Per scoprire come la famiglia sacerdotale giudaica abbia attraversato queste vicissitudini, quale parte vi abbia svolto, e in quali condizioni sia emersa alla fine, è indispensabile innanzitutto stabilire quali fossero le posizioni da essa raggiunte nella società romana alla fine del quarto secolo, al culmine della sua potenza ed espansione.
Abbiamo visto come le famiglie sacerdotali giudaiche venute a Roma al seguito di Tito nel 70 d.C. abbiano cominciato immediatamente, tramite l’organizzazione mitraica creata da Giuseppe Flavio, ad infiltrare l’apparato amministrativo imperiale, i traffici mercantili diretti alla capitale, le dogane, la guardia pretoriana e l’esercito. Agli inizi del secondo secolo le ritroviamo insediate, oltre che a Roma e ad Ostia, in tutte le zone periferiche dello stato romano dove erano presenti importanti centri dell’amministrazione imperiale e legioni di confine.
Erano famiglie in possesso di ingenti capitali, insediate nei gangli vitali dell’amministrazione, fornite di innate doti imprenditoriali, appoggiate da una formidabile rete di relazioni interpersonali e supportate da una organizzazione occulta potente, ben insediata a palazzo e con ramificazioni in tutto l’impero.
Esse non dovettero avere alcuna difficoltà ad accumulare ingenti fortune ed emergere come classe dirigente, soprattutto nelle regioni esterne all’Italia, dove non avevano la concorrenza delle grandi famiglie nobiliari che costituivano la primitiva classe senatoriale romana, restie a lasciare la capitale per insediarsi nella lontana e scarsamente civilizzata periferia.
Le famiglie di origine sacerdotale vennero a costituire il nerbo della cosiddetta classe “equestre”, emersa con il consolidarsi della burocrazia imperiale, cui finì per fornire la totalità dei quadri amministrativi. A partire dal terzo secolo, gli imperatori (a parte sporadiche eccezioni, come forse Decio e i Gordiani) provenivano sempre dalla classe equestre e governarono sempre in netta contrapposizione al Senato, appoggiandosi interamente alle famiglie equestri, che avevano praticamente il monopolio dell’amministrazione pubblica.
L’estensione della cittadinanza romana a tutto l’impero, voluta dal Sol Invictus, favorì il consolidarsi delle posizioni delle famiglie equestri a scapito della nobiltà senatoriale e il vertiginoso aumento delle loro risorse economiche, che vennero investite nella formazione di grandi proprietà fondiarie, creando enormi latifondi, che finirono con l’inglobare la maggior parte delle terre coltivabili dell’impero, con gravi conseguenze sull’economia e la struttura della società civile.
Nel corso del terzo secolo le famiglie sacerdotali acquisirono (o sarebbe più giusto dire consolidarono) il controllo totale dell’esercito e del pretorio (la prefettura del pretorio era lo sbocco finale della carriera di ogni burocrate della classe equestre), nonché quello della pubblica amministrazione.
Di pari passo procedeva la presa sulla società civile. Sulla scia dei funzionari e militari mitraici, il cristianesimo si era diffuso in modo discreto ma capillare in tutto l’impero, tanto che alla fine del terzo secolo esistevano sedi vescovili in tutte le principali città, fino ai suoi estremi confini settentrionali, in Britannia.
La stragrande maggioranza della popolazione, tuttavia, almeno l’80%, era ancora pagana, e il Senato romano, benché spogliato di gran parte dei suoi poteri e prerogative, umiliato, impoverito e “infiltrato” già da una maggioranza di famiglie di origine equestre, possedeva pur sempre un nucleo consistente di antiche famiglie nobiliari romane e italiche, depositarie della tradizione pagana e in quanto tali ancora in grado di costituire un polo di attrazione per la maggioranza della popolazione.
Fu questo che rese possibile l’ultimo colpo di coda del paganesimo, al tempo di Diocleziano e Galerio, e che alla fine decise le famiglie sacerdotali a procedere a tappe forzate alla cristianizzazione dell’impero e alla definitiva emarginazione, se non vera e propria eliminazione fisica, di quel che rimaneva della originaria classe dirigente romana.
Nonostante la sua inferiorità numerica, nel 324 il cristianesimo venne proclamato da Costantino religione di stato dell’impero e il paganesimo venne sottoposto ad una serie crescente di restrizioni, fino a che non fu definitivamente proibito nel 380 da un editto di Teodosio, confermato dal Senato romano nel 383.
Nel 393 Teodosio proibì anche tutte le feste e le manifestazioni pubbliche che avessero un legame con il paganesimo comprese le olimpiadi; l’ultima, infatti, si svolse proprio quell’anno. Con la fine del quarto secolo, quindi, ogni singolo cittadino romano era, almeno formalmente, cristiano, soggetto all’autorità di un vescovo.
Di pari passo procedette l’eliminazione e sostituzione dell’antica nobiltà senatoriale italico/romana [1] . La strategia adottata a questo scopo dagli imperatori cristiani nel quarto secolo, però, fu ben diversa da quella seguita dagli imperatori Sol Invictus del terzo secolo. Questi ultimi, infatti, si posero in aperta contrapposizione al Senato, umiliandolo, privandolo delle proprie prerogative e ricchezze, e colpendolo fisicamente con l’esilio e l’esecuzione di un gran numero dei suoi esponenti di spicco, e si appoggiarono completamente al ceto equestre per l’amministrazione civile e militare dello stato.
I secondi, invece, restituirono al Senato, almeno formalmente, il ruolo centrale che aveva sempre avuto, reintegrandone o addirittura ampliandone gli antichi privilegi; ma non prima di aver rimpiazzato completamente le famiglie senatoriali originarie con altre provenienti dal ceto equestre, appartenenti al Sol Invictus [2] .
La politica di immissione delle famiglie equestri nel Senato era stata inaugurata da Settimio Severo e imposta per decreto da Gallieno (che, ricordiamo, fu anche l’autore, nel 261, dell’editto che proclamava il cristianesimo “religione lecita”), il quale stabilì che tutti coloro che avevano ricoperto la carica di governatori di provincia e di prefetto del pretorio, cariche entrambi riservate all’ordine equestre, entrassero di diritto a far parte dell’ordine senatoriale.
Questo diritto fu poi esteso dagli imperatori cristiani ad altre categorie di funzionari, a cominciare dai cosiddetti “comites” (i futuri comtes, o conti), funzionari, sia civili che militari, scelti dagli imperatori fra i propri compagni d’arme ( o di loggia), per finire con i grandi burocrati e gli alti ufficiali dell’esercito. Nel giro di alcuni decenni praticamente l’intera classe equestre transitò nelle file del Senato, sommergendo le famiglie dell’originaria aristocrazia italico/romana.
Contemporaneamente queste ultime furono soggette ad una vera e propria campagna persecutoria, sia sul piano fisico, con esecuzioni capitali ed esilio, sia su quello economico, con espropri e un uso mirato dello strumento fiscale, che finì per eliminarle completamente. Sotto il profilo economico, infatti, gli imperatori cristiani fecero quanto in loro potere per favorire i membri delle famiglie sacerdotali.
Tanto per cominciare, i vescovi furono esentati dalle tasse e furono garantite rendite e proprietà alle chiese. Poi fu introdotta una serie di leggi che favorirono la formazione di grandi proprietà terriere nelle mani “giuste”, che furono a loro volta esentate dal pagamento delle tasse.
Il provvedimento finale, che doveva completare la trasformazione della classe senatoriale, che costituiva la classe nobiliare dell’impero, fu la riforma introdotta da Valentiniano I, che suddivideva i senatori in tre livelli, basati non sull’antichità o nobiltà della famiglia e neppure sugli incarichi svolti, ma esclusivamente sulla ricchezza della famiglia, misurata in base alle proprietà terriere. I più ricchi in alto, a formare la classe senatoriale vera e propria, i più “poveri” in basso. Naturalmente, stando alla tesi sviluppata fino a questo momento, al vertice dovevano esserci soltanto famiglie di origine sacerdotale, che a quell’epoca avevano ormai concentrato nelle proprie mani la quasi totalità delle terre coltivabili.
Per queste famiglie il quarto secolo fu veramente un secolo d’oro. Due erano le prospettive di carriera che si aprivano ad un qualunque giovane di questa condizione, come ad esempio al giovane Girolamo, nato in quella Pannonia da cui uscirono tutti i generali cristiani delle prime dinastie imperiali: o la carriera burocratica, o quella religiosa.
La prima offriva prospettive di rapido e immenso arricchimento; ma anche la seconda non si presentava avara di soddisfazioni, vista l’enorme espansione che aveva avuto il cristianesimo in quegli anni e il vertiginoso incremento del patrimonio ecclesiastico, grazie alle generose donazioni ed esenzioni degli imperatori cristiani.
Una testimonianza dell’atmosfera da bengodi che regnava fra le gerarchie ecclesiastiche in quel periodo d’oro ci è fornita da uno storico “pagano”, Ammiano Marcellino, che scrive: “Quanti si prefiggono di raggiungere il pontificato ambitissimo, mettono in campo ogni arma, perché sono certi, una volta eletti, di diventare ricchi con le offerte delle matrone, di marciare in carrozza vestiti lussuosamente, partecipando a eleganti festini, che superano sicuramente quelli imbanditi presso le mense regali. I vescovi potrebbero portare un contributo positivo alla vita cittadina, se disprezzassero le ricchezze di Roma…” [3] . Parole che abbiamo viste confermate da Girolamo, durante il suo soggiorno romano.
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Il Sol Invictus Mithras
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La donazione di Costantino
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[1]
La nobiltà senatoriale di antica origine repubblicana era stata già rinnovata
nel primo secolo d.C. Tacito (Annali, III, 55), infatti, afferma che tra la
battaglia di Azio ed il regno di Vespasiano, il Senato era stato gradualmente
riempito con famiglie nuove, provenienti dai municipi e dalle colonie italiane.
[2]
Alla fine del quarto secolo, come vedremo in seguito, la quasi totalità dei
senatori erano o mitraici o apertamente cristiani.
[3]
Ludovico Gatto, “Storia di Roma nel Medioevo”, Roma, 1999, pag.38