La convinta e appassionata perorazione di Simmaco in favore della conservazione dei simboli pagani nel Senato va vista più come un tentativo di difesa di altrettanti centri di potere del Sol Invictus, piuttosto che un improponibile tentativo di restaurazione del paganesimo, come hanno voluto interpretarla gli storici.
Non è neppure da sottovalutare quanto insinuato da alcuni storici (ad esempio il Gibbon) che fosse motivata anche dal desiderio di conservare le ricche prebende che erano legate alle cariche religiose stesse. Dopo tutto era pur sempre un fiume di denaro che veniva ad inaridirsi con l’abolizione dei templi pagani.
Questo spiegherebbe come mai Simmaco non fu punito per la sua temeraria azione, ma al contrario l’anno dopo fu addirittura elevato agli onori del consolato dallo stesso Teodosio, il più fanatico e intransigente fra gli imperatori cristiani contro il paganesimo. E come mai la sua famiglia divenne immediatamente uno dei pilastri della Roma cristiana, a cui fornì in seguito uomini di governo e papi, fra i quali uno santo.
Non è chiaro quando questa famiglia sia entrata a far parte del Senato e tanto meno quale sia la sua origine. All’epoca di Settimio Severo ebbe grande rinomanza fra i cristiani un certo Simmaco, detto l’Ebionita, di cui si sa soltanto che ha curato una traduzione della Bibbia ripresa da Epifanio e Girolamo. Viene citato come un giudeo convertito al cristianesimo, ma non è probabilmente una semplice coincidenza che si chiamasse Simmaco e che fosse vissuto all’epoca di Severo, cui tante famiglie equestri dovettero la propria fortuna.
Nel 319 un certo Aurelio Giuliano Simmaco, nonno del senatore in questione, era proconsole nell’Achea (o secondo altri vice-prefetto in Macedonia); era quindi un funzionario imperiale, quanto meno di classe equestre. Quella carica, in ogni caso, gli dava il diritto automatico a transitare nel Senato. Suo figlio Aurelio Aviano Simmaco, che fu prefetto di Roma nel 364, era infatti senatore. Non possiamo nutrire dubbi sul fatto che i Simmaci della fine del quarto secolo, una delle famiglie senatoriali più ricche dell’intero impero romano, fossero di condizione sacerdotale.
Alcune (non molte) famiglie senatoriali romane del quarto secolo portano nomi che ritroviamo anche in epoca repubblicana. Questo non significa necessariamente che ci fosse una discendenza genealogica diretta. Lo si è visto per la Gens Flavia, che non aveva alcuna relazione genetica con la famiglia di Vespasiano.
Nella Roma antica niente era più facile che appropriarsi del nome di una grande famiglia. Era prassi consolidata, infatti, che i liberti, quando venivano liberati e assumevano la cittadinanza romana, assumessero anche il nome della famiglia che li aveva affrancati. Ad esempio, al tempo di Augusto più di mille persone divennero improvvisamente Giulii, perché da lui liberati. Così Giuseppe assunse il nome di Flavio e con lui anche un numero imprecisato di sacerdoti giudaici liberati da Tito, fra cui quel Tito Flavio Igino Efebiano, il cui nome compare nel primo mitreo romano, forse un parente di Giuseppe, o comunque uno degli “amici” da lui fatti liberare a Gerusalemme. E’ presumibile che altre nobili famiglie romane abbiano “ceduto” in tal modo [1] il loro nome a famiglie di origine sacerdotale giudaica, che le hanno in seguito soppiantate nel Senato.
Fra queste possiamo annoverare la famiglia dei Deci, che figura fra quelle senatoriali fin dall’epoca repubblicana. Il Decio, però, che venne nominato prefetto del pretorio (carica, ricordiamo, riservata all’ordine equestre, non ai senatori) da Filippo l’Arabo, e che si fece poi proclamare augusto dall’esercito, non era romano, ma proveniva da una famiglia di quella Pannonia che allora più che mai era un feudo incontrastato del Sol Invictus. Che poi egli abbia scatenato persecuzioni anticristiane non significa nulla: era forse dovuto alla sua cattiva coscienza e al tentativo di eliminare chi poteva chiedergli il conto delle sue malefatte. Tentativo del resto infruttuoso, perché fu eliminato dopo neppure due anni in battaglia contro i Goti [2] . Il fatto, però, che la famiglia sia sopravvissuta alla caduta del Decio “persecutore” di cristiani e abbia mantenuto il suo rango senatoriale costituisce un pesante indizio a favore della sua origine sacerdotale.
La più eminente e ricca delle famiglie senatoriali romane alla fine del quarto secolo era quella degli Anici, che lo storico Prudenzio cita come la prima a professarsi apertamente cristiana, all’indomani della vittoria di Costantino su Massenzio [3] . La famiglia era certamente di tradizioni cristiane anche in precedenza, dal momento che alcuni suoi membri figurano fra i martiri di Diocleziano in Illiria e vengono venerati come santi [4] .
Quanto alle sue origini, esse sono in apparenza assai antiche e indubbiamente romane. Il primo Anicio a comparire sulla scena romana fu un certo M. Anicio Gallo, tribuno del popolo nel 247 a.C., seguito nella carica due anni dopo da un Quinto Anicio. Era una famiglia di estrazione popolare, quindi; Tito Livio (XIV, 43) la annovera fra la piccola nobiltà di provincia. Ciononostante essa sale agli onori del consolato nel 160 a.C. e di nuovo nel 65 d.C sotto Nerone.
Poi scompare dalle cronache per un secolo e mezzo, per tornare al consolato nel 214, sotto Caracalla, sacerdote del Sole, nemico giurato dei senatori, di cui fece stragi inaudite [5] . E’ verosimile che il console Anicio, che si distinse per la sua piaggeria nei confronti del sovrano, tanto da essere messo alla berlina da Tacito [6] , appartenesse a famiglia sacerdotale, innalzata fra i ranghi della nobiltà dallo stesso Caracalla (o da suo padre Severo, che immise numerose famiglie equestri fra la nobiltà senatoriale) e non avesse niente a che vedere, dal punto di vista genetico, con gli Anici di repubblicana memoria.
In ogni caso, quando ricompare sulle scene, la famiglia Anicia dimostra una sicura connessione con l’imperatore Probo, adepto del Sol Invictus, originario della Pannonia. E il ramo gallico della famiglia, cui appartenevano i santi citati dianzi, era imparentato con l’imperatore Carino (mitraico, grande protettore dei cristiani di Gallia), e aveva proprietà terriere fin nella stessa Pannonia.
Le fortune della famiglia furono incrementate oltre misura dal senatore Probo Anicio, che divise il consolato con l’imperatore Graziano e fu per quattro volte prefetto del pretorio. I suoi profondi legami con la Chiesa sono dimostrati dal fatto che egli fu sepolto in una tomba monumentale costruita proprio nel Vaticano, dove sorgeva la basilica di S. Pietro e dove aveva la sua sede il Pater Patrum del Sol Invictus. La famiglia degli Anici divenne la più influente e ricca del Senato, con possedimenti terrieri in tutto l’impero, e conservò il primato in occidente per diversi secoli a venire, fornendo imperatori e papi.
Le rimanenti famiglie senatoriali erano in gran parte di recente acquisizione, provenienti dal ceto equestre, per le quali è più immediato ed evidente il collegamento con il Sol Invictus e quindi l’origine sacerdotale. Molte di esse, non potendo legittimamente ricollegarsi a famiglie nobili del passato, non disdegnavano di crearsi delle genealogie ad hoc, che le collegavano a grandi personaggi leggendari. Un esempio illuminante a questo proposito è costituito dalla famiglia senatoriale cui apparteneva la matrona Paula, benefattrice scandalosamente ricca di S. Girolamo, il quale confezionò per lei una genealogia fittizia, che ne faceva una donna di sangue reale, discendente nientemeno che dall’eroe omerico Agamennone. [7]
In conclusione, alla morte di Teodosio, nel 395, la situazione della classe dirigente dell’impero d’occidente doveva essere la seguente: l’antica nobiltà di origine pagana era praticamente scomparsa, o comunque privata di ogni ricchezza e potere [8] , mentre la grande nobiltà, che si identificava con la classe senatoriale dei proprietari terrieri, era costituita da famiglie di origine sacerdotale. Sul piano religioso, il paganesimo era stato messo al bando e il cristianesimo era ormai divenuto la religione della totalità degli abitanti dell’impero ed era controllato da gerarchie ecclesiastiche dotate di immense proprietà fondiarie e di poteri quasi regali nell’ambito delle proprie diocesi.
La famiglia sacerdotale mosaica era diventata padrona assoluta di quello stesso impero che aveva distrutto Israele e il tempio di Gerusalemme. Tutte le alte cariche dell’impero, civili e religiose, e tutte le sue ricchezze erano nelle sue mani e il potere supremo affidato in perpetuo, per diritto divino, alla più illustre delle tribù sacerdotali, la Gens Flavia. Tre secoli prima il suo capostipite, Giuseppe Flavio, aveva scritto con orgoglio: “La mia famiglia non è oscura, anzi, è di discendenza sacerdotale: come presso ciascun popolo esiste un diverso fondamento della nobiltà, così da noi l’eccellenza della stirpe trova conferma nell’appartenenza all’ordine sacerdotale.” (Vita 1,1) Alla fine del quarto secolo i suoi discendenti potevano a buon diritto applicare quelle stesse parole all’impero romano.
L’unica differenza stava nel fatto che la massa della popolazione ignorava che l’intera classe dirigente dell’impero apparteneva ad un ordine sacerdotale cancellato dalle cronache storiche tre secoli prima.
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[1]
O anche tramite adozione o matrimonio: si è visto che era sufficiente, dal
quarto secolo in poi, sposare una donna della Gens Flavia per assumerne il nome
e le prerogative.
[2]
I campi di battaglia erano luoghi ideali per liberarsi di imperatori scomodi,
come dimostrano le vicende di Valeriano, Gallieno, Carino, Giuliano e altri
ancora.
[3]
Il Gibbon suggerisce che il senatore Anicio Giuliano si sia convertito per
farsi perdonare da Costantino il fatto che si era schierato con Massenzio; ma
la cosa non ha senso, dal momento che a quell’epoca Costantino era ancora un
“pagano”.
[4]
I santi Canzio, Canziano e Canzianella, venerati il 31 maggio
[5]
Secondo Dione Cassio, Caracalla, dopo aver ucciso il fratello Geta, nel 212,
uccise almeno ventimila persone a Roma, sospettati di essere stati suoi
sostenitori; fra essi un numero imprecisato, ma certamente assai elevato, di
senatori.
[6]
Tacito, Annali, XV, 74
[7]
E. Gibbon, Op citata, cap XXXI, p. 169
[8]
E. Gibbon, Op citata, cap XXXI, p. 170