Parigi, 1997, pag 43,
nota 3 - L’edizione dell’itinerario di Egeria curata da Franceschini-Weber,
riporta per i capitoli da 1 a 7 il testo di Egeria a fronte di quello di Pietro
Diacono. Con tutta evidenza quest’ultimo ha utilizzato lo stesso testo in
nostro possesso, di cui ricopia anche errori e prole tipiche.
[4]
Pierre Maraval, Égérie – Journal de voyage (Itinéraire), éditions du Cerfs, Paris, 1997, pag. 125,
nella nota 4 osserva: L’itinerario dell’ascensione di Egeria è stato ricostruito da M.J.
Lagrange, che per primo si è recato sul posto per seguirne le tracce. A
differenza dei pellegrini moderni, che partono dal sito del roveto ardente
(oggi il monastero di Santa Caterina), Egeria è salita sul Sinai partendo da
alcuni eremitaggi situati lungo il wadi el Leja, sulla destra del massiccio.
L’itinerario della discesa potrebbe essere la via diretta, oggi servito da una
lunga scalinata in pietra, che va da Sant’Elia (il monte Horeb) al monastero.
Così, almeno pensava Lagrange. Recentemente Franca Mian ha proposto un
itinerario diverso (“Caput Vallis al Sinai in Eteria” LA 20, 1970, p 209-223)
Secondo questo nuovo itinerario, la pellegrina sarebbe discesa lungo una via
con direzione più a nord, verso il Gebel Haroun, arrivando ai piedi di Ras
Safsafeh: è là che si troverebbe l’estremità della valle di cui parla Egeria.
Questa ipotesi, secondo l’autore, porterebbe a localizzare la posizione del
roveto ardente, in epoca anteriore a Giustiniano ed alla costruzione del
monastero fortificato, in un punto ben diverso da quello della tradizione
posteriore. Io (Maraval) non sono d’accordo con questa ipotesi, perché mi
sembra impensabile che abbiano spostato un luogo santo dopo due secoli di
venerazione. Ritengo possibile, comunque, che Egeria sia scesa lungo questa
via, dirigendosi per qualche tempo “verso l’estremità della Valle”, per poi
recarsi al luogo del roveto ardente. Questo si trova senza dubbio, come pensava
Lagrange nella parte del wadi ed Deir che prolunga il wadi el Raha. Egeria,
infatti, precisa che si trovava ai piedi della montagna di Dio, affermazione
che si attaglia perfettamente alla valle in cui sorge il monastero.
[5] questo fatto è più o
meno implicitamente riconosciuto anche da vari studiosi, come ad esempio la.
Giannarelli, che scrive testualmente (pag 76): “La strada da Costantinopoli a
Gerusalemme è una via che Egeria stessa dice di conoscere bene al momento del
suo ritorno verso la grande metropoli, dove scrive il diario e dove per noi si
perdono le sue tracce”. La Giannarelli stessa, quindi, sulla scia dei più
eminenti esegeti, ammette che il diario termina con l’arrivo della pellegrina a
Costantinopoli.
[6] Pierre Maraval,
“Egérie, journal de voyage et lettre sur la B.se Egérie”, Parigi, 1997, pag 43,
[7] Questo presupposto, tuttavia, non è mai stato discusso e tanto meno
dimostrato
[8] (P. Devos, La date du voyage d’Egerie, AB 85; 1967,
p. 165-194).
[9] Normalmente, nel deserto, distanze di questa ampiezza vengono espresse
in giornate di cammino, non in miglia. La distanza fra Feiran e il monastero
può essere stata misurata in miglia romane soltanto dopo che Giustiniano
stabilì una guarnigione militare a Feiran e fortificò il monastero, e cioè nel
sesto secolo. Egeria non poteva conoscere in alcun modo la distanza in miglia.
Il dato, quindi è stato inserito nel testo certamente dopo il sesto secolo.