Per capire gli avvenimenti del Sinai e il comportamento di Mosè, bisogna cercare di scoprire quale fosse il movente delle sue azioni. Mosè conquistò il controllo delle tribù israelite con determinazione e ferocia, passando sul cadavere di chiunque avesse tentato di contrastarlo. Non sembra, tuttavia, si possa dire che per lui il potere costituisse l'obiettivo finale: era soltanto un mezzo per raggiungere un qualche altro scopo.
La riconquista del principato di Ebron, in Palestina? Certamente no. A lui personalmente la cosa non interessava, al punto che mise in atto un piano complicato e rischioso per poter rimanere nel deserto del Sinai fino alla propria morte.
Lo muoveva l'ambizione di fondare una nuova religione? Anche questo sembrerebbe da escludere. I fondatori di religioni si rivolgono all'umanità intera, predicano principi universali. Gli interessi di Mosè, invece, erano circoscritti esclusivamente al popolo ebreo; egli si limitò a costruire un tempio, sul modello di quelli egizi, con una sua divinità particolare, esclusiva di quel popolo, senza ambizioni di proselitismo, con beni e rendite e un corpo di leggi sue proprie. L'unica differenza rispetto ai templi egizi di quel periodo è che il tempio di Mosè era mobile.
Si deve concludere che il tempio e la religione furono per Mosè non un obiettivo, ma semplicemente un mezzo per conquistare e mantenere il potere.
A che gli serviva allora il potere? Non rimane che una spiegazione: la sua ambizione ultima doveva essere quella di avere una tomba degna di un faraone. E’ difficile, per un moderno, arrivare a capire come un'ambizione del genere potesse dominare il pensiero di un uomo e muovere ogni sua azione. Ma è fuori dubbio che nell'Egitto di allora l'esigenza di una tomba era talmente forte da muovere letteralmente le montagne; le piramidi ne sono la dimostrazione più lampante.
Mosè, come si è visto, era cresciuto in casa di un alto funzionario egizio, certamente ossessionato dall'idea della propria tomba. Ma lui, il trovatello ebreo, non aveva diritto a una sepoltura; non aveva diritto a una vita dignitosa nell'oltretomba. C'è da stupirsi se aveva deciso di rovesciare questo ingiusto verdetto del destino e di conquistarsi nell'aldilà una posizione degna di un sovrano? Era sufficiente che si costruisse una tomba come quella di un faraone. Aronne, il suo amico d'infanzia, il fedele alleato della prima ora, la pensava come lui.
Sembrerebbe che il modo migliore per assicurarsi una tomba adeguata fosse quello di riconquistare il principato di Ebron, appartenuto a suo tempo ad Abramo; se non altro avrebbe potuto utilizzare la tomba che il patriarca aveva acquistato, a Macpelà (Gn. 23, 16) .
Ma Mosè aveva un cervello di prim'ordine e non è pensabile che si illudesse di poter conquistare un Paese potentemente armato e difeso, servendosi di un popolo materialmente e moralmente disarmato. Realisticamente doveva aver valutato che occorrevano anni e anni di preparazione. Lui, però, non aveva più tanto tempo a disposizione e in ogni caso la conquista non sarebbe stata priva di rischi: non poteva aspettare, né voleva correre rischi.
E d'altra parte, nonostante le apparenze, amava il suo popolo, era leale verso i suoi compagni ed era seriamente intenzionato a mantenere le promesse fatte. Mise dunque a punto un piano che consentisse di soddisfare tutte queste esigenze.
Riprendiamo il filo dal giorno in cui Giosuè tornò dalla sua ricognizione in Palestina. Tutto sembra accadere secondo un copione prestabilito. Gli esploratori, ad eccezione di due, seminarono lo sconforto nel popolo, e nacque qualche tumulto. I dieci disfattisti furono immediatamente messi a morte e Mosè ebbe facilmente ragione del tumulto, ma lo prese a pretesto per dichiarare che quella generazione non avrebbe mai visto la Palestina.
Mosè si dovette rendere conto che nessuno di quella generazione, cresciuta al servizio degli Egizi e nel timore reverenziale delle loro armi, possedeva lo spirito, l'addestramento e la determinazione necessari per intraprendere una guerra di conquista; bisognava attendere che le nuove generazioni, che non avevano conosciuto la servitù, crescessero fiere e indipendenti, libere da ogni complesso e animate da un forte spirito guerresco. Loro, e non la generazione uscita dall'Egitto, avrebbero conquistato la Terra Promessa. La ragione vera delle parole di Mosè in Numeri 14,33 e Deuteronomio 1,39 non può essere altra che questa.
La questione della conquista fu in tal modo accantonata. Il piano di Mosè era audace, ma non suicida. Non è neppure lontanamente immaginabile che partisse alla conquista di un territorio forte-mente presidiato non solo dalle popolazioni locali, ma anche da guarnigioni egizie, pensando di sbaragliarle con qualche migliaio di uomini male armati e peggio addestrati. Per quanto scarsa fosse la sua preparazione militare, ne sapeva pur sempre abbastanza per capire che quella masnada di pastori sarebbe stata dispersa da poche decine di carri da guerra. Realisticamente dovette valutare che le possibilità di una immediata conquista armata erano pressoché nulle e che insistere in questo disegno poteva significare la completa rovina del popolo israelita.
Mosè non aveva alcuna intenzione di lanciarsi subito nell'avventura militare e aveva già messo a calcolo un lungo periodo di permanenza nel deserto per armare e addestrare convenientemente l'esercito e per attendere l'occasione politica più favorevole. Ma non poteva spiegare questo al popolo, dopo tutte le promesse che aveva fatto. Doveva trovare un sistema che lo facesse stare tranquillo. Lo trovò, evidentemente.
Mosè doveva aver pianificato fin dall'inizio di morire nel deserto del Sinai. Qui, pertanto, doveva essere preparata la sua tomba. Non va dimenticato che aveva vissuto nel Sinai per diversi anni, prima di tornare in Egitto, e aveva quindi avuto tutto il tempo di studiarne ogni segreto e di scoprire siti idonei dove costruirla. Non è escluso che l'avesse già individuata e se ne fosse impadronito.
Ciò premesso, vediamo i fatti. Uno dei primi provvedimenti adottati da Mosè fu quello di autopunirsi, facendo dichiarare a Jahweh che loro, Mosè ed Aronne, i capi indiscussi del popolo, non avrebbero mai posto piede nell'agognata Terra Promessa. I motivi di questa punizione esemplare possono essere diversi e tutti egualmente validi. Innanzi tutto ragioni politiche: accomunandosi come vittime al resto della popolazione, evitavano di essere indicati come responsabili.
Poi ragioni pratiche: l'invasione doveva essere pianificata con cura; bisognava evitare spinte e tentazioni premature. La ragione di fondo, tuttavia, è che i due, avendo deciso di costruirsi la propria tomba e di morire nel Sinai, non potevano correre il rischio di essere costretti a seguire eserciti in Palestina. Avevano bisogno di tempo, calma e discrezione, per prepararsi una tomba come si deve. Doveva essere una tomba degna delle migliori tradizioni e soprattutto doveva essere inviolabile, per evitare profanazioni e saccheggi.
Quasi certamente avevano scelto il sito in occasione della venuta di Aronne nel Sinai; insieme avevano studiato i particolari dell'operazione e messo a punto il piano.
Si crearono dei successori, che dovevano guidare la conquista dopo la loro morte, portando il popolo lontano dal sito in cui erano sepolti e minimizzando in tal modo i rischi di profanazione. Pianificarono con scrupolo prodigioso ogni più piccolo particolare. Le linee generali di questa pianificazione possono essere ricostruite con elementi di fatto.
Le circostanze della morte sia di Aronne sia di Mosè appaiono veramente strane e tali da giustificare i peggiori sospetti. Si direbbe che abbiano scelto loro il momento della propria morte, tanto è giunta opportuna per entrambi, nello stesso anno e, guarda caso, immediatamente prima che avesse inizio la conquista della Palestina.
Toccò per primo ad Aronne. Correva l'anno «quarantesimo» dall'uscita dall'Egitto, il primo giorno del quinto mese (Nm. 20,22-29 e 33,38). Quel giorno Mosè e Aronne salirono in cima ad un certo monte Hor, accompagnati da Eleazaro, figlio di Aronne, e dai maggiorenti del popolo.
Qui, nel corso di una suggestiva cerimonia, durante la quale Aronne era vivo e vegeto e alla quale partecipò attivamente, Eleazaro ricevette le insegne di sommo sacerdote. Subito dopo Aronne morì. I maggiorenti testimoniarono che era proprio morto (Nm. 20,29). Poi il popolo pianse per trenta giorni. Tutto qui. Una versione diversa, ancora più succinta (Dt. 10,6), dice che fu sepolto ipso facto sul posto. Nessuno ne seppe più nulla.
Esattamente sei mesi dopo toccò a Mosè (Dt. 1,3). Lui fece le cose in modo più spettacolare: radunò il popolo nella valle di Moab, sulla riva del Giordano; tenne un lungo discorso, quello del testamento; di fronte a tutto il popolo passò le consegne e il potere al suo "delfino" Giosuè, benedisse il popolo, annunciò la propria morte e si congedò. Poi salì sul monte Pisga, in vista di Gerico, ammirò la Terra Promessa e... morì (Dt. 34,1-8).
Anche lui, come Aronne, rimase vispo e arzillo fino all'ultimo momento (Dt. 34,7). Anche lui venne sepolto ipso facto, lì vicino da qualche parte, non si sa bene come e dove (Dt. 34,5). Anche per lui gli Ebrei piansero per trenta giorni. Scaduti i trenta giorni di lutto, Giosuè dette immediatamente inizio alle operazioni per l'invasione della Palestina. Una morte davvero singolare e tempestiva.
Posti analoghi, sulla cima di un monte, lontano da sguardi indiscreti; stesse circostanze: subito dopo aver ceduto il potere, ciascuno al proprio delfino; maggiorenti che constatano la morte; sepoltura ipso facto per entrambi, non si sa bene come e dove. Tutto ciò non ha proprio senso. Mosè e Aronne riempiono del loro nome e delle loro gesta i quattro libri più importanti della Bibbia. Sono i fondatori della nazione e della religione ebraica. Erano i capi supremi di un grande popolo. E quel che si sa della loro morte, della loro tomba e delle loro esequie è tutto qui? Non è credibile.
Tanto più che l'autore del testo biblico è informatissimo sugli avvenimenti immediatamente precedenti e successivi la morte di entrambi. Non perde una battuta del lunghissimo discorso di Mosè nella valle di Moab; descrive le cerimonie, i passaggi di consegne; è preciso e dettagliato. Soltanto quando arriva al clou di tutta la faccenda, al momento dei funerali e della sepoltura, lui... non ne sa nulla.
Possiamo essere del tutto certi che Mosè ed Aronne ci tenessero ad avere funerali e una tomba adeguati. Erano semiti, nati e vissuti nell'Egitto dei faraoni; erano dei capi, dei grandi capi, che per tutta la vita avevano curato in maniera spettacolare la sacralità della propria persona. Non avrebbero mai accettato di essere sepolti come beduini erranti, sotto un anonimo mucchio di sassi.
Sicuramente avevano dato disposizioni: Aronne a Mosè; Mosè a Giosuè. Poteva Mosè seppellire il suo amato Aronne come un cane? Ma lui, l'informatissimo autore della cronaca biblica, non ne sa nulla, né di Aronne né di Mosè. Niente di niente! E’ assolutamente stupefacente.
C'è poi quel fatto dei trenta giorni di lutto. Fossero stati sette oppure quaranta o anche settanta, niente di strano. Ma trenta! E’ un numero che non significa proprio niente nella tradizione biblica. Che senso può avere?
C'è infine un ultimo particolare, in questa vicenda, apparentemente insignificante, ma che suona strano nel contesto: in apertura del Deuteronomio, l'autore ci tiene a precisare che Mosè è andato a morire in un posto situato a «undici giorni di cammino dalla Montagna Sacra, per la via del monte Seir», Cosa c'entrano, in questa circostanza, la Montagna Sacra e la sua distanza in giornate?
Eppure... tutto a questo mondo ha una logica. Anche questo insieme di fatti apparentemente inesplicabili, quindi, deve rispondere ad una sua logica ben precisa. Vediamola.
Cerchiamo innanzitutto di vedere un po' chiaro in merito al momento e alle circostanze della morte di entrambi. Sono troppe le coincidenze strane, perché possa essersi trattato di morti "normali". Quello che più colpisce in queste morti è che entrambe sono state preannunciate e ne è stato indicato in anticipo il momento e il luogo:
«Jahweh parlò a Mosè e ad Aronne: "Prendi Aronne ed Eleazaro, suo figlio, e falli salire sul monte Hor. Fai togliere i vestiti ad Aronne e fai vestire con quelli Eleazaro, figlio suo; è lì che Aronne morirà".» (Nm. 20,26);
«Jahweh disse a Mosè in quello stesso giorno: "Sali sulla montagna degli Abarim … Muori sul monte su cui stai per salire e ricongiungiti ai tuoi antenati, come morì Aronne tuo fratello sul monte Hor".» (Dt. 32,48-50).
Le morti sono avvenute entrambe sulla cima di un monte, alla presenza di pochissimi testimoni, e hanno colpito i due protagonisti quando erano perfettamente sani e in forze, al punto di salire sul monte con le proprie gambe.
Può sembrare fantastico, assolutamente incredibile: eppure l'unica spiegazione che abbia un senso logico compiuto è che i due abbiano scelto loro stessi il momento, il luogo e le circostanze della propria morte. In altre parole si sarebbero suicidati; prima l'uno, Aronne, poi l'altro, Mosè. Perché mai avrebbero dovuto?
Partiamo dal presupposto, non certo improbabile, che l'ambizione che aveva mosso i costruttori delle piramidi fosse la stessa che animava Mosè e Aronne: assicurarsi un degno avvenire nell'aldilà. Requisito fondamentale era possedere una tomba, più o meno grande, più o meno ricca. Secondo requisito: esequie e riti funebri fatti nel rigoroso rispetto della tradizione. Terzo requisito, anch'esso essenziale: assicurare l'inviolabilità della tomba; nessuno doveva essere in grado di profanarla e depredarla.
Mosè doveva garantirsi tutto ciò. Già era un grosso problema per gli stessi potentissimi faraoni e Mosè lo sapeva bene. Figurarsi per un capo che non era re consacrato, viveva seminomade, senza esercito, senza nessuno che potesse controllare le sue ultime volontà, nessuno che potesse controllare gli officianti dei riti, nessuno che potesse sorvegliare la tomba.
E tuttavia quest'ultimo non era il maggiore dei problemi. Con qualche precauzione e tanta fortuna, poteva anche riuscire a tenere segreto il luogo della sepoltura. Nel deserto non mancavano certo i luoghi idonei, soprattutto se, come aveva fatto lui, provvedeva a svuotare totalmente il territorio degli abitanti, mandandoli, dopo la morte, in qualche Paese lontano o sterminandoli.
Il vero problema era un altro. Il faraone sapeva bene "dove" sarebbe morto e "chi" avrebbe avuto intorno, a officiare e controllare. Nel deserto, invece, la morte poteva colpire Mosè ovunque, lontano dagli amici, magari vecchio decrepito, ormai non più lucido di mente. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo allora. Rischiava davvero di essere buttato, nudo come un verme, sotto un mucchio di sassi.
Erano problemi grossi. Ma Mosè li risolse da pari suo, nell'unico modo che potesse consentirgli di pianificare l'intera operazione "morte" e di aver il controllo di tutte le variabili: scegliendo il luogo, il momento e il modo. Mosè non aveva lasciato mai nulla al caso; poteva affidarsi ad esso proprio per la cosa che più gli stava a cuore?
Quando giunse il momento opportuno, mise in atto il suo piano. Era ormai vecchio; la tomba era pronta, ricolma di ricchezze; aveva appagato tutte le sue ambizioni; il popolo ebreo era sul piede di guerra, pronto a invadere la Palestina: era tempo che se ne andasse, finché era lucido e in forze. Aronne la pensava come lui; come sempre. Se ne andò per primo, amorevolmente accompagnato, nel suo ultimo viaggio, dallo stesso Mosè.
Poi toccò a Mosè. Radunò il popolo al confine della Palestina, in assetto dì guerra. Conferì il potere supremo a Giosuè; salì sul monte Pisga e... morì.
C'era un problema, però. La morte del capo carismatico è sempre un momento critico nella storia di un popolo, perché si scatenano gli appetiti di potere e le spinte centrifughe. A maggior ragione per il popolo ebreo, diviso in tredici tribù che erano state fino ad allora tenute insieme sol-tanto dalla volontà e dal prestigio di Mosè.
La tomba che si era approntato si trovava sulla cima della Montagna Sacra, a undici giorni di cammino dal luogo in cui morì. Secondo la prassi, le esequie dovevano essere celebrate dai figli e dai capi supremi del popolo, che avrebbero perciò dovuto allontanarsi per parecchi giorni.
Ma i due nuovi capi, freschi freschi, Giosuè ed Eleazaro, non potevano abbandonare il campo proprio in quel momento. Sarebbe stato un suicidio. Al ritorno rischiavano di trovare il posto occupato, o addirittura di non trovare più il popolo. Era necessario che nessuno si accorgesse della loro assenza. Proprio in quei frangenti, con l'intero popolo riunito e il vecchio capo ancora caldo! Un bel problema. Non per Mosè: aveva studiato e sperimentato personalmente la soluzione sei mesi prima, in occasione della morte programmata di Aronne. Semplice e geniale, come sempre.
Giosuè ed Eleazaro, con la scusa del "lutto" per la morte di Mosè, imposero una serie di misure di sicurezza, con drastiche limitazioni di movimento; una sorta di rigidissimo coprifuoco, della durata appunto di trenta giorni.
Il tempio-tenda fu sbarrato e a nessuno fu concesso di entrare o uscire. Il tutto senza destare sospetti: le stesse misure erano state imposte da Mosè per la morte di Aronne. Poterono così partire tranquilli, per rendere l'ultimo grande servigio al loro amato sovrano .
Vediamo i tempi: il primo giorno se ne andò per imporre il coprifuoco (pardon, per proclamare il lutto) e controllarne l'applicazione. Undici giorni richiese il viaggio di andata; sette giorni furono spesi sul posto per i riti funebri, secondo le tradizioni dei padri (Gn. 50,10); undici giorni per il viaggio di ritorno. Fanno trenta giorni esatti.
La mattina del trentunesimo Giosuè abolì il coprifuoco e iniziò immediatamente i preparativi per l'invasione della Palestina. Di Aronne e Mosè nessuno seppe più nulla.
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