Dopo un anno e mezzo di assedio, il nono giorno del quarto mese dell’undicesimo anno del regno di Sedecia (597-586), il generale babilonese Nebuzardan aprì una breccia nelle mura di Gerusalemme ed irruppe nella città (Ger. 39, 2 - 2 Re 25,2).
Il re Sedecia fuggì nella valle del Giordano, insieme ai suoi familiari ed ai maggiorenti della città, civili e militari. Nebuzardan si mise all’inseguimento dei fuggiaschi e li catturò prima che potessero raggiungere i guadi di Adama. Contemporaneamente rastrellò la città palmo a palmo, catturando tutte persone di spicco, in primo luogo i sacerdoti, a cominciare dal sommo sacerdote Seraià, con la sua famiglia al completo.
Poi condusse i prigionieri a Riblah, città posta sul fiume Oronte, al confine tra il Libano e la Palestina, dove il re di Babilonia Nabuccodonosor aveva posto il suo quartier generale per la condotta della guerra contro L’Egitto e Gerusalemme.
Soltanto un mese dopo, nel settimo giorno del quinto mese (2 Re 25,8) Nebuzardan iniziò la distruzione sistematica della città, del suo tempio e delle sue mura. Per tutto quel mese nessuno potè entrare od uscire dalla città, presidiata dalle truppe babilonesi, tranne una persona: Geremia.
Geremia viene spesso dipinto come un povero diavolo, senza arte né parte, profeta inascoltato di sventure, tanto che le sue ammonizioni sono diventate proverbiali, sotto il nome di “geremiadi”. Ma è un’immagine non corretta del personaggio. Geremia era di famiglia sacerdotale, “figlio di Chelkia, dei sacerdoti di Anatot” (Ger.1,1) discendenti del sommo sacerdote Ebiatar, che Salomone aveva escluso dal servizio del Tempio e mandato in esilio ad Anatot, per aver sostenuto il rivale Adonia nella successione a Davide.
Alla morte di Salomone il suo regno si divise nuovamente in due: Israele al nord, con capitale Samaria e il re Geroboamo; Giuda a Sud, con Gerusalemme capitale, sotto il re Roboamo, figlio di Salomone. Anatot, come si premura di precisare il redattore del libro di Geremia (Ger. 1,1) era nel territorio di Beniamino, che in un primo tempo entrò a far parte del regno di Geroboamo (1 Re 12,20). La famiglia sacerdotale di Anatot esercitò quindi il sacerdozio nel regno di Israele e fu deportata ad Assur, in Mesopotamia, quando il regno fu distrutto dagli Assiri. E infatti Geremia era nato a Libana (2 Re23,31; 24,18), nome assunto dalla città di Assur dopo la caduta dell’impero assiro per mano dei babilonesi.
Uomo di fiducia del re babilonese, Geremia era stato inviato a Gerusalemme per garantire la fedeltà del regno di Giuda. Non a caso lo incontriamo per la prima volta nella Bibbia alla corte di Gerusalemme, intento a comporre un canto funebre per la morte di re Giosia (2 Cro. 35,25), nel 609 d.C.
La sua presenza a Gerusalemme non era fortuita. Sua figlia Camutal, infatti, aveva sposato il re Giosia, il restauratore del Tempio di Gerusalemme e della fede javista dopo la morte dell’empio Manasse, e ben due dei suoi figli (nipoti di Geremia, quindi), divennero re di Giuda. Alla morte di Giosia, ferito mortalmente in battaglia mentre cercava di sbarrare il passo al faraone Necao, che intendeva assalire Babilonia, gli succedette Joacaz, figlio di Camutal, nipote di Geremia.
Joacaz regnò per soli tre mesi, dopodiché venne catturato da Necao e deportato in Egitto. Gli succedette Ioaqim (609-598), figlio di Giosia e della seconda moglie Zebida, che rimase fedele a Babilonia. Suo figlio Ioakin (598-597), invece, si ribellò ai babilonesi, ma venne sconfitto e deportato in Mesopotamia, insieme a gran parte della popolazione di Gerusalemme. Anche il tempio fu completamente spogliato dei suoi tesori, che furono trasportati a Babilonia.
Al posto di Ioakin il re babilonese insediò Sedecia (597-586), altro figlio di Camutal, che fu l’ultimo re di Giuda. Dopo alcuni anni anche Sedecia si ribellò a Nabuccodonosor, nonostante le violente proteste ed ammonizioni del nonno Geremia.
Quando Gerusalemme fu assediata dalle forze babilonesi, Geremia non cessò un istante di esortare il nipote ad arrendersi. Questo, ovviamente, gli valse l’inimicizia dei consiglieri di Sedecia e l’accusa di tradimento. Fu gettato dentro una cisterna (Ger. 38,6 seg), dove languì per parecchi giorni e vi sarebbe sicuramente morto, se non fosse stato per l’intervento di un certo Ebed-Melech, che intercedette presso il re e col suo permesso lo tirò fuori di lì. Geremia, comunque, non fu liberato, ma “rimase nell’atrio della prigione fino al giorno in cui fu presa Gerusalemme.” (Ger 38,28).
Ebed-Melech era un “cushita”, termine che la maggior parte delle versioni traduce con “etiope”, mentre in realtà si trattava di un madianita (1) , della stessa tribù cui era appartenuto Ietro, suocero di Mosè; un fatto che ha molta importanza per spiegare gli avvenimenti successivi.
Quando era ancora rinchiuso nell’atrio della prigione, Geremia mandò a chiamare Ebed-Melech (Ger 39,15-18) e, preannunciandogli la caduta di Gerusalemme, gli promise salva la vita. Perché? Semplice riconoscenza? Ci sta, ma non può essere soltanto questo. La storia del nonno del re che viene salvato da morte sicura grazie all’intercessione di un ignoto cushita, uno straniero, certamente senza alcun peso a corte, suona sospetta.
Ebed-Melech aveva certamente agito per conto di qualcuno che il redattore del libro non voleva nominare. E il fatto che gli venga dato tanto rilievo significa che aveva svolto un ruolo di una certa importanza, anche se non dichiarato.
L’incarico gli era stato affidato senza alcun dubbio dal sommo sacerdote in persona, Saraja, che aveva in custodia gli oggetti sacri del Tempio. Prevedeva che sarebbe presto caduto prigioniero dei babilonesi, ma sapeva che Geremia, in quanto uomo di fiducia di Nabucodonosor, sarebbe stato risparmiato e liberato. Decise quindi di affidare a lui l’incarico di nascondere quegli oggetti in modo che non cadessero in mano al nemico, confidandogli il grande segreto della cripta sul monte Horeb, nonostante non fosse autorizzato a conoscerlo.
Il monte si trovava in territorio madianita, più precisamente in quello della tribù dei cushiti (nota). Seraià dette istruzioni dettagliate a Geremia sul come trovare la caverna, ma non era in grado di indicargli come raggiungere il monte, sperduto nel deserto del Sinai. Per questo gli mise a disposizione il cushita Ebed-melek, per fargli da guida.
La cose andarono come previsto. Nabuzardan irruppe in Gerusalemme “il nono giorno del quarto mese”. Ma fu soltanto un mese dopo, “il settimo giorno del quinto mese”, che egli procedette alla distruzione sistematica della città, delle mura e del Tempio.
Fu durante questo mese che Geremia si recò al monte Horeb e fece poi ritorno a Gerusalemme. Egli godeva infatti di piena libertà di movimento. “ non fargli alcunché di male; anzi, come ti dirà così agirai nei suoi riguardi” era stato l’ordine perentorio di Nabucodonosor al suo generale, e Geremia ne approfittò per portare a termine la sua missione segreta.
I tempi tornano. Il monte si trovava a “undici giorni di cammino dalla valle del Giordano”, dodici da Gerusalemme.Venticinque giorni furono sufficienti per andare e tornare.
Ebed-melek guidò Geremia al monte Horeb; insieme a loro c’era anche Baruc, un sacerdote fedele compagno di Geremia, che gli fu al fianco per tutta la vita. Geremia e Baruc salirono da soli sul monte, lasciando i loro accompagnatori ad una certa distanza, quasi certamente al pozzo di Beer Karkom; trovarono la caverna, vi nascosero gli oggetti sacri del tempio e ne richiusero accuratamente l’ingresso, dopodiché fecero ritorno a Gerusalemme.
In seguito, come c’era da aspettarsi, Ebed-melek e gli altri accompagnatori tornano indietro per cercare la caverna, sicuri che doveva contenere qualcosa di molto prezioso, ma non riuscirono a trovare l’ingresso, tanto bene era nascosto. Geremia, saputolo, li rimproverò dicendo: il luogo deve restare ignoto, finché Dio non avrà riunito la totalità del suo popolo e si sarà mostrato propizio.
Mentre Geremia era in viaggio per il monte Horeb, a Riblà Nabucodonosor ”giudicava il gran sacerdote Saraja, e il secondo dopo di lui, Sofonia, e i grandi, ch’erano custodi del Tempio, e furono tre, … e il re comandò ch’ivi medesimo fosse mozzato il capo al pontefice e ai grandi” (Giuseppe Flavio “Antichità giudaiche”, libro X, cap XI, VI ). Sembra da escludere che in quelle circostanze abbiano potuto trasmettere importanti segreti a qualcuno di fiducia. Certamente non all’erede del pontificato, Giosedec, che all’epoca era ancora un fanciullo.
Con la loro morte nessuno più fu a conoscenza dell’esatta ubicazione della caverna del tesoro. A parte Geremia e Baruc, ovviamente, che però dal canto loro non lo confidarono mai a nessuno, come provato dalle parole di Geremia ai suoi ex accompagnatori sul monte. Il segreto dell’ubicazione della caverna del tesoro morì con loro.
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