Siamo arrivati alla conclusione che cultura non è oggetti materiali, conoscenze, comportamento o sentimenti. Viene in mente una lapidaria definizione di Herriot: "La cultura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto". Non è nemmeno memoria. Eppure non è un concetto vuoto, privo di contenuto, ma qualcosa di ben reale; anzi la cosa più importante di tutte, se è vero che è lei che ci fa amare e odiare, rispettare e disprezzare, distruggere, uccidere o adorare.
E' "quella cosa" che determina i nostri atteggiamenti e comportamenti nei confronti di noi stessi, degli altri, degli animali, degli oggetti materiali, dei concetti astratti e di quanto altro esiste fuori e dentro la nostra mente. Ogni individuo, nei confronti della realtà interiore ed esteriore, adotta atteggiamenti e comportamenti diversi da quelli degli altri individui. Prendiamo ad esempio un fiore: chi si ferma ad ammirarne la bellezza, chi lo esamina da un punto di vista scientifico e lo seziona per vedere com'è fatto, chi lo strappa per metterlo all'occhiello, donarlo all'innamorata o abbellire la casa, chi rimane indifferente e chi, infine, lo calpesta e distrugge. La stessa varietà di atteggiamenti e comportamenti si verifica nei confronti di tutti gli oggetti, i fatti e le situazioni della vita.
Il comportamento di ogni individuo è la risultante di una serie ininterrotta di decisioni che egli prende istante per istante, a partire dalle piccole decisioni quotidiane, fino alle grandi decisioni della vita: quali studi compiere, quale professione esercitare, quale fede professare, vuoi politica o religiosa, quale donna sposare, quale ambiente frequentare. Molto spesso queste decisioni vengono prese in maniera inconscia, automatica, per abitudine, perché le circostanze lo "impongono", perché così fanno tutti e via dicendo. E’ indubbio che, in ultima analisi, ogni singola azione è determinata da un "ordine" che parte dal cervello, e quindi da una decisione autonoma presa in quella sede.
Sulla base di che cosa vengono prese tutte queste decisioni, dalle più insignificanti a quelle più importanti? Cos'è, in altre parole, che determina i comportamenti dell'individuo? Cerchiamo di capirlo attraverso un esempio banale. Un foglio di carta è soltanto un foglio di carta. Ci sono però dei foglietti che noi appallottoliamo e gettiamo nel cestino dei rifiuti e altri, magari quasi identici, che riponiamo con cura nelle casseforti e per il cui possesso attuiamo una serie di comportamenti di enorme rilevanza nella nostra vita, sia individuale che sociale. Perché questa differenza di comportamento nei confronti di due oggetti quasi identici? Evidentemente perché attribuiamo ai due foglietti diversi "valori": insignificante al primo, grandissimo al secondo.
Non solo; di fronte alla stessa banconota individui diversi si comportano in modo diverso: c'è chi rimane indifferente, chi la rifiuta e disprezza e chi invece è disposto a fare qualunque sacrificio personale per impossessarsene, e perfino a sfruttare e uccidere i propri simili. Evidentemente ogni individuo attribuisce al denaro un "valore" diverso. Ed è questo valore attribuito, non la banconota per se stessa, che determina il suo comportamento.
Lo stesso
dicasi per qualsiasi altro oggetto, essere o concetto. Una mucca è soltanto una
mucca; ma il contadino della valle padana la usa per ricavarci lavoro, latte e
bistecche, mentre l'indù la venera e non si sognerebbe mai di ucciderla e tanto
meno di mangiarla. Anzi, chi si macchia di un tale "delitto" è (o per
lo meno lo era un tempo) passibile di morte. Questa differenza di comportamento
evidentemente non è dovuta alla mucca per se stessa, ma al fatto che ciascuno
dei due le attribuisce un valore diverso. L'indù preferirebbe morire di fame
piuttosto che mangiare carne bovina; il che significa che per lui la mucca, o
ciò che rappresenta, ha un valore superiore alla sua stessa vita.
Se, quindi,
analizziamo a fondo il nostro e l'altrui comportamento nei confronti di una
qualsiasi cosa, materiale o immateriale che sia, ci rendiamo conto che esso è
determinato dal "valore" che le attribuiamo e non dalla cosa per se
stessa. E' del tutto evidente che il "valore" di una cosa non è una
sua qualità intrinseca, non è parte dell'oggetto per sé stesso, né delle sue
caratteristiche: è un "accidente" esterno, legato a valutazioni
puramente soggettive.
Le cose di per se stesse non hanno un valore. Un vaso è soltanto un vaso; può essere grande o piccolo, di terracotta o d'oro, bello o brutto, spoglio o decorato, tondo o quadrato; ma è sempre e soltanto un vaso, che non vale assolutamente nulla, se non c'è qualcuno che gli attribuisca un valore. Tutti gli oggetti, gli esseri o i concetti hanno un valore soltanto in quanto esiste un soggetto che glielo attribuisce. Viceversa, ciascun individuo attribuisce un valore, positivo o negativo, immenso o infinitesimo che sia, a tutto ciò che conosce, e cioè a tutti gli oggetti materiali, i concetti, le nozioni, i sentimenti, gli esseri, compreso se stesso.
Tutto ciò che ci è noto, dunque, ha per noi un "valore". Abbiamo visto, però, che il nostro comportamento nei confronti delle varie componenti della realtà è determinato proprio dal valore che attribuiamo loro. Quindi "quella cosa" che determina i nostri comportamenti si identifica con l'insieme dei valori che noi attribuiamo all'insieme delle nostre conoscenze.
Siamo arrivati, infine, ad individuare una realtà oggettiva, ben definita, l'insieme dei valori, che esiste di per se stessa, indipendentemente dal termine impiegato per indicarla, e a concludere che è proprio con questa realtà che deve essere identificato il concetto di "cultura", nel suo significato più vero e profondo. Pertanto l'unica definizione del termine che risulta accettabile e senza controindicazioni è la seguente: "Cultura è l'insieme dei valori che l'individuo attribuisce all'insieme delle proprie conoscenze".
E' una definizione precisa e restrittiva, perché stabilisce in modo esatto la natura del concetto e identifica nettamente e senza equivoci ciò che ne fa parte. Nello stesso tempo è comprensiva di tutto, perché tutto, per il solo fatto di essere noto, visto o pensato, ha per l'individuo un valore e ricade quindi sotto il dominio della cultura.
Trattandosi di una "realtà" oggettiva, ben individuata e delimitata, la "cultura" può essere studiata in maniera analitica, scientifica, rendendo possibile costruire quella scienza dei valori che dovrebbe consentirci di capire come si formano e agiscono, fornendoci uno strumento per influire su di essi e padroneggiarne gli effetti in maniera razionale.
Vediamo innanzitutto quali siano i valori che provocano dei comportamenti, se tutti o soltanto una parte di essi. Il valore, si è detto, è indipendente dalla natura dell'oggetto a cui è attribuito. Lo stesso oggetto può avere un valore insignificante per un individuo, enorme per un altro. Una pietra è soltanto un minerale, ma quale infinita gamma di valori possono assumere le pietre e quale infinita varietà di comportamenti possono indurre. Ci sono pietre che la nostra cultura definisce preziose, e quindi di enorme valore, soltanto perché rare e di bell'aspetto. Quanto sudore, fatica e sacrifici vengono compiuti per ricercarle! Quanti delitti, malversazioni, imbrogli per impossessarsene!
Ma non è la rarità o la lucentezza che determinano il valore delle pietre. La Pietra Nera della Kaaba è soltanto un comune meteorite; eppure centinaia di milioni di persone le attribuiscono un valore immenso, superiore a quello di tutti i diamanti e smeraldi della Terra. Per l'uomo del paleolitico, invece, le pietre che avevano maggior valore erano selci e ossidiane, con le quali confezionava strumenti che gli consentivano di sopravvivere; per procurarsele compiva lunghissimi viaggi, recandosi nei luoghi ove queste abbondano. Sono tre tipi di pietre nei cui confronti individui di diversa "cultura" attuano diversi comportamenti. Ognuno compie delle azioni, fa dei programmi o addirittura regola la propria vita in funzione di quel tipo di pietre cui attribuisce un grande valore.
I nostri comportamenti attivi, quindi, sono determinati dai valori preminenti. Il mussulmano tutti i giorni si inchina verso la Mecca e almeno una volta nella vita deve affrontare un lungo e pericoloso viaggio, per raggiungerla e toccare la Pietra Nera. Di fronte a una selce o un'ossidiana, invece, rimane indifferente: la scansa o la prende a calci se lo intralcia nel cammino, ma non fa nulla per cercarla o impossessarsene.
Anche questo è un comportamento; passivo, a differenza del primo, ma sempre comportamento, che assume una rilevanza enorme nel giudizio che altri può dare sulla cultura dell'individuo che lo attua. Se uno, ad esempio, non attribuisce alcun valore alla vita umana altrui, rimarrà del tutto indifferente di fronte alla sofferenza e alla morte e sarà disposto ad uccidere per un nonnulla, magari soltanto per passatempo. Quindi anche il "non" attribuire valore a determinate cose ha un'influenza determinante sul comportamento; anzi, normalmente è assai più significativo e caratterizzante in una cultura l'elenco delle cose cui non viene attribuito valore che viceversa.
Parimenti importanti sono i valori "negativi", attribuiti a quello che consideriamo cattivo, dannoso o peccaminoso, e che perciò combattiamo con comportamenti attivi, spesso di rilevanza di gran lunga superiore di quelli provocati da valori "positivi". Basta pensare alla enorme somma di energie che dedichiamo continuamente a difenderci o a combattere contro qualcosa o qualcuno.
Tutti i valori, dunque, positivi, negativi o nulli, sono "cultura" e tutti determinano dei comportamenti: quelli preminenti, sia positivi che negativi, in senso attivo, perché inducono l'individuo ad agire in funzione loro; quelli nulli in senso passivo, inquantoché l'individuo agisce, a causa loro, soltanto quando accidentalmente entrano nel suo raggio d'azione e interagiscono con la sua attività.
Ma è vero anche il contrario, ossia che tutti i comportamenti sono determinati da valori e quindi dalla cultura? Esistono comportamenti determinati da qualcos'altro? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto individuare ed esaminare le varie categorie di comportamenti possibili.
Cominciamo con una categoria di ... come definirli: azioni, atti, condizioni? legati al fatto che l'uomo esiste e pertanto vive, respira, sente, pensa, parla, vede, dorme, soffre, gode, si muove, mangia, digerisce, evacua le scorie, si ammala, muore.
Più che comportamenti, queste sono caratteristiche, modi di funzionare, "conditio sine qua non" dell'esistenza dell'essere umano. L'uomo, se vuole continuare ad esistere ed essere uomo, non può eliminarli o modificarli. Va da sè che a ciascuno di essi egli attribuisce un valore, e perciò mette in atto tutta una serie di comportamenti per assicurare il loro regolare svolgimento. Ad esempio evita di rimanere troppo a lungo sott'acqua, per assicurare la respirazione, si cura quando si ammala, mangia quando ha fame, si copre quando ha freddo, si riposa quando è stanco e così via. Esiste, quindi, tutta una serie di comportamenti, che sono imposti dalle esigenze fisiologiche dell'organismo e il cui fine ultimo è di assicurare l'integrità fisica e la sopravvivenza dell'individuo.
Si può notare che questi comportamenti sono eseguiti da un lato sotto l'impulso di stimoli spiacevoli, come fame, sete, sonno, freddo, dolore, caldo, urgenza, che creano una situazione di malessere per l'individuo; dall'altro con la prospettiva di sensazioni piacevoli, conseguenti al soddisfacimento delle esigenze fisiologiche, che crea una situazione di benessere o di piacere. Sono "premi" e "castighi" messi in atto dalla Natura, per indurre l'individuo ad adottare comportamenti idonei ad assicurare l'efficienza e la sopravvivenza del proprio organismo.
C'è anche tutta un'altra serie di comportamenti, in gran parte automatici, messi a punto dagli organismi viventi in milioni di anni di evoluzione, indispensabili per assicurare la propria integrità fisica. Ad esempio, se inavvertitamente si sfiora un oggetto pungente o bollente, subito dal cervello parte un ordine che automaticamente fa scostare la mano, senza l'intervento diretto della volontà dell'individuo; infatti agisce anche quando quest'ultimo dorme o non è cosciente. Altri comportamenti meccanici di questo tipo, ci fanno chiudere gli occhi quando si è colpiti in viso, mettere le mani avanti quando si cade e così via. Tutti mirano, in ultima analisi, ad assicurare la sopravvivenza dell'individuo.
C'è infine tutta una serie di comportamenti, solitamente definiti istintivi, determinati anch'essi da stimoli di vario genere, piacevoli e spiacevoli, come la paura, l'angoscia, l'amore, la gelosia, l'odio, il dolore morale, il piacere, che inducono a curare i figli, fare all'amore, fuggire di fronte ai pericoli e così via. Anch'essi sono stati messi a punto dalla Natura nel corso dell'evoluzione, e hanno lo scopo di assicurare la sopravvivenza non tanto (o non solo) dei singoli individui, quanto piuttosto della specie a cui appartengono.
Tutti questi impulsi, o, se preferiamo, premi e castighi (che sono comuni anche agli animali), provocano una somma di comportamenti che direttamente o indirettamente coinvolge una parte notevolissima delle attività umane. Sono comportamenti "culturali", e cioè determinati da valori, oppure no? E in caso negativo, quali sono i comportamenti culturali: solo quelli non intesi ad assicurare la sopravvivenza e voluti coscientemente? Ma è possibile distinguere un comportamento istintivo da uno che non lo è?
Esiste un meccanismo automatico che mi fa scostare la mano se tocca un oggetto bollente; però possiamo volontariamente inibirlo e mantenere la mano sul fuoco. Esiste lo stimolo a mangiare e bere; ma possiamo volontariamente lasciarci morire di fame e sete. La paura provoca un impulso a fuggire di fronte al pericolo; ma possiamo vincere l'impulso e affrontare il pericolo. L'istinto porta a curare i figli e uccidere i nemici; ma possiamo fare il contrario.
Togliere la mano dal fuoco, mangiare e bere quando si ha fame e sete, curare i figli, fuggire di fronte ai pericoli sarebbero quindi comportamenti dettati dall'istinto, e soltanto il loro contrario dalla cultura, e cioè dai valori? Cultura, insomma sarebbe tutto ciò che va contro l'istinto? Se così fosse, ne risulterebbe una suddivisione dei comportamenti estremamente artificiosa e arbitraria. Non è possibile, infatti, distinguere ciò che è istintivo da ciò che non lo è.
L'istinto agisce tramite impulsi che nascono nel nostro cervello, e possono essere paura, attrazione, repulsione, amore e così via. Questi impulsi li definiamo istintivi quando sono innati nell'individuo, e cioè sussistono indipendentemente dall'educazione. E’ fuori dubbio, però, che essi possono essere modificati, esaltati o addirittura soppressi con l'educazione, come pure possono essere estesi ad altri campi e oggetti che non riguardano la sopravvivenza dell'individuo o della sua specie.
Istintivamente noi proviamo paura di fronte ad un precipizio, o a una belva, o a un qualsiasi pericolo fisico reale, ma proviamo paura, e spesso molto maggiore, anche di fronte a tutta una serie di pericoli immaginari, prospettatici tramite l'educazione, come tabù, superstizioni, l'inferno. Non c'è alcuna differenza sostanziale fra la cosiddetta paura istintiva e quella provocata dall'educazione. Entrambe nascono negli stessi centri cerebrali e inducono nell'organismo gli stessi identici effetti, con la stessa influenza sul comportamento.
I riflessi condizionati cui abbiamo accennato poco fa sono innati; ma si possono creare (e si creano) riflessi altrettanto condizionati per mezzo dell'educazione e dell'addestramento. Quasi tutte le attività che l'uomo compie ripetitivamente finiscono per divenire abitudini, e cioè comportamenti automatici, per nulla diversi dai riflessi condizionati istintivi.
Anche i metodi che l'educazione adotta per inculcare determinati comportamenti, fino a farli divenire automatici, sono gli stessi della Natura, e cioè basati su premi e punizioni di vario genere. Giorno per giorno il bambino viene sgridato e sculacciato, se si comporta "male" a tavola, a scuola e nei rapporti con gli altri e con se stesso (dita nel naso, pulizia personale ecc.), lodato e premiato quando si comporta "bene", finché un certo modo di comportarsi non diviene automatico per lui, indistinguibile dai cosiddetti comportamenti innati.
Esiste quindi nel nostro cervello un settore che può essere condizionato in modo da provocare ben determinati comportamenti automatici. L'unica differenza fra quelli acquisiti e quelli innati è che i primi sono inculcati per mezzo di una attività educativa esplicata sull'individuo nell'arco della sua esistenza, i secondi per mezzo di una attività "educativa" esplicata su innumerevoli generazioni di individui precedenti e trasmessa ereditariamente.
Questi ultimi sono, evidentemente, comportamenti che nel corso dell'evoluzione si sono dimostrati utili alla sopravvivenza della specie e sono stati quindi "premiati" con la sopravvivenza stessa (mentre i comportamenti dannosi sono stati "puniti" con l'estinzione degli individui o della specie che li attuavano). Essi vengono spesso indicati col nome di "comportamenti genetici", sottintendendo che sono dovuti a particolari "geni" dei cromosomi cellulari. E' un'idea alquanto radicata anche negli ambienti scientifici, ma discutibile. I cromosomi costituiscono soltanto una piccola parte delle due cellule che concorrono a formare l'individuo. Non è possibile che essi da soli contengano tutte le informazioni relative al futuro essere che va formandosi e che il resto sia un semplice supporto meccanico.
I cromosomi contengono una parte essenziale delle informazioni, perché fissano le caratteristiche dell'individuo che dovrà essere formato; definiscono nei dettagli i suoi vari organi, il loro funzionamento, la forma, le dimensioni, il colore e i tempi in cui il tutto deve essere realizzato (che non si esauriscono con la nascita, ma con la morte dell'individuo). Essi rappresentano i "piani costruttivi" della macchina uomo (o animale).
Ma le "istruzioni per l'uso", come va curata, alimentata e manutenuta, sono tutt'altra cosa: sono quelli che abbiamo definito istinti e che, a differenza dei piani costruttivi, possono essere modificati nel giro di poche generazioni o anche pochi anni per mezzo dell'educazione. E' inverosimile che questo genere di informazioni sia contenuto nei cromosomi. Esse devono essere fissate in altre parti della cellula; le stesse, probabilmente, dove si fissano le informazioni acquisite in seguito.
Dobbiamo concludere, quindi, che non esiste una differenza sostanziale fra comportamenti innati e acquisiti. Si tratta di vedere se anche quelli innati sono "culturali", se sono cioè provocati da valori oppure no.
Noi educhiamo gli individui in modo che si comportino in determinate maniere piuttosto che altre, sulla base di determinati insiemi di valori. Ad esempio, se attribuiamo un grande valore alla convivenza sociale, acquistano per noi un elevato valore anche tutte quelle cose che servono, o riteniamo servano, a favorire detta convivenza: le buone maniere, la tolleranza, il rispetto reciproco.
E' lo stesso per i comportamenti innati? Evidentemente sì: essi sono determinati dal complesso di valori che servono il valore preminente della Natura, quello della sopravvivenza. Tutto ciò che è utile o indispensabile alla sopravvivenza dell'individuo, come pure della specie, ha un valore innato, inculcato nell'organismo attraverso successive generazioni per mezzo di premi e castighi, che puniscono chi non agisce in conformità a quei valori e premiano che vi si attiene.
Senza il dolore fisico e morale, o la paura della morte, gli animali superiori non avrebbero alcuna probabilità di sopravvivere, come non potrebbero sopravvivere le specie di uccelli e mammiferi, se la prole non avesse per le madri un grande valore, tale da indurle a curarla e difenderla a qualsiasi costo.
Si dice che gli animali agiscono così soltanto per istinto, ma non sempre è vero. Non tutti i valori posseduti dagli animali, almeno quelli superiori, sono innati: una gran parte si formano per mezzo dell'esperienza, attraverso la quale l'animale acquisisce conoscenze, altri animali, piante, oggetti, nascondigli, situazioni, pericoli, a cui attribuisce un ben preciso valore, a seconda degli stimoli piacevoli o spiacevoli (dolore, piacere, paura) che essi hanno indotto su di lui.
Sfruttando i meccanismi di premio e di castigo messi a punto dalla natura, si possono inculcare negli animali anche valori estranei alle loro specifiche esigenze di sopravvivenza. E' quanto facciamo normalmente con gli animali domestici, a cui inculchiamo valori innaturali per la loro specie, ma rispondenti a nostre esigenze. Un tartufo, ad esempio, non significa nulla per un carnivoro; ma ci sono cani che, grazie all'educazione e all'addestramento, gli attribuisco un grande valore e perciò attuano comportamenti attivi di ricerca nei suoi confronti.
Anche i comportamenti animali, quindi, sono determinati da valori. Perciò, benché molti rifiutino l'idea che essi possano avere in comune con l'uomo quella che ritengono una sua prerogativa esclusiva (allo stesso modo come molti rifiutarono, e addirittura rifiutano ancor oggi, l'idea di una comune origine genealogica), è fuori dubbio che, se per cultura intendiamo il complesso dei valori attribuito a tutto ciò che è noto, anche gli animali la possiedono.
Esistono, ovviamente, delle differenze profonde. La cultura dell'animale è sempre inconsapevole (almeno così supponiamo), è acquisita interamente in modo passivo e non è modificabile per volontà dell'animale stesso. Nell'uomo, invece, la cultura può essere cosciente, nel senso che egli può capire perché attribuisce valore a determinate cose piuttosto che ad altre. Oltre che in modo passivo, tramite l'istinto, o l'imitazione, o per imposizione esterna, può essere acquisita anche in modo volontario e attivo, mediante il ragionamento e la ricerca di nuove conoscenze. Infine è sicuramente modificabile per volontà dell'individuo stesso, che può stabilire razionalmente quali siano i propri valori preminenti.
Questo perché egli possiede capacità intellettuali molto superiori a quelle degli animali, le quali gli consentono di ampliare enormemente il campo delle proprie conoscenze, estendendolo, oltre che all'apparenza sensibile, anche alla natura intima delle cose e ai concetti astratti. Superiorità intellettuale, però, non significa necessariamente superiorità "culturale". Quando si dice di un uomo: "è peggio di una bestia .. è una belva ... un animale!", implicitamente si fa un paragone non intellettuale, ma culturale; si mettono a confronto dei comportamenti, che sono appunto determinati da valori. E' comunque un confronto ingeneroso per l'animale: i suoi valori sono obbligati, imposti dall'evoluzione e dall'esperienza; mentre l'uomo è libero di scegliere quale valore supremo della propria vita qualsiasi cosa: Dio, il denaro, il potere, la scienza, un ideale di società, la libertà, la razza, se stesso e così via.
I valori si stabiliscono nella mente in due modi: l'uno passivo, nel quale l'individuo assorbe i valori dall'esterno in maniera inconsapevole, o comunque acritica; l'altro attivo, mediante il quale egli elabora, in maniera più o meno cosciente e razionale, la scala dei valori propostagli dall'esterno, creando la sua personale scala dei valori.
La maggior parte dei valori viene acquisita in modo passivo, per trasmissione genetica, per esperienza diretta e per imposizione esterna. La cultura, quindi, è in larga parte inconsapevole, nel senso che l'individuo non si rende conto di possederla. Ogni cosa nota viene ad assumere nel suo io un ben determinato valore, che nella maggior parte dei casi egli non si sogna neppure di discutere: lo assume come un dato di fatto che è così e basta. Si rende conto di possederlo soltanto se viene a contatto con altre culture che attribuiscono valori diversi alle stesse cose.
I valori si imprimono nel cervello umano attraverso vari processi, fondamentalmente l'educazione e il sistema dei premi e castighi, normalmente indipendenti dalla volontà del singolo. Naturalmente possiamo modificare la scala dei valori con il ragionamento; ma la ragione non è in grado di agire sul cervello in modo altrettanto efficace. Accade in continuazione che pensiamo e diciamo in un modo, ma poi in pratica agiamo in modo diverso. Evidentemente perché la gerarchia effettiva dei valori che sono stati impressi nel nostro io è diversa da quella che razionalmente vorremmo stabilire. Sogniamo una vita semplice, bucolica, priva di stress e competizione, ma poi ci impegniamo anima e corpo nella carriera, nella lotta per il successo e il denaro; evidentemente perché il nostro io è stato profondamente condizionato a dare importanza a queste cose.
Razionalmente possiamo anche concludere che una data cosa, cui siamo stati educati a dare un grande valore, non ne possiede alcuno, ma nostro malgrado continueremo a darle importanza, se non altro come valore negativo, da distruggere. In questo caso può succedere che anziché scendere, salga di molto nella scala gerarchica. Un individuo cresciuto in un ambiente di superstiziosi da adulto può concludere razionalmente, e in piena convinzione, che le superstizioni sono tutte sciocchezze prive di valore. Questo non lo salva dal provare un profondo disagio quando, ad esempio, un gatto nero gli attraversa la strada. Innumerevoli persone, istruite e razionali, in un caso del genere rifiutano di proseguire per la loro strada, come pure non siederebbero mai ad un tavolo in tredici, non inizierebbero un'attività di venerdì 17 e così via. Non ci credono razionalmente, ma ormai quei valori sono radicati nel loro io e condizionano il loro comportamento.
E' evidente che i valori si imprimono in una qualche parte del cervello, che esercita un controllo diretto sull'organismo ed è in grado di indurre reazioni fisiologiche anche imponenti, indipendentemente dalla volontà dell'individuo. Succede a volte che un cane si lasci morire per la perdita del suo padrone, o un uccello rifiuti il cibo se privato della libertà. Evidentemente perché vi attribuiscono un valore superiore a quello della propria sopravvivenza. Quella, si obietterà, è una reazione fisiologica: né il cane né l'uccello si lasciano morire di fame per decisione propria, ma evidentemente perché, in seguito al fatto, si scatena nel loro organismo una reazione depressiva, che fa perdere loro l'appetito. E' giusto. Succede, però, anche a noi uomini di perdere l'appetito, divenire tristi e abulici, essere colpiti da infarto, di avere cioè reazioni che incidono direttamente sull'organismo, quando perdiamo qualcuno o qualcosa cui attribuiamo un grande valore.
Cos'è che scatena queste reazioni fisiologiche? Un cane non si dispera certo se muore il padrone di un altro cane, ma solo il suo, quello cui attribuisce un grande valore. E' il valore attribuito alla cosa perduta che scatena la reazione fisiologica. Un avaro che perde il suo gruzzolo ha le stesse reazioni di una madre che perde un figlio, perché gli attribuisce un valore paragonabile. Così per l'animale. L'unica differenza è che l'animale non arriverà mai, per scelta propria, ad attribuire un valore a cose inutili o addirittura dannose alla sopravvivenza propria e della specie.
L'animale più feroce uccide solo se necessario alla sopravvivenza; l'uomo uccide i propri simili per mille altri motivi. Si valuta che la conquista dell'America abbia provocato la morte di almeno 100 milioni di individui. A più di 200 milioni si calcola ascenda il numero dei morti provocati dai razziatori di schiavi in Africa. Centinaia di milioni di morti sono stati provocati da Stalin, Hitler, Napoleone e l'innumerevole schiera di altri piccoli e grandi tiranni, immortalati ed esaltati nelle nostre pagine di storia. In nome di quali valori l'uomo ha provocato e provoca quest’oceano di lutti e sofferenze? Davvero la sua "cultura" è sempre superiore a quella degli animali?
Nel corso della sua vita e della sua attività quotidiana, l'individuo si trova continuamente a dover risolvere dei problemi di comportamento, a prendere decisioni più meno importanti e immediate, dall'indirizzo da dare alla propria esistenza, all'attività da svolgere nella giornata, al comportamento da adottare di fronte agli innumerevoli fatti e sollecitazioni che provengono dall'ambiente, e che in massima parte esulano dalla sua volontà.
Tutti i comportamenti, istante per istante, vengono "decisi" dall'individuo sulla base della sua "cultura", e cioè dei valori che egli attribuisce, in maniera più o meno cosciente, ai vari elementi che costituiscono la situazione del momento. E' ovvio che, di fronte a ciascuna delle situazioni che gli si presentano, la varietà di comportamenti che l'individuo può adottare è pressoché infinita. Ogni singolo fatto quotidiano, quindi, dal più banale al più grave, rappresenta per l'individuo un problema di scelta fra gli infiniti comportamenti attuabili. Come lo risolve? Il più delle volte il comportamento è immediato, senza un processo decisionale cosciente, perché tutti gli elementi della situazione che gli si presenta, hanno per l'individuo un ben preciso valore, ed egli automaticamente agisce in funzione di quello, fra i valori coinvolti, che è preminente rispetto agli altri.
Ma se, per ipotesi, l'individuo non possedesse valori di sorta, come agirebbe? Ogni suo singolo comportamento sarebbe frutto del caso, perché istante per istante egli attuerebbe indifferentemente, senza alcun criterio di scelta, uno qualsiasi degli infiniti comportamenti possibili, oppure non agirebbe affatto. Sarebbe un vegetale ambulante, una macchina senza controllo, o un essere in coma, non certo un individuo. Ed è ovvio che la sua sopravvivenza sarebbe impossibile. La stessa cosa accadrebbe se tutte le cose avessero per lui lo stesso identico valore, perché non sarebbe in grado di decidere. E' una condizione imprescindibile: una decisione razionalmente giustificata, che non sia frutto del caso, può scaturire soltanto se esiste una gerarchia fra i valori coinvolti nella situazione in esame.
E' noto a tutti l'aneddoto dell'asino di Buridano: un asino affamato è posto esattamente in mezzo a due mucchi di fieno uguali; la povera bestia, sollecitata in ugual misura dai due mucchi, non sa decidersi quale scegliere e finisce per morire di fame. I due mucchi hanno identico "valore" per la bestia e ciò è sufficiente per paralizzarne il comportamento. Basterebbe che uno dei due fosse un po' più vicino o più grande, per far scomparire ogni indecisione. Questo aneddoto, che sembra paradossale, rispecchia invece la realtà di tutti i giorni: a tutti noi succede di non riuscire a prendere una decisione, perché i valori in gioco sono di importanza paragonabile. Esso ci aiuta a comprendere un fatto fondamentale nella dinamica dei valori. Non è l'importanza in assoluto di un certo valore che determina il comportamento dell'individuo, ma la sua importanza relativa, cioè rispetto al valore degli altri elementi che entrano nella considerazione dell'individuo durante il processo decisionale.
Non è la "grandezza", ma la "gerarchia" dei valori quella che conta. Predicare il ristabilimento di determinati valori, non significa nulla. Bisogna indicarne una precisa gerarchia a fronte di altri valori. E' inutile dire che la vita dell'uomo è importantissima, anzi sacra, se poi il fatto che egli nutra determinate opinioni piuttosto che altre viene considerato ancora più importante. Le cronache delle guerre di religione europee, tanto per citare uno degli innumerevoli esempi offerti dalla Storia, registrano milioni di uomini, donne e bambini trucidati con raccapricciante crudeltà, città rase al suolo, intere nazioni devastate, solo perché le opinioni religiose degli uni non coincidevano esattamente con quelle degli altri. Il tutto perpetrato da campioni della cristianità, portatori di altissimi valori "umani", in "civilissime" nazioni quali la Francia, la Germania, la Spagna, l'Italia, l'Inghilterra di soltanto pochi secoli or sono.
Ci consoliamo dicendo che "oggi" queste cose non succedono più, ma è un voler chiudere gli occhi davanti alla realtà: massacri, o anche veri e propri genocidi, per ragioni puramente etniche, religiose o ideologiche, sono all'ordine del giorno in ogni dove nel mondo. Tutto ciò accade spesso proprio in nome di quei valori che ci vengono proposti con forza come il toccasana di ogni malanno sociale. Valori di per se stessi non necessariamente negativi, ma assurti a un livello gerarchico superiore ad ogni altro.
Una cultura non si può giudicare semplicemente sulla base di ciò che viene considerato importante. La cosa essenziale è la scala gerarchica dei valori. Se la purezza dottrinale, o razziale, o ideologica vengono considerate più importanti della vita o della libertà del singolo individuo, non c'è dubbio che il legislatore, il giudice e il governante privilegeranno le prime a scapito della seconda. Ogni decisione di comportamento, infatti, viene presa sulla base di quello, fra gli infiniti valori coinvolti in una determinata situazione, che viene "assunto" come preminente.
Ma chi stabilisce il livello gerarchico dei valori? Esiste una gerarchia "naturale", o si tratta invece di una scelta individuale, soggettiva? E' facile constatare che la scala gerarchica dei valori muta con estrema facilità e velocità a seconda degli individui, delle circostanze, dei tempi, e anche, per uno stesso individuo in un dato momento, a seconda del "punto di vista" da cui esamina un determinato problema.
Ad esempio, un economista, un politico o un militare stabiliranno ciascuno una diversa gerarchia di valori fra gli elementi che concorrono a formare una medesima situazione. Lo stesso ponte giudicato di vitale importanza dall'economista, può diventare un bersaglio da eliminare a tutti i costi nella valutazione del militare. Economista e militare, ovviamente, possono essere la stessa persona che valuta una certa situazione da due differenti "punti di vista", ponendo cioè al vertice della scala dei valori volta a volta l'economia o la difesa, e subordinando ad esse tutti gli altri valori. In tal modo si formano gerarchie di valori che hanno una giustificazione logica, perché stabilite sulla base di valutazioni circa l'utilità o il danno di ciascun elemento nei confronti del valore assunto come preminente.
La scala gerarchica dei valori, quindi, è comunque relativa e dipende esclusivamente dal valore che si assume come preminente, cioè dal "valore guida". Basta scegliere un valore guida qualsiasi e stabilire razionalmente quali siano le cose e i concetti che hanno importanza in relazione ad esso, per creare una cultura particolare con metodi scientifici, mediante la ricerca e il ragionamento.
Quel che appare evidente, è che non possono coesistere in una stessa cultura due o più valori guida di pari livello gerarchico. Ce n'è sempre uno che deve prevalere su tutti, purtroppo: la Storia dimostra che gli eccessi più abominevoli sono stati perpetrati in nome degli ideali e valori più nobili, come ad esempio la libertà, l'uguaglianza e la giustizia. Esiste il modo di impostare una "cultura" adeguata alle esigenze umane in ogni circostanza, sulla base di un unico valore guida, evitando quegli eccessi?
Per esprimere giudizi sulle cose, come ad esempio grande e piccolo, largo e stretto, leggero e pesante, l'uomo si serve di determinati riferimenti, in relazione ai quali giudica le dimensioni degli oggetti. Quali sono i riferimenti che assume per i giudizi morali?
Concetti come buono e cattivo, giusto e ingiusto, bello e brutto, sono essenzialmente relativi. Non esistono il bene, il male, la giustizia, la bellezza in assoluto; come non esiste il grande e il piccolo. Eppure l'uomo continuamente esprime giudizi sulle cose, sulle persone, sui concetti e sui comportamenti propri e altrui. Ci sono cose giudicate buone e altre cattive; comportamenti buoni e giusti altri cattivi e ingiusti. Su che base emette questi giudizi? Evidentemente i valori che formano la sua cultura. Sono i valori il metro del buono e cattivo, del giusto e ingiusto.
Le società che danno un grande valore alla fedeltà della donna, troveranno giusto e sacrosanto che l'adultera, la quale ha infranto questo valore, venga punita con la morte. Altre società, come quella eschimese, attribuiscono alla fedeltà coniugale un valore diverso, addirittura opposto, e troveranno sconveniente che la moglie rifiuti di intrattenersi con un ospite.
Non molto tempo fa in Europa era giusto e sacrosanto torturare e bruciare le streghe e gli eretici. Il grande Torquemada aveva la coscienza tranquilla e serena dell'uomo che è sicuro di agire giustamente, perché giudicava sulla base di una scala gerarchica dei valori ben diversa da quella attuale.
Gli Aztechi giudicavano buono e giusto sacrificare agli dèi vittime umane. Noi, che invece giudichiamo con orrore quei comportamenti, troviamo giusto "sacrificare" al progresso, e all'automobile decine di migliaia di vittime innocenti ogni anno. "Il progresso vuole le sue vittime" si sente ripetere spesso: anche gli aztechi effettuavano i sacrifici umani per la prosperità del popolo. In Sud America, in un passato recentissimo, migliaia di desapparecidos sono stati torturati e uccisi in nome del popolo e della sua prosperità; e per lo stesso motivo nei paesi cosiddetti civili si imprigionano i sovversivi.
E' giusto tutto ciò? Dipende dai valori che assumiamo come metro di giudizio. E' del tutto evidente che coloro che attuano quei comportamenti, ritengono di agire per il meglio. Per se stessi i valori non sono né buoni né cattivi; diventano tali soltanto se li giudichiamo sulla base di altri valori. Qualsiasi giudizio morale ha sempre come metro di riferimento un ben determinato valore; e viceversa ogni valore comporta dei giudizi. Sono i valori che creano il senso della colpa e del peccato. Senza valori l'uomo non sarebbe in grado di giudicare del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e quindi non sarebbe in grado di giudicare il proprio comportamento e quello altrui.
La cultura moderna è caratterizzata dal fatto che non esiste una gerarchia di valori che faccia capo a un valore guida definito. Ciascun individuo è costantemente sollecitato a dare importanza alle cose più disparate. La famiglia gli propone determinati valori, la scuola, la religione, gli amici, altri; l'ambiente di lavoro, l'esperienza, i partiti, i politici, il cinema, i libri, altri ancora. E' un bombardamento incessante che mira a inculcare nell'individuo una moltitudine di valori nettamente in contrasto fra loro.
La religione gli insegna a non uccidere, ad amare il prossimo, compresi i nemici, a porgere l'altra guancia. Allo stesso individuo, quando va militare, vengono insegnati, con la benedizione della religione stessa, tutti i mezzi più sofisticati per uccidere dei propri simili, indicati come nemici. Il sesso è un valore innato, che procura piacere fisico, ma tutta l'educazione religiosa e sociale tende a soffocarlo. L'onestà viene predicata come uno dei valori supremi, ma poi in continuazione ci vengono proposti esempi di grandi delinquenti che dalla disonestà ricavano onori, benefici e prestigio.
Non c'è praticamente valore che non venga messo in discussione da altri valori concorrenti. Quali possono essere, oggi, i valori di riferimento per giudicare del bene e del male? Esiste un criterio oggettivo che consenta di stabilire una scala gerarchica dei valori "giusta" e universalmente accettabile?
vedi successivo:
Concetti collegati a quello di cultura
Torna a:
Definizioni del concetto di cultura
Torna a:
pagina iniziale