Io sapevo, o meglio, credevo di sapere con certezza dove si trovava il monte. La situazione archeologica scoperta ed evidenziata dal prof. Anati ad Har Karkom era tale da lasciarmi ben pochi dubbi che il monte Horeb fosse proprio lì. E quei pochi dubbi erano svaniti quando avevo constatato la rispondenza assoluta dell’itinerario dall’Egitto ad Har Karkom con i dati forniti dal racconto biblico.
All’inizio, però, avevo dovuto superare un problema molto grave, tale da mettere a dura prova la mia fiducia nella correttezza di quella identificazione. Avevo cominciato lo studio della Bibbia proprio perché spinto da Anati e convinto della bontà della sue ipotesi e della importanza della sua scoperta. Avevo la massima stima di lui, conoscevo da vicino la serietà delle sue ricerche, il puntiglio con cui verificava le sue ipotesi, il rigore con cui si documentava e vagliava le sue fonti.
Fui quindi meravigliato e, debbo dire, piuttosto a disagio quando cominciai ad accorgermi che le mie conclusioni divergevano nettamente dalle sue su una questione fondamentale: la cronologia degli avvenimenti del Pentateuco. Naturalmente conoscevo fin dall’inizio quali fossero le idee di Anati a questo proposito. Era uno dei punti sui quali egli insisteva maggiormente nei suoi scritti e nelle sue conferenze, ed era evidente che egli aveva molto a cuore l’argomento e lo aveva affrontato in maniera organica e radicale, dedicandovi una enorme quantità di energie. Profano com’ero sia di archeologia che di questioni bibliche, le sue argomentazioni mi apparivano talmente logiche e convincenti che non mi passava neppure per la mente ci potesse essere qualcosa che non tornava.
Anati non è un biblista, o per lo meno non lo era quando iniziò la ricerca archeologica ad Har Karkom; lo divenne di necessità in seguito. Quando aveva iniziato l’esplorazione di Har Karkom, non aveva idea che vi potesse essere una qualche connessione con la Bibbia e non si era quindi posto il problema della cronologia biblica. A lui interessava soltanto datare correttamente le strutture archeologiche che veniva scoprendo, per poter tracciare a grandi linee la storia del popolamento di quell’area.
In mancanza di stratigrafia e di resti organici utilizzabili per una analisi del radiocarbonio, per le datazioni dei vari siti archeologici doveva necessariamente basarsi su elementi quali la tipologia delle strutture, l’associazione eventuale con scritte o incisioni su roccia e soprattutto con la tipologia dei manufatti rinvenuti nell’ambito delle strutture, in particolare strumenti di selce e frammenti di terracotta. Per il paleolitico e il neolitico l’attribuzione dei vari siti veniva fatta in base alla tecnica di produzione delle selci, sempre molto abbondanti, che varia a seconda delle epoche.
Dal calcolitico in poi si ha una tecnica di produzione delle selci nettamente distinguibile dalle precedenti, ma in presenza di ceramica, quest’ultima diviene l’elemento di datazione determinante. La terracotta, infatti, ha caratteristiche di impasto e di lavorazione che sono specifiche di una certa area e di una certa epoca e sono facilmente distinguibili dagli esperti. La datazione viene fatta in relazione alle sequenze archeologiche della vicina Palestina e del Basso Egitto, nel presupposto che, data la contiguità delle aree e la frequenza dei contati umani fra di esse, le sequenze siano fondamentalmente le stesse.
In Palestina l’esistenza di serie stratigrafiche ha consentito di distinguere e datare in maniera precisa le sequenze di stili e tipi di ceramica. Il periodo Calcolitico va dal 4000 fino al 3200 a.C. circa. Segue il Bronzo Antico, fino al 2200, epoca in cui la Palestina fu sconvolta da una serie impressionante di distruzioni, che interessarono la maggior parte delle città dell’epoca. Testimonianza certa della invasione da parte di un popolazione ignota, che dette inizio alla prima fase del Bronzo Medio (MB I), protrattosi fino al 1950 a.C.. Una nuova invasione dette inizio, intorno a questa data, alla seconda fase del Bronzo Medio, detto MB II A, che si protrasse fino al 1780 a.C. circa, quando la Palestina fu invasa dagli Hyksos. Da questa data inizia una terza fase del bronzo medio, il MB II B, che dura fino al 1550 a.C. circa, quando gli egiziani sconfissero gli Hyksos e conquistarono la Palestina. Segue infine il Bronzo Inferiore, che dura fino al 1200 a.C.
Dopo il 1200 inizia l’Età del Ferro, divisa in due fasi: la prima fino al 1000 a.C., epoca della instaurazione del regno di Giuda; la seconda dal 1000 fino al 587 a.C., data della distruzione di Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor. Di qui inizia il periodo persiano, poi quello ellenistico con Alessandro Magno, seguito dal periodo romano-bizantino per finire con quello islamico, che giunge fino ai giorni nostri.
Ognuno di questi periodi è caratterizzato da un ben determinato tipo di ceramica, che veniva prodotto soltanto in quell’epoca. La terracotta, quindi, costituisce nel medio oriente un elemento di datazione abbastanza preciso e sicuro.
Lo stesso dicasi per gli strumenti di selce, che sono ottenuti con tecniche di taglio che identificano con precisione l’epoca in cui sono stati prodotti
Ad Har Karkom il Prof. Anati aveva scoperto migliaia di strutture abitative e all’interno, o nelle immediate vicinanze, della maggior parte di esse aveva trovato frammenti di terracotta e più spesso strumenti di selce che gli avevano consentito di attribuire le varie strutture a ben determinate epoche. Trattandosi di una questione di fondamentale importanza, aveva fatto analizzare i frammenti di ceramica anche da alcuni fra i maggiori esperti israeliani, per maggior sicurezza[1]. In particolare i frammenti dell’età del bronzo, perché proprio in questa epoca era emersa una situazione che doveva in seguito suscitare gravi problemi.
Nella maggior parte dei circa 300 siti attribuibili a quest’epoca, Anati aveva trovato frammenti di ceramica del Bronzo Antico. In alcuni siti, pochi per la verità, aveva trovato anche frammenti del primo periodo del Bronzo Medio, spesso assieme a frammenti del periodo precedente. Poi più nulla. Dei successivi periodi del bronzo Medio e del Bronzo recente non fu trovato neppure un singolo coccio. Stessa situazione per il primo periodo dell’età del ferro. Frammenti databili all’inizio del secondo periodo dell’età del ferro, al X secolo a.C., erano stati trovati in un unico sito. Pochi e controversi i frammenti del periodo persiano, mentre quelli del successivo periodo ellenistico erano molto abbondanti, ma concentrati in pochi siti al centro della valle Karkom. Poi un’esplosione di ceramica romano-bizantina, ritrovata in più di 200 siti.
Una situazione da manuale. Le evidenze archeologiche sono nette ed inequivocabili. Esse testimoniano un grande fervore di vita nell’intera area di Har Karkom lungo tutto l’arco del terzo millennio a.C. Una presenza umana, anche se in quantità molto più ridotta, è testimoniata anche nel primo periodo del Bronzo Medio, fino agli inizi del secondo millennio. Poi il vuoto. L’assenza di testimonianze archeologiche databili sembra dimostrare che l’area fosse stata abbandonata per tutti i successivi mille anni. Anzi, più di mille e cinquecento, se si eccettua quell’unico isolato insediamento dell’età del ferro. La colonizzazione dell’area sembra ricominciare soltanto nel periodo ellenistico ed esplode nuovamente, come ai bei tempi del bronzo antico, nel periodo romano-bizantino.
Questo era il quadro tracciato da Anati sulla base delle testimonianze archeologiche. Un quadro semplice e sicuro, senza elementi di rilievo che potessero metterlo in discussione. Le cose, però, cominciarono a complicarsi il giorno in cui Anati scoperse le dodici stele e l’altare ai piedi del monte. Da quel momento le evidenze che si trattasse di una montagna sacra, con le stesse caratteristiche di quella citata dalla Bibbia, vennero accumulandosi al punto da non poter essere ignorate.
Il problema era che l’esodo degli ebrei e la loro permanenza ai piedi del monte Horeb, vengono tradizionalmente posti dagli esegeti nel XIII secolo a.C., alla fine dell’età del bronzo. Una popolazione di migliaia di persone, vissute per un anno intorno al monte, doveva aver lasciato tracce abbondanti ed inequivocabili, attribuibili ovviamente alla fine dell’età del bronzo. Cosa che invece non risultava dai reperti archeologici.
Lo stesso problema si era già posto nel mondo esegetico per quanto concerne l’area del Gebel el Musa, dove non esistono resti del bronzo recente, ed era stato risolto sbrigativamente da molti, assumendo che gli ebrei erano troppo pochi e si erano fermati sul posto per troppo poco tempo per lasciare tracce riconoscibili. Una ipotesi impossibile da dimostrare, ma che in ogni caso non poteva neppure essere smentita con elementi di fatto.
Ma Anati non riteneva necessario entrare in polemica su questo punto. Il fatto è che gli ebrei non erano soli intorno al monte. Dalla Bibbia risulta chiaro che c’erano nell’area popolazioni permanenti. Da un lato i madianiti di Ietro, presso cui Mosè era vissuto a lungo; dall’altro gli amalechiti, proprietari del pozzo di Refidim, che avevano attaccato gli ebrei quando vi si erano accampati. Queste popolazioni dovevano necessariamente aver lasciato dei resti archeologici, attribuibili alla stessa età degli ebrei dell’esodo.
A questo punto c’erano soltanto tre ipotesi percorribili: la prima era che Har Karkom non avesse niente a che fare con gli ebrei e con Mosè, e che il monte Horeb fosse da ricercarsi da qualche altra parte. La seconda che la situazione cronologica delineata dai reperti archeologici ad Har Karkom andasse in realtà letta in altro modo. La terza, infine, che l’esodo fosse avvenuto non alla fine del bronzo recente, ma durante il primo periodo del bronzo medio, cioè mille anni prima.
La prima ipotesi fu ovviamente quella a cui i tradizionalisti si aggrapparono non appena Anati pubblicò i primi risultati delle sue ricerche. Essi, infatti, erano insorti immediatamente contro lo spostamento dell’epoca dell’esodo e naturalmente questo costituiva un ottimo pretesto per affossare anche l’idea poco gradita di uno spostamento del monte Horeb. Ma contro questa conclusione militava un semplice ragionamento. Se l’identificazione di Har Karkom con il monte Horeb doveva rifiutarsi per l’assenza di resti archeologici attribuibili al bronzo finale, lo stesso rifiuto doveva essere esteso a qualsivoglia altro monte dell’area del Sinai e del vicino deserto giordano e arabico.
Dalle ricerche archeologiche che venivano allora completandosi, infatti, risultava che la stessa identica situazione archeologica riscontrata da Anati ad Har Karkom si ripete in tutta l’area del Sinai e del vicino deserto giordano, con l’eccezione delle grandi piste carovaniere lungo la costa del Mediterraneo e le località oggetto di sfruttamento minerario, come le miniere di rame di Timnah, dove si ritrovano le sequenze tipiche della Palestina e del basso Egitto. Ma altrove l’assenza di reperti del periodo MB II e del bronzo recente è generalizzata e totale.
Il problema quindi non è specifico di Har Karkom, ma è comune a qualsiasi altro monte si voglia identificare con il Sinai. Har Karkom, però, è l’unico monte in tutta quest’area che presenta caratteristiche combacianti con quelle che risultano dalla narrazione biblica. Quindi delle due l’una: o la Bibbia non ha contenuto storico, e quindi il monte Horeb non è mai esistito in realtà e l’esodo non è mai avvenuto, oppure esso si deve localizzare nell’area di Har Karkom. E’ ovvio che non ci si può rassegnare alla prima ipotesi, senza aver verificato la possibilità della seconda.
L’ostacolo più grave è costituito dal problema cronologico. Anati cominciò con il prendere in considerazione l’ipotesi della persistenza delle culture del bronzo antico: “Le popolazioni che risiedevano nelle aree marginali, in molti casi, dovevano persistere nelle loro tradizioni senza essere affette in modo determinante dai mutamenti della cultura materiale dovuti ad episodi etnici, culturali e militari delle zone fertili[2]”. Ma gli sembrava inverosimile che tale persistenza avesse potuto protrarsi per quasi 1500 anni. “E’ ipotizzabile per questi territori una persistenza del modo di vita riflesso dal complesso BAC e dalla cultura materiale che lo caratterizza, oltre i limiti del Bronzo Medio I. Tale persistenza, però, non può riempire lo iato nella sequenza dei reperti. Nulla di quanto si è trovato può riferirsi alla tarda età del bronzo. Tutt’al più si potrebbe presumere una persistenza del complesso BAC nel periodo MB II A, al massimo fino al 18.mo secolo a.C. e ciò non risolve l’handicap cronologico.”[3]
Non rimaneva quindi che la terza ipotesi e cioè che l’esodo fosse avvenuto nel bronzo antico, mille anni prima della data tradizionale. Prima di proporla, però, Anati volle verificare che fosse compatibile con il testo biblico e con le risultanze archeologiche e storiche della regione. Trovò una lunga serie di elementi a conforto, che lo convinsero della bontà di questa ipotesi addirittura a prescindere dalla situazione archeologica di Har Karkom.
Cominciò, per esempio, con il rilevare le incongruenze fra la data tradizionale dell’esodo e le date accertate dall’archeologia per episodi narrati nel testo, come ad esempio la distruzione delle città di Arad, Gerico e Ai all’epoca di Giosuè. Nessuna di queste città presenta tracce di distruzione nel tredicesimo secolo, mentre tutte e tre sono state rase al suolo intorno al 2200 a.C., alla fine del bronzo antico. Questa data è caratterizzata, come abbiamo visto, da una serie di distruzioni generalizzate in tutta la Palestina, ad opera di un invasore ignoto. Anati trovava che l’epopea di Giosuè aveva in questa episodio una conferma archeologica perfettamente aderente al testo biblico, mentre non esistevano analoghi riscontri archeologici nella Palestina del XIII-XII secolo.
Anche alcune descrizioni di situazioni architettoniche e di costumi erano del tutto congruenti con questa ambientazione cronologica. Per esempio, nel libro di Giosuè viene descritta la casa della prostituta Raab edificata a ridosso delle mura di Gerico[4]. Questa, rilevò Anati, è una caratteristica esclusiva del terzo millennio. Egli mise in evidenza tutta una serie di altre indicazioni di questo genere, nonché di testi egiziani del terzo millennio, con precisi paralleli alla narrazione biblica, tendenti a dimostrare che la narrazione del Pentateuco contiene di per se stessa elementi sufficienti per ambientare l’esodo in un’epoca mille anni anteriore a quella tradizionale.[5]
Era una serie di elementi molto forti e convincenti, che uniti alle risultanze archeologiche di Har Karkom formavano un complesso formidabile, estremamente solido e apparentemente inattaccabile.
Ero partito in questa mia ricerca completamente appiattito sulle posizioni di Anati, per cui mi trovai in difficoltà quando mi resi conto che l’analisi dei dati riportati nel testo mi portavano a divergere da lui sulla questione fondamentale della cronologia. Ero perplesso e confuso. Ne discussi con lui, naturalmente. Mi consigliò di lasciar perdere la lettura diretta della Bibbia e di leggere prima i libri che parlano della Bibbia, fornendo criteri guida per la sua interpretazione. Cosa che feci. Fu allora che mi resi conto della posizione ufficiale del mondo scientifico nei confronti della cronologia biblica.
In effetti la visione di Anati era in linea con quella scientifica, nel senso che anche lui, paradossalmente, considerava il testo biblico come una traccia non vincolante e cercava nell’archeologia e nella storia elementi per risolvere il problema cronologico, senza tenere in conto alcuno i tempi interni del racconto biblico. E anche lui risolveva più o meno allo stesso modo i problemi che sorgevano in seguito alla “dilatazione” dei tempi biblici. Anche lui, infatti, come la maggioranza degli studiosi, vedeva in Abramo, Isacco e Giacobbe non tre persone singole, ma i prototipi di tre dinastie e di altrettanti periodi della storia ebraica.
Ovviamente Anati introduceva una serie di novità clamorose in questo campo, ormai da tempo assestato, dovute principalmente al fatto che lui si era occupato del problema non per esigenze di interpretazione del testo, ma perché spinto dalla necessità di risolvere problemi legati ad una precisa realtà archeologica. Questo comportava la necessità di spostare non soltanto il primo caposaldo della cronologia biblica, l’epoca di Abramo, fatto ormai acquisito dall’esegesi scientifica, ma anche il secondo, l’epoca dell’esodo.
I problemi interpretativi del testo che ne risultavano venivano risolti mediante l’applicazione dei criteri sviluppati per il periodo dei patriarchi anche ai successivi periodi dell’esodo e dei Giudici, i cui tempi venivano a dilatarsi enormemente. Anati poneva l’epoca di Abramo nel calcolitico; Mosè e l’esodo degli ebrei dall’Egitto nel Bronzo antico; Giosuè e l’invasione della Palestina all’inizio del Bronzo Medio. Seguiva l’epoca dei Giudici, che veniva dilatata per coprire il gap cronologico di circa 1200 anni fino ai tempi storici.
La narrazione biblica di questi libri veniva per Anati a simboleggiare quattro grandi periodi della formazione del popolo ebraico:
- il periodo formativo, simboleggiato dalla fuga di Mosè nel deserto, la sua presa di conoscenza del deserto e della montagna sacra ed il ritorno in Egitto;
- il periodo del nomadismo, dall’uscita dalla terra d’Egitto alla lunga permanenza a Cadesh Barnea;
- il periodo dell’insediamento periferico, simboleggiato dalla penetrazione delle tribù in Transgiordania, con le varie campagne di guerra che portano alla conquista del territorio;
- infine il quarto periodo, simboleggiato dalla conquista di Canaan e dall’epopea dei Giudici.
“Questi periodi, sostiene Anati, si inseriscono in un quadro ben più vasto, nel quale si riconoscono le ere culturali e sociali del mondo occidentale. Prima dei patriarchi: età della caccia e della raccolta dei frutti spontanei. Patriarchi: età tribale della incipiente produzione di cibo. Mosè (i nostri quattro periodi): età delle confederazioni di tribù con un grande capo politico e spirituale. I giudici: età della gestazione di entità politiche e territoriali. I Re: consolidamento del concetto di nazione”[6] .
Testo biblico visto come una allegoria dello sviluppo umano, dunque, privo di significato storico reale? Non esattamente. Anati aveva iniziato questa sua analisi del testo perché aveva scoperto una realtà archeologica che si adattava perfettamente ad esso e sembrava confermarlo. Fin da quando me ne aveva parlato la prima volta ero stato colpito proprio dal fatto che lui leggeva il testo biblico in senso letterale, esattamente come avrei fatto io in seguito. Conduceva le sue ricerche sul terreno con il testo alla mano e ricostruiva gli avvenimenti, basandosi strettamente su di esso: descriveva Mosè, seduto sul “trono” in cima alla collina dominante Beer Karkom, mentre osservava la battaglia contro gli amalechiti che si svolgeva nella piana sottostante. Ricostruiva gli itinerari secondo le indicazioni del testo; cercava le stele innalzate da Mosè ai piedi del monte, le tavole spezzate, l’oro versato nel wadi che scende dal monte e così via.
Simili contraddizioni erano inevitabili. Anati era preso fra due opposte esigenze: da un lato la realtà archeologica lo induceva a dilatare i tempi biblici, distruggendo così il senso letterale del testo. Dall’altro quella stessa realtà lo costringeva a leggere il testo biblico nel suo senso letterale. Non riuscivo a capire come avrebbe potuto uscire da questo dilemma. Lo sottovalutavo. La spiegazione che egli dava riusciva in effetti a salvare entrambi le interpretazioni. Secondo lui la Bibbia non era una raccolta di miti di significato allegorico, ma un insieme di episodi slegati, basati su una matrice effettivamente storica, che poi la tradizione popolare aveva “sintetizzato” inserendoli entro una cornice narrativa coerente.
In altre parole gli episodi narrati dalla Bibbia potevano essere considerati come delle “istantanee” che fissavano singoli attimi isolati di una lunga storia, “fotografando” una situazione esistente in un ben determinato stadio di sviluppo del popolo ebraico. I singoli episodi, quindi, considerati isolatamente, avevano contenuto storico reale, ma messi assieme non raccontavano una storia reale; descrivevano invece per immagini successive le varie fasi di sviluppo del popolo ebraico, ognuna di lunghezza indeterminata.
Mosè, ad esempio, aveva per Anati, contrariamente a molti studiosi della Bibbia, una realtà storica effettiva, ma non come personaggio singolo: erano varie persone, fisicamente e temporalmente separate. C’era il Mosè condottiero, che libera gli ebrei dalla schiavitù; il Mosè legislatore, che detta i comandamenti; il Mosè crudele e sanguinario, che stermina i madianiti e ordina lo “herem” (sterminio) per le popolazioni della Palestina; il Mosè misericordioso dei grandi discorsi di Deuteronomio. Tutti episodi veri, accaduti realmente, ma con protagonisti fisicamente diversi, che agivano in epoche assai lontane fra loro. Episodi che poi la tradizione popolare ha sintetizzato, attribuendoli ad un unico personaggio.
Una visione che non mancava certo di logica, ma che non riusciva a convincermi. Analizzai più e più volte la narrazione in questa prospettiva, ma la mia convinzione iniziale ne usciva sempre più rafforzata. La Bibbia racconta una storia compiuta, con una trama narrativa in cui i singoli episodi sono legati l’uno all’altro in maniera così coerente e consequenziale, sia dal punto di vista ambientale che da quello temporale, che non ha senso considerarli separatamente.
Riconoscevo che la posizione di Anati era un tentativo serio e ben strutturato di conciliare la visione sostanzialmente scettica del mondo scientifico, con una lettura più rispettosa del senso letterale del testo. Ma per quanto mi sforzassi, le due posizioni mi apparivano incompatibili fra loro. Non vedevo proprio come fosse possibile salvare il senso letterale del testo, e quindi la storia narrata dalla Bibbia, se se ne dilatavano i tempi.
Ci doveva essere quindi, a mio avviso, qualcosa che non tornava nella costruzione di Anati e nella sua analisi dei dati cronologici di Har Karkom. Il ragionamento di Anati non faceva una grinza e da un punto di vista archeologico non sembrava offrire alternative ragionevoli. Ma aveva un punto debole: il sistema cronologico si basava essenzialmente sul ritrovamento e la datazione di frammenti di terracotta trovati in superficie, in assenza di stratigrafie. Anati interpretava l’assenza di ceramica del bronzo medio ed inferiore come assenza di popolazione nel deserto durante tutto questo periodo. Una conclusione legittima, ma non certa, se priva del supporto di prove consistenti. Se i frammenti di ceramica fossero stati rinvenuti in strati inframmezzati da larghi strati sterili, ad esempio, la sua conclusione sarebbe stata inattaccabile. Ma qui non c’è stratigrafia.
Un elemento di prova molto forte si sarebbe avuto anche se fosse stato possibile dimostrare che le condizioni climatiche nel deserto del Sinai durante tutto il secondo millennio a.C. erano state tali da precludere ogni possibilità di sopravvivenza. Purtroppo non lo era. Gli unici dati disponibili erano le analisi paleoclimatiche relative a zone limitrofe, eseguite da Horowitz e altri [7], dalle quali risulta che effettivamente alla fine del terzo millennio le condizioni climatiche peggiorarono, ma non in maniera drammatica. Nella fase successiva, infatti, e per tutto il secondo millennio le condizioni climatiche risultano sostanzialmente simili a quelle odierne.
Anche testimonianze storiche o archeologiche comprovanti che le popolazioni del deserto erano state espulse alla fine del terzo millennio sarebbero state di grande conforto. Se Anati aveva ragione, popolazioni come gli amalechiti, i madianiti, gli idumei e i moabiti abitavano il deserto del Negev, il Paran e la valle Uvda già nel terzo millennio a.C. Dov’erano finite negli oltre mille anni durante i quali perdurarono le condizioni di invivibilità? Da qualche parte dovevano aver lasciato le proprie tracce; invece si erano eclissati, per ricomparire soltanto mille anni dopo, esattamente negli stessi territori desertici da cui, secondo l’ipotesi di Anati, dovevano essere stati espulsi più di mille anni prima.
L’esistenza di questi popoli nel deserto del Sinai è storicamente certa all’epoca dei re di Giuda e in seguito. Dove erano sopravvissute nel frattempo? Anati ammette francamente di non averne idea. “Non sappiamo dove siano finite, per un millennio, le popolazioni del deserto, scrive[8], anche se è presumibile che, abbandonandolo, si siano in gran parte rifugiate lungo i margini dei territori con insediamenti sedentari e nelle zone franche di essi.” Fra queste zone marginali Anati cita in particolare il nord del Negev, in particolare l’area di Beer Sheba e di Arad. “Qui,dice, vi sono tell, o resti di insediamenti stratificati e fortificati che coprono praticamente tutti i periodi. Si ha una successione ininterrotta di presenza umana. Questa fu anche zona di rifugio delle tribù del deserto, nei periodi in cui i territori più meridionali non erano vivibili.”
Il convivere di tanti popoli diversi, ognuno dei quali mantenne la propria identità per un così lungo periodo, in un’area così ristretta e per giunta in un’epoca di diminuite risorse alimentari, mi sembrava alquanto inverosimile. Ma c’era un punto, nel ragionamento di Anati, che mi lasciava particolarmente perplesso. Al termine di questo lungo periodo, intorno al mille a.C., quelle popolazioni dovevano essere tornate nel deserto, nei luoghi aviti; le loro tracce quindi dovevano essere evidenti ovunque. Ma bisogna arrivare al periodo romano-bizantino, prima di trovare resti archeologici diffusi in gran parte dell’area del Sinai. A quel tempo Idumei, amalechiti, moabiti e madianiti avevano già lasciato il posto ai nabatei quali signori del deserto. Dove erano vissuti nel frattempo?
In mancanza di testimonianze dirette, ci doveva essere per lo meno assenza di riferimenti storici a popolazioni viventi nel deserto durante il periodo considerato. Purtroppo, però, si verifica esattamente il contrario. Le cronache egizie del secondo millennio fanno spesso riferimento a popolazioni nomadi del Sinai. Tutmosi III, nel suo trentanovesimo anno di regno, effettuò la sua 14.ma campagna militare contro tribù beduine che dal Sinai facevano incursioni nell’Egitto nord orientale. Amenofi II catturò quindicimila beduini nel Sinai. All’epoca di Ramsess II un funzionario di frontiera dichiara di aver lasciato entrare in Egitto “una tribù di beduini provenienbti da Edom”. Ramsess III, agli inizi del dodicesimo secolo a.C. conduce una campagna militare nel Sinai contro i beduini del Monte Seir, che la Bibbia dice fosse possesso di Edom [9]. Il monte Seir è citato anche su un obelisco di Ramsess II, e delle tribù sashu, che vivevano “nel territorio di sabbia” del Sinai, sono cosparse le cronache delle dinastie XVIII, XIX e XX.
Se il “paese di Edom” e il “monte Seir” di cui parlano i documenti di Ramsess II e III sono gli stessi citati dalla Bibbia, e non si vede perché non dovrebbero, necessariamente essi devono trovarsi nei luoghi attraversati da Israele durante l’esodo e quindi, nonostante l’assenza di evidenze archeologiche, dovevano essere abitati almeno nei secoli XIII e XII a.C.
L’ipotesi di Anati, in definitiva, se da un lato semplificava l’interpretazione delle risultanze archeologiche e consentiva di basarsi soltanto sulla evidenza da loro fornita, dall’altro non veniva supportata da nessuna di quelle conferme che si poteva legittimamente attendersi in una situazione del genere ed anzi era apertamente contraddetta da un numero consistente di testimonianze storiche.
Fra l’altro mi sembrava in contraddizione con quanto Anati stesso aveva appurato in un suo celebre studio sull’arte rupestre del Sinai e del Negev, pubblicato immediatamente prima dell’inizio delle esplorazioni ad Har Karkom. In base a connessioni con la Mesopotamia e l’Egitto, Anati aveva stabilito che uno stile di incisioni molto diffuso in tutta l’area del Sinai, denominato stile IV-A, apparteneva al secondo millennio a.C.[10] Ad Har Karkom almeno il 50% delle quarantamila incisioni rupestri appartengono a questo stile. Successivamente erano emerse a Gerico e Tell Arad testimonianze che facevano risalire gli inizi di questo stile al terzo millennio[11], ma non invalidavano la precedente analisi di Anati; rendevano soltanto l’ipotesi dello spopolamento del deserto “compatibile” con la presenza di tante figure dello stile IV-A.
Ma se l’ipotesi dello spopolamento del deserto per oltre un millennio non era sostenibile, come si spiegava allora la situazione archeologica riscontrata ad Har Karkom e nel resto del deserto del Sinai?
Non essendo archeologo non pretendevo di trovare una spiegazione di tipo archeologico. Cercavo una giustificazione ragionevole da un punto di vista logico. A mio avviso i semplici contatti fra popolazioni diverse non erano in grado di modificare la cultura materiale delle une o delle altre. Per questo occorreva il trasferimento fisico di una popolazione da una località ad un’altra, con il trasferimento e l’imposizione ai locali di nuove tecniche di produzione. L’assenza di reperti del bronzo medio e recente nel deserto, quindi, poteva essere giustificata con il fatto che durante questo periodo non c’era stato trasferimento di popolazione dalle zone fertili al deserto. E mi pareva che proprio il peggioramento climatico, verificatosi al passaggio fra il terzo ed il secondo millennio, potesse spiegare questo fatto.
Se da un lato, infatti, non era in grado di giustificare l’espulsione delle preesistenti popolazioni dal deserto, dall’altro poteva spiegare come mai le popolazioni delle zone fertili, dove nel frattempo si succedevano le varie fasi dell’età del bronzo, non fossero attirate dal deserto. Le risorse idriche e alimentari, infatti, erano diminuite e potevano consentire la sopravvivenza soltanto di popolazioni altamente specializzate alla vita del deserto. I primitivi abitanti del deserto, quindi, ormai adattati da secoli a quell’ambiente, poterono far fronte al graduale inaridirsi del clima e sopravvivere. Non era escluso poi che l’inaridimento del clima avesse portato all’abbandono puro e semplice della terracotta per la costruzione di utensili quotidiani.
Popolazioni provenienti dalle regioni fertili, invece, semplicemente non possedevano la tecnologia necessaria per la sopravvivenza in quelle condizioni e non potevano competere con le antiche popolazioni locali. Queste ultime, d’altro canto, dovevano resistere ad ogni tentativo di penetrazione dall’esterno, per difendere le scarse risorse a loro disposizione. Ed infatti la Bibbia riporta che gli ebrei dell’esodo, non appena abbandonarono la pista principale e penetrarono in un territorio non loro, furono immediatamente attaccati dagli amalechiti, che tentarono di espellerli. E furono nuovamente attaccati più tardi a Cades Barnea[12].
Questo poteva spiegare il persistere dei vecchi tipi di terracotta, o per lo meno il non ritrovamento dei nuovi tipi che nel frattempo facevano la loro comparsa nelle zone fertili. Solo lungo le carovaniere e nei luoghi soggetti a sfruttamento minerario da parte degli egizi, popolazioni provenienti da queste ultime lasciarono resti delle epoche che venivano maturando e susseguendosi nelle zone fertili. Reperti diversi dal BAC, quindi, erano secondo questa mia ipotesi, dovuti a persone che entravano nel deserto non per abitarvi, ma per altri scopi, o in transito o per sfruttamento minerario o per altri scopi di breve durata. Le popolazioni residenti, invece, o continuarono ad usare i vecchi tipi di ceramica, o avevano smesso del tutto di impiegarla e quindi non lasciarono cocci databili alla loro epoca.
Prove? Nessuna, ovviamente; ma l’unica alternativa a questa ipotesi era l’altra appena rigettata, il che significa che non avevo alternative; questa, per lo meno, non aveva prove dimostranti il contrario.
Rimaneva il problema degli Ebrei. Come mai non avevano lasciato ceramiche databili alla loro epoca? Stando alla Bibbia essi dovettero fermarsi ad Har Karkom per quasi un anno. Molti dovevano essere semplicemente attendati. E’ probabile che molti altri abbiano riutilizzato strutture preesistenti, non solo perché esistevano già, ma anche perché si trovavano nei luoghi più adatti per vivere. Ma un buon numero di essi doveva aver creato strutture con caratteristiche di permanenza: dopotutto non ci voleva molto per costruire muretti a secco, vista l’abbondanza di materiale esistente.
Per gli ebrei il discorso della persistenza non vale. Essi venivano dall’Egitto, dalla terra di Gosen, la “più fertile di tutto l’Egitto”. E prima ancora erano stati nella Palestina centrale. Non avevano mai vissuto nel deserto. Se avevano con sé oggetti di terracotta, questi dovevano necessariamente appartenere al tipo in uso in Egitto nel bronzo finale. Nella maggioranza delle strutture da loro occupate, quindi, dovevano esistere frammenti di ceramica appartenenti a questo periodo: non è pensabile, infatti, che nel corso di un anno non avessero rotto qualche vaso o altre stoviglie di terracotta.
A meno che … gli ebrei non fossero totalmente sprovvisti di oggetti di questo tipo. Possibile che non facessero uso di terracotta? Feci una ricerca accurata nel testo del Pentateuco, facendo un inventario di tutti gli oggetti di uso comune in possesso degli ebrei, nominati nel testo. Trovai citazioni di tende, coltelli, lance e spade di bronzo, piatti e vasi di metallo, di rame, argento e oro, vesti e stoffe di lana e fibre vegetali, sacchi, otri, pelli, bastoni e cofanetti di legno. Ma non trovai mai citato un oggetto di terracotta, all’infuori di una brocca utilizzata da Rebecca per attingere acqua al pozzo (Gn.24,15). Ma era ad Harran, in Mesopotamia, prima di recarsi in Palestina per sposare Isacco. Fra gli ebrei dell’esodo non viene mai citato alcun oggetto del genere.
Era un buon segno, nella direzione giusta. Un chiaro indizio a favore del fatto che gli ebrei non possedessero oggetti di terracotta. Ma come esserne certi? L’ideale sarebbe stato di poter individuare fra gli insediamenti BAC quelli che erano stati sicuramente costruiti e abitati soltanto dagli ebrei e vedere che tipo di reperti vi avessero lasciato. Impossibile? Non proprio. Per alcune di queste strutture non ci sono ragionevoli alternative all’ipotesi che siano state costruite proprio dagli ebrei dell’esodo.
Vedi: I siti a plaza
[1]
Vedi in Anati gli autori delle datazioni
[2]
E. Anati, Har Karkom, Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaka Book , pag.
32
[3]
E. Anati, Har Karkom, Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaka Book , pag.
193
[4]
Giosuè, cap 2
[5]
E. Anati, Har Karkom, Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaka Book, capp.
citare
[6]
Ibidem, pag. 198
[7]
Bibliografia pag 344 di La Montagna di Dio -
A.. Horowitz e J.R. Gat, Floral and
isotopic indications for possible summer rains in Israel during wetter
climates, in Pollen et Spres,
Alon, 1976; Baruch, 1983; Horowitz - parecchie
pubblicazioni
[8]
E. Anati, Har Karkom, Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaka Book , pag.
196
[9]
Vedi mio libro per citazione
[10]
E.Anati, l’arte rupestre del Negev e del Sinai, Jaca Book, 1979; pag 28
[11]
E. Anati, Har Karkom, Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaka Book , pag.
102
[12] Nm.14,45; Dt. 1,44