Chiarito in via definitiva che la famiglia sacerdotale ebraica discende da Mosè e solo i suoi discendenti hanno diritto al titolo di sacerdoti, conviene riassumere brevemente le vicende di questa famiglia, senza l’onere di cercare le prove, partendo dallo stesso Mosè.
E’ la storia di una grande famiglia, che si innesta nella storia di un’altra grande famiglia, quella di Giacobbe. Giacobbe era nipote di Abramo, il quale, stando alle indicazioni e genealogie fornite dalla Bibbia, apparteneva ad un grande casato di antica nobiltà, il cui albero genealogico annoverava capostipiti e capi di tutti i popoli del Medio Oriente. La sua storia come popolo a se stante ebbe inizio quando lasciò la Mesopotamia, dove aveva trovato rifugio per venti anni presso la sua famiglia d’origine, e rientrò in Palestina, a capo di una piccola tribù. Qui gli fu conferito un nuovo nome, Israele, che da allora in poi sarebbe rimasto a designare l’intera sua discendenza.
Israele rimase in Palestina per poco più di trent’anni, durante i quali aumentò in ricchezze e numero, incorporando fra l’altro la popolazione di Sichem, distrutta da Levi. La struttura e l’organizzazione sociale della tribù erano semplici e lineari. Al vertice c’era Giacobbe ed i suoi figli, che costituivano la classe nobiliare, gli “elef”, ovverosia i “capi” della tribù, collettivamente proprietari di tutti suoi beni; al di sotto stavano i servi, che erano proprietà degli elef al pari del bestiame e degli altri beni.
Quando Giacobbe migrò in Egitto, gli elef, costituiti da tutti i suoi figli, nipoti e pronipoti maschi, erano in numero di 72 (Gn.46, 8-26). Costituivano ancora una singola tribù (a parte Giuseppe, che era ormai accasato per conto proprio), che doveva contare almeno un paio di migliaia di persone, contando anche i servi. Quattro generazioni dopo, al momento dell’Esodo, le tribù erano diventate tredici e gli elef, vale a dire i discendenti diretti di Giacobbe, erano circa 600, a capo di una popolazione che complessivamente non doveva superare le 30.000 unità (vedi: Numero degli Ebrei dell’Esodo).
Costituivano la classe nobiliare del popolo di Israele alle sue origini, in Egitto. Poco più di mille anni dopo, in Palestina, di essa era stato smarrito anche il ricordo. Giuseppe Flavio, infatti, annota con orgoglio che al suo tempo la classe nobiliare nel popolo di Israele era costituita dai sacerdoti, che abbiamo visto essere discendenti di Mosè. Ma del loro capostipite non si può certo dire che fosse nato nobile.
Sull’origine di Mosè sono state dette infinite cose e gli sono stati attribuiti svariati natali, fra cui quello di principe egizio, fratello addirittura di Ramsess II. Quel che si può dire di queste ipotesi è che sono frutto di pura fantasia. Non si può neanche presumere che contengano una qualche informazione attendibile, tramandata oralmente, perché si tratta di leggende sorte almeno mille anni dopo. L’unica fonte di informazioni sull’origine di Israele è la Bibbia. E l’unica certezza che la Bibbia ci dà in merito a Mosè è che fosse ebreo, appartenente alla tribù di Levi.
Quanto ai suoi natali essa fornisce due diverse versioni, che sono contrastanti su un punto fondamentale, quello della madre. In Esodo 2,1-2 si dice che “un certo uomo della casa di Levi andò e prese una figlia di Levi. E la donna rimase incinta e partorì un figlio.” Trattandosi del fondatore della nazione ebraica, appare abbastanza incredibile che i suoi genitori vengano trattati in questo modo, senza neppure un nome.
Significa inequivocabilmente che c’era qualcosa di non riferibile nell’atto di nascita del nostro eroe: o era di condizione servile, figlio di genitori di cui non era stato tramandato il nome, oppure era un illegittimo, figlio di un “elef” della tribù di Levi e di una donna ignota di condizione servile. Il fatto che sia cresciuto in ambiente egizio, verosimilmente al servizio di un qualche tempio (1), avvalora la seconda ipotesi.
Poco più avanti, in Esodo 6,20, si legge: “Amram prese in moglie Iochebed, sorella di suo padre. Ella gli partorì Aronne e Mosè”. Quasi certamente il nome di Mosè è stato aggiunto successivamente a questo versetto, proprio allo scopo di fornirgli dei genitori legittimi e presentabili. Non è possibile, infatti, che Iochebed possa identificarsi con la donna innominata di (Es. 2,1). Iochebed era figlia dello stesso Levi, nobile, sposata regolarmente a suo nipote Amram, che in quanto “elef” era dotato di larghi mezzi di sussistenza.
Non è ipotizzabile alcuna ragione per cui avrebbe dovuto disfarsi del suo secondo figlio maschio e farlo allevare in casa egizia, a meno di un voto per grazia ricevuta, che l’avrebbe obbligata a dedicare il figlio ad un qualche tempio, come sarebbe accaduto in seguito per Samuele. Ma si tratta in ogni caso di un’ipotesi gratuita, non più fondata di altre consimili. Ed in ogni caso mai si sarebbe offerta come nutrice in casa egizia. I dati forniti dalla Bibbia non lasciano molte alternative ad un’origine servile o illegittima di Mosè.
Come egli da una condizione simile sia arrivato ad impadronirsi del potere sul popolo ebraico è scritto nella Bibbia e l’ho descritto in un libro precedente. Con l’aiuto di Aronne, che il versetto Es. 6,20 (ripetuto in Nm. 26,59) cerca di far passare per suo fratello maggiore, egli riesce a trascinare Israele fuori dall’Egitto e a trasformarlo da un’accozzaglia di tribù in un popolo unito, imponendogli una legge ed una gerarchia religiosa, e preparandolo militarmente per una guerra di conquista della Palestina.
Una volta consolidato il potere, la più grande preoccupazione di Mosè fu quella di assicurare l’avvenire dei suoi discendenti. Anche qui c’era un ostacolo enorme da superare, costituito da un “vizio” di origine molto grave agli occhi di quella società: Mosè aveva sposato una madianita e i suoi figli dovevano essere considerati a tutti gli effetti madianiti.
Avevano cominciato per primi lo stesso Aronne e sua sorella Myriam a contestare la legittimità di quella sua moglie madianita, non appena lo aveva raggiunto nel deserto del Sinai ( Es. 12). Mosè reagì immediatamente in maniera forte: relegò Myriam fuori dal campo per un’intera settimana e redarguì pubblicamente Aronne, umiliandoli di fronte all’intera Israele. Fece in tal modo capire chiaramente che non tollerava il minimo dissenso in merito al diritto della sua famiglia ad avere parte nelle vicende di Israele.
Tutta la sua azione successiva fu volta ad assicurare che questo diritto fosse inattaccabile per sempre: la sua famiglia doveva primeggiare su Israele fino alla fine dei tempi. Ma doveva assicurare ai suoi discendenti un futuro di abbondanza, cosa inattuabile se Israele fosse stata costretta per sempre a stentare la vita nel deserto.
Per prima cosa doveva assicurare il possesso di un territorio pingue, dove scorrevano il latte e il miele e dove il popolo avrebbe potuto moltiplicarsi e prosperare. Affidò il compito della preparazione militare e della condotta delle operazioni di conquista a Giosuè, che aveva dato prova delle sue capacità militari nella campagna contro gli amalechiti, ed era uomo di assoluta fedeltà nei confronti di Mosè e della sua famiglia.
A lui Mosè affidò il compito di assicurare l’effettiva transizione del potere alla propria famiglia una volta che la conquista della Palestina fosse stata effettuata. A tal fine Mosè lasciò una serie di disposizioni molto rigide nel suo ultimo grande discorso, riportato in Deuteronomio.
Come prima e più importante disposizione, stabilì che tutti i suoi discendenti ed essi soltanto fossero sacerdoti di Jahweh e raccomandò fedeltà assoluta da parte di Israele a questo Dio, minacciando pene terribili a chi si allontanava da esso.
Stabilì i doveri dei sacerdoti nei confronti di Jahweh e quelli del popolo nei confronti dei sacerdoti, che dovevano essere posti in grado di assolvere ai propri compiti, mediante il versamento di appositi tributi e offerte.
A tale scopo raccomandò che appena completata la conquista di un territorio vi fosse edificato un tempio, dove i sacerdoti avrebbero sacrificato a Jahweh gli animali offerti dal popolo.
Stabilì infine una norma fondamentale per evitare il rapido frazionamento del popolo di Israele e la dispersione della propria famiglia, e cioè che il luogo di culto a Jahweh, il tempio dove venivano consumati i sacrifici, fosse “unico”. A quello soltanto, controllato dalla propria famiglia, dovevano affluire le offerte del popolo e a nessun altro concorrente, in nessuna altra parte del mondo. Quel tempio era lo strumento che doveva assicurare potere e prosperità ai discendenti Mosè per tutti i tempi a venire.
Giosuè eseguì fedelmente le istruzioni di Mosè e prima di ritirarsi a vita privata ribadì con forza le disposizioni riguardanti la fedeltà a Jahweh ed il luogo di culto unico. Con il suo ritiro a vita privata il potere politico passò, com’era nella logica delle cose, all’autorità egizia che controllava la Palestina, mentre quello religioso, con le offerte e prebende che comportava, rimase alla famiglia di Mosè, che nel frattempo aveva edificato il primo tempio di Israele a Silo, su un “Mispah”, vale a dire su un’altura dominante, più o meno al centro dell’area conquistata, che da allora fu noto anche con il nome di Bet-El (casa del Signore).
Era il sistema organizzativo classico dell’Egitto, dove il potere politico era detenuto dal faraone, che governava per mezzo di suoi funzionari, detti visir, mentre il potere religioso era detenuto dai vari templi, retti ognuno da una casta sacerdotale, dedicati alle numerose divinità egizie, ciascuno dei quali riceveva tributi da una parte della popolazione. Come sempre, in tempi di debolezza del potere politico, i compiti e prerogative di quest’ultimo venivano assunti dalla classe sacerdotale.
Il primo titolare del tempio di Silo, sommo sacerdote di Israele succeduto al padre Mosè, fu Ghersom, soprannominato “Kusan” dal suo paese di origine nella regione di Madian. Era odiato e disprezzato, non soltanto per le sue origini madianite, ma anche a causa di alcuni fatti di sangue raccapriccianti di cui era stato protagonista. Non risulta tuttavia che il suo diritto al sacerdozio ed al primato religioso sia mai stato messo in discussione.
Durante il suo pontificato uno dei suoi figli, Gionatan, istituì, in apparente violazione delle disposizioni impartite da Mosè, un “santuario” a Dan, che rimase comunque collegato a Silo. Non è chiaro che genere di santuario fosse. Molto probabilmente era un luogo di culto analogo alle sinagoghe odierne, dove non venivano eseguiti sacrifici, che erano riservati a Silo.
Gli succedette il figlio Shebuel, nato quasi certamente nel deserto del Sinai, quando la famiglia sia era già riunita a Mosè. Aveva trascorso i primi anni della sua vita in compagnia del grande nonno ed aveva assistito, bambino, alla sua ultima giornata, narrata in Deuteronomio.
Di lui e del sommo sacerdozio esercitato a Silo non sappiamo nulla. A lui, forse, dobbiamo la raccolta di scritti da cui ebbero origine i libri di Giosuè e parte di quello dei Giudici. Gli succedette il figlio Eli, che compare sulla scena nel primo libro di Samuele quale sommo sacerdote di Silo, spogliato completamente dei suoi antenati.
Sul piano religioso questo periodo, che passa sotto il nome di periodo dei Giudici, appare tranquillo e privo di serie contestazioni, anche se la famiglia sacerdotale è tutt’altro che popolare. Silo prospera, grazie alle offerte che vi affluiscono da tutto Israele, e con esse la famiglia sacerdotale. Sul piano politico la situazione invece è più complessa, anche se non così caotica come una lettura superficiale del libro di Giudici indurrebbe a ritenere.
Il periodo sembra dominato dai cosiddetti “giudici”, un appellativo generico che accomuna un gruppo eterogeneo di personaggi che normalmente hanno ben poco a che spartire l’uno con l’altro. E i fatti di cui sono protagonisti sono normalmente banali per quell’epoca e marginali al popolo di Israele, dal momento che di norma coinvolgono singole tribù o addirittura singoli personaggi. Non sono tali, quindi, da turbare i sonni dei sommi sacerdoti che da Silo primeggiano sul paese.
L’unico episodio narrato dal libro che coinvolge direttamente la famiglia sacerdotale è quello riportato negli ultimi capitoli, relativo al quasi annientamento della tribù di Beniamino.
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(N1) La Bibbia riferisce che fu raccolto dalla “figlia del faraone”. E’ escluso che si tratti del sovrano dell’Egitto, che in Esodo viene indicato appunto come il “re dell’Egitto”. Faraone era il termine attribuito dalla Bibbia a ogni funzionario egizio di alto rango. Le conoscenze di Mosè in campo religioso e legislativo lasciano presumere che sia stato educato in un tempio (come più tardi Samuele). Giuseppe aveva sposato la figlia del gran sacerdote del tempio di Eliopoli, Potifare; è presumibile quindi che i rapporti degli ebrei con questo tempio fossero consueti e che ragazzi ebrei vi fossero ammessi al servizio.