Mosè aveva sottratto al faraone il popolo ebreo; ma era ben lungi dall'averlo acquisito per sé. Era l'ideatore del piano di fuga, l'esecutore materiale; il suo prestigio personale era alle stelle, ma ci voleva ben altro. Agli occhi dei più era soltanto «quel tizio che ci ha tratti fuori dal paese d'Egitto» (Es. 32,1). Era un trovatello, senza arte né parte, senza beni. Serviva ancora come guida, essendo l'esperto locale. Ma si può stare certi che, una volta giunti a destinazione, ogni tribù se ne sarebbe andata per i fatti propri. Questo, sicuramente, era nei propositi di molti capi-tribù.
Facevano i conti senza Mosè. Scattava la seconda parte del suo piano: impadronirsi del potere e creare una solida struttura organizzativa, che inquadrasse l'intero popolo di Israele. Fulcro dell'operazione fu la Montagna Sacra, dove aveva imparato le arti magiche. L'intera operazione fu condotta con un misto di genialità e lungimiranza straordinari e di spregiudicatezza e ferocia, che fanno di Mosè la figura più imponente ed affascinante della storia.
Il risultato finale fu che un'accozzaglia di tribù senza capo, senza religione né legge, attraverso un bagno di sangue e di terrore diventò un popolo che avrebbe riempito la storia della sua religione, dei suoi ideali e delle sue leggi.
Mosè, ovviamente, non guardava così lontano. Lui mirava soltanto a trasformare in nazione quell'insieme di tribù refrattarie ad ogni autorità ed assumerne saldamente il controllo. Il suo piano per raggiungere tale scopo è di una genialità prodigiosa. Nelle sue linee essenziali, era semplice. Nessuno (e tanto meno lui, Mosè, che non era neppure nobile, non potendo vantare una discendenza legittima da Giacobbe) avrebbe potuto farsi accettare come capo supremo del popolo ebreo. Nessuno che fosse di carne e ossa e non possedesse un poderoso esercito.
Ma un dio sì. Jahweh, il potente e terribile Dio dei padri, aveva deciso di dare al "suo" popolo libertà, potenza e prosperità. In cambio della fedeltà cieca e assoluta, prometteva il dominio della Terra in un futuro avvenire e il possesso della Palestina nel futuro immediato. E aveva dimostrato di essere in grado di mantenere le sue promesse.
Mosè, semplicemente, si pose in mezzo tra il popolo e Jahweh, quale unico portavoce del secondo verso il primo e viceversa. Dio gli comunicava il proprio volere e lui riferiva al popolo; senza colpa né responsabilità e, soprattutto, almeno in apparenza, senza potere. Povero tapino, posto fra l'incudine e il martello, soggetto alle lamentele e rimostranze dei primi e ai rimbrotti e sfuriate del secondo.
Per conferire con Dio Mosè saliva sulla Montagna Sacra; lui solo era autorizzato a farlo, pena la morte (Es.19,12). Tuoni, fulmini, fuoco e fumo testimoniavano all'atterrita popolazione, che stava ai piedi del monte, dei terribili eventi che si consumavano lassù, dove Mosè stava faccia a faccia con Jahweh (Es.19,16-20)[1].
Dopo qualche tempo, più o meno lungo, Mosè tornava a valle e riferiva i voleri del dio. Le proposte erano sempre ragionevoli e legittime, provenendo da un dio potente, che li aveva onorati dei suoi favori. Perché avrebbero dovuto rifiutare? Potevano dimostrare una simile ingratitudine? Mosè tornava sul monte e riferiva. Ridiscendeva dopo qualche tempo con nuovi ordini. Il sistema funzionava egregiamente.
Mosè, però, pensava al futuro. Prima o poi avrebbe dovuto allontanarsi dal Sinai, per raggiungere la Terra Promessa. Non avrebbe più potuto tornare sulla Montagna Sacra ogni qualvolta avesse avuto bisogno di dare un ordine. Doveva trovare il sistema di portarsi appresso, ovunque andasse, la fonte primaria della sua autorità, il terribile Jahweh in persona, per poterlo consultare a piacimento e rapidamente.
Ebbe, come al solito, una trovata formidabile. Vista col senno di poi può sembrare scontata; ma solo un genio come lui poteva pensarci. Un giorno tornò dal monte con una bella novità: Jahweh voleva un santuario per abitare in mezzo al popolo prediletto (Es. 25,8). Una tenda immensa, un vero e proprio tempio mobile, dove avrebbe potuto radunarsi il popolo intero per tenere assemblee, ricevere ordini e, naturalmente, onorare Jahweh. Dette anche istruzioni precise su come lo voleva (Es. 25, 9-40). Potevano rifiutarglielo?
L'intero popolo rispose all'appello in modo entusiasta, superiore ad ogni aspettativa. Tutti fecero a gara nel portare «oro e argento e rame e filo turchino e lana tinta di porpora rossiccia e fibre di colore scarlatto e lino fine e pelo di capra e pelli di montone tinte di rosso e pelli di takash e legno di acacia e olio per illuminare e olio di balsamo per l'olio d'unzione e per l'incenso profumato e pietre di onice e pietre da incastonare» (Es. 35,5-9).
Non fu, quella del tempio-tenda, una pensata dell'ultimo momento. Mosè aveva le idee estremamente chiare in proposito e un progetto dettagliato fino all'ultimo particolare. Doveva averci pensato per anni. Perciò, alla partenza, si era tanto raccomandato che gli Ebrei si procurassero tutto quanto poteva servire allo scopo (Es. 3,24; 11,2 e 12,35).
I migliori artigiani del popolo ebreo si misero al lavoro (Es. 36,1); impiegarono diversi mesi per completare l'opera. Mosè, nel frattempo, continuava la spola da e per la Montagna Sacra. Evidentemente, però, le cose non andavano lisce come l'olio. C'era chi di questo Jahweh, e soprattutto del suo portavoce, non ne voleva proprio sapere; chi avrebbe preferito di gran lunga rimanere in Egitto e non disperava di poterci tornare (Nm. 14,4). Era un'opposizione ancora sotterranea, ma stava organizzandosi in modo pericoloso. Mosè corse ai ripari e decise di farla uscire allo scoperto.
Architettò un piano davvero diabolico. Durante una sua ennesima assenza sul monte, che si prolungava oltre l'usuale, il fido Aronne finse di accettare di mettersi a capo di una congiura contro Jahweh (Es. 32,1). Con l'oro raccolto fra il popolo fabbricò un idolo, un vitello: chiaramente una divinità di quell'Egitto da cui erano partiti alcuni mesi prima; un bue «Api». È significativo; era infatti un'espressione di quel partito filoegizio che fin dall'inizio non aveva perso occasione per sobillare il popolo e indurlo a tornare indietro, sfruttando ogni ragione di malcontento.
Mosè tornò dal monte sul più bello, nel pieno dei festeggiamenti (Es. 32,19). Finse sorpresa e uno sdegno terribile. «Chi è dalla parte di Jahweh? A me!» gridò. I Leviti, naturalmente, si schierarono in blocco dalla sua parte. « Mettetevi ciascuno la spada al fianco; passate e ripassate da porta a porta nel campo e uccidete» (Es. 32,27), fu l'ordine perentorio di Mosè. Un massacro: tutti quelli che si erano esposti, finendo nelle liste di proscrizione, furono uccisi. L'opposizione filoegizia fu annientata.
Aronne, naturalmente, il presunto capo della rivolta, se la cavò con qualche scusa (Es. 32,21-24). Pochi mesi dopo, quando il tempio-tenda fu completato, Jahweh stesso lo prescelse fra dodici pretendenti, come suo sommo sacerdote (Nm. 17,1-9).
I Leviti ebbero in premio il privilegio di «portare l'arca del patto di Jahweh, stare innanzi a Jahweh per servirlo e benedire nel suo nome» (Dt. 10,8). Il che comportava il beneficio di essere innalzati al di sopra delle altre dodici tribù e di riceverne tributi. Mosè riservò per se stesso il potere effettivo, quale unico portavoce di Jahweh.
A questo punto, però, dovette fronteggiare un nuovo mortale pericolo. Dall'interno del suo stesso partito, questa volta: il "partito di Jahweh", o meglio, per usare le stesse parole della Bibbia, la «Congregazione di Jahweh». Cora, cugino primo di Aronne, era uno degli anziani della tribù di Levi; probabilmente il più prestigioso; senza dubbio il più ambizioso. Investì Mosè in modo sprezzante: «Chi sei tu, che ti debba innalzare al di sopra della Congregazione di Jahweh?» (Nm. 16,3).
È un flash che illumina all'improvviso uno dei lati più oscuri dell'intera vicenda di Mosè: come fosse riuscito, in Egitto, a convincere gli Ebrei a seguirlo in quella pazzesca avventura. Come stregone non era eccezionale: personaggi del genere, e di una scuola anche migliore, si sprecavano a quei tempi, in Egitto; e comunque erano sempre al servizio del potere, mai al potere. Non era neppure un parlatore brillante e persuasivo; balbuziente com'era, bastava aprisse bocca per far ridere la gente. Non era nobile, non aveva soldi, prestigio, armi; nulla di nulla. E allora?
A quanto pare il grande colpo di genio, la chiave di volta dell’intero piano di Mosè, l'inizio di tutta la sua vicenda fu proprio questo: aveva fondato una società segreta; la «Congregazione di Jahweh», appunto. Con il fascino, i rituali e gli obiettivi, l'esercizio del potere innanzi tutto, delle società segrete di ogni tempo e luogo.
I fondatori appartenevano alla tribù di Levi: Mosè, Aronne, Cora e gli altri capi delle famiglie levite; costituivano il consiglio direttivo della Congregazione. In seguito vennero fatti proseliti in tutte le altre tribù: personaggi che ambivano a occupare o mantenere posizioni di potere nell'ambito del proprio gruppo.
Al consiglio direttivo spettavano le decisioni politiche; esso stabiliva le leggi e l'organizzazione del popolo; esercitava la giustizia; imponeva tributi; costituiva, in sintesi, il potere "centrale". La tribù di Levi fu separata dalle altre, diventando una sorta di guardia pretoriana, schierata a difesa del principale strumento di potere della Congregazione, il tempio-tenda. I membri non-leviti della Congregazione ebbero il potere, per così dire, "locale", sulle singole tribù di appartenenza.
Era tutto previsto e definito fin dall'inizio. In sospeso doveva essere rimasto soltanto un piccolo particolare: il capo. Mosè era il promotore, l'ideologo, la mente della Congregazione; ma con quale diritto se ne arrogava la supremazia assoluta? Cora gli contestò duramente questa pretesa. Contestò anche la nomina di Aronne a sommo sacerdote (Nm. 16,1-3). Era un personaggio influente e prestigioso; intorno a lui si coagulò l'opposizione interna a Mosè: Datan e Abiram e duecentocinquanta altri anziani. La Congregazione di Jahweh si spaccò in due. Era inevitabile uno scontro mortale.
Mosè, probabilmente, era in minoranza; ma aveva dalla sua parte un'arma formidabile: il suo prodigioso cervello. Dal resoconto biblico appare evidente che non fu preso alla sprovvista. Prevedeva, evidentemente, che prima o poi si sarebbe arrivati allo scontro e si era preparato. Non è escluso che sia stato lui stesso, in qualche modo, a far precipitare gli eventi: in tutti gli avvenimenti decisivi della sua vita fece sempre in modo di avere lui la scelta del momento e del luogo.
Si appellò al giudizio di Dio: si sarebbero trovati, l'indomani, nel tempio-tenda «dinanzi a Jahweh» (Nm. 16,16): avrebbe indicato Lui stesso il proprio favorito. Il nobile Levita giunse all'appuntamento sicuro di sé, attorniato dai tutti i suoi sostenitori. Aveva probabilmente un qualche asso nella manica; ma non fece in tempo ad usarlo. Mosè lo precedette, vibrando un colpo micidiale: all'improvviso la terra si aprì sotto i piedi del malcapitato Cora, che precipitò in una voragine, urlando, insieme a coloro che gli stavano più vicini. Tutti gli altri suoi sostenitori furono avviluppati dalle fiamme e perirono bruciati (Nm.16,25)[2].
Scoppiò un tumulto. Mosè e Aronne furono accusati senza mezzi termini di aver assassinato Cora ed i suoi amici: «Voi avete fatto morire il popolo del Signore» (Nm. 17,6). Ma ormai non c'era più nessuno in grado di tener loro testa. Furono sufficienti alcune minacce, per ristabilire la calma: «Il Signore disse a Mosè: "Allontanatevi da questa comunità e io li consumerò in un istante". Ma essi si prostrarono con la faccia a terra...» (Nm. 16,21-22). Il potere era ormai saldamente nelle mani di Mosè. Poteva finalmente partire per attuare l'ultima parte del suo piano.
[1] Alcuni pensano a un impossibile fenomeno vulcanico (non esistono vulcani nel Sinai); altri a un temporale, accompagnato da un terremoto o dalla caduta di una grossa meteorite: tutti avvenimenti straordinari, che avrebbero avuto la compiacenza di accadere proprio nel momento in cui Mosè aveva deciso di dare al popolo ebreo la dimostrazione della presenza di Jahweh sul monte. Non c'è dubbio, invece, che lo spettacolo "pirotecnico" fu organizzato dallo stesso Mosè, facendo largo uso di qualche sostanza incendiaria a base di zolfo.
[2] Mosè impiega spesso una mistura incendiaria micidiale, probabilmente a base di zolfo (il segreto di questa mistura era stato tramandato dai tempi di Amenofi II che l'aveva impiegata per la distruzione di Sodoma e Gomorra). La sostanza era stata nascosta da Aronne ed Eleazaro negli incensieri che erano stati distribuiti ai sostenitori di Cora (Nm. 16,17-18). Mosè aveva sperimentato il trucco micidiale nel chiuso del tempio-tenda, pochi giorni prima. Fu appunto nel corso di questi esperimenti che accadde l'incidente in cui morirono i due figli maggiori di Aronne, Nadab e Abiu (Lev. 10,1-5). Il meccanismo era certamente lo stesso. E’ la chiara dimostrazione che Aronne e Mosè si erano preparati accuratamente in anticipo allo scontro con Cora e avevano premeditato l'eccidio.
vedi successivo:
Primo tentativo di conquista della Palestina
Torna a:
Il passaggio del Mar Rosso
Torna a:
Cronache dell'esodo