In Genesi 32,11 Giacobbe asserisce che "non aveva che il suo bastone quando attraversò il Giordano" per raggiungere Harran; il che significa che non possedeva nulla e che tutte le sue sostanze egli le accumulò in Mesopotamia. Che all'inizio fosse povero in canna lo dimostra, oltre che le parole citate dianzi, anche il fatto che dovette "pagare" le sue mogli prestando servizio gratuito presso il suocero; cosa questa che toccava soltanto agli spiantati, che non erano in grado di offrire altro.
Ma allora la tanto decantata primogenitura e la nomina ad erede universale a che cosa erano valse? A chi andarono le proprietà di Isacco e le sue immense ricchezze? Genesi si guarda bene dal toccare questo argomento, ma viste le circostanze non ci vuol molto a capire come siano andate le cose. Torniamo indietro, al momento della benedizione di Giacobbe. Esaù era il primogenito e si riteneva il legittimo erede ed era un uomo molto orgoglioso. Forse più che la perdita dei beni materiali trovava intollerabile dover servire il fratello minore. Perciò, scoppiando in pianto dirotto, implorò: "Ma tu, padre, hai una sola benedizione? Benedici anche me". Non erano evidentemente parole di conforto quelle che chiedeva, ma più concretamente una parte di eredità, un territorio, per quanto piccolo, dove egli potesse vivere padrone di se stesso, senza l'umiliazione di doversi inchinare ai voleri di suo fratello.
La risposta di Isacco è riportata in due versetti (Gn.27,39-40) che tradotti alla lettera suonano: "Vivrai in un territorio fertile, bagnato dalla rugiada che scende dall'alto dei cieli, vivrai con la spada, dovrai servire tuo fratello; quando non ne potrai più spezzerai il suo giogo e lo getterai lontano dal tuo collo". La maggior parte dei traduttori moderni forza il senso del testo originale, riportando una frase di tenore opposto: "Tu dovrai stabilirti lontano dai terreni fertili, lontani dalla rugiada che scende dall'alto dei cieli. Ti procurerai da vivere con la spada e dovrai servire tuo fratello.. Ma quando non ne potrai più spezzerai il suo giogo e lo getterai lontano dal tuo collo."[1]
Entrambi le versioni, interpretate alla lettera, non hanno un senso del tutto chiaro, probabilmente perché già l'originale doveva essere stato forzato da qualche ignoto copista o traduttore, nell’intento di favorire una propria personale interpretazione, esattamente come fanno i traduttori moderni. Ma forse possiamo stabilire il vero significato di quelle parole, tenendo conto della situazione nel momento in cui venivano pronunciate. Esaù piangeva a dirotto e urlava dalla disperazione. Quella scena straziante dovette turbare profondamente Isacco, che non aveva mai nascosto la sua predilezione per il "Rosso". Il povero vecchio morente dovette rispondere: "Non posso farci più nulla! Ho già stabilito che Giacobbe sia tuo padrone. Tutti i suoi fratelli dovranno servirlo (evidentemente anche Isacco, come già suo padre Abramo, aveva avuto figli da mogli di secondo rango). Anche tu dovrai servirlo, ma ho dato disposizioni perché tu possa vivere in un territorio fertile e bagnato dalla pioggia e che abbia il comando dell'esercito (vivrai della spada)."[2]
Le parole di Isacco probabilmente terminarono qui e le successive gli furono messe in bocca dai posteri a guisa di profezia. Ma non è escluso che sia stato proprio lui, resosi conto di essere stato raggirato dalla moglie e dal figlio minore, a proseguire: "Se però il servire tuo fratello ti è proprio insopportabile, io ti sciolgo dall'obbligo di obbedienza nei suoi confronti: spezza pure il gioco dal tuo collo e gettalo lontano da te." Sono parole gravi in bocca ad un capo di stato e ad un padre, ma giustificabili, tenuto conto del suo stato d'animo in quel momento.
Isacco dovette morire subito dopo, forse il giorno stesso, sopraffatto dal dolore e dall'angoscia per la situazione che aveva creato, designando Giacobbe a succedergli. Ma in ogni caso Esaù continuava a ritenersi il legittimo erede e non aveva alcuna intenzione di onorare le disposizioni del defunto genitore, che egli riteneva estorte con l'inganno. Anzi, non fece mistero di delle sue intenzioni di togliere di mezzo l’intrigante fratello. Giacobbe aveva dalla sua parte il diritto, essendo stato "benedetto". Ma evidentemente Esaù poteva contare sull'appoggio dell'esercito e si sa che contro la forza la ragion non vale. Su consiglio della madre, Giacobbe fuggì precipitosamente, abbandonando ogni cosa.
Fuggito Giacobbe, Esaù evidentemente si impossessò dei domini di suo padre e se ne fece signore. Perciò, almeno in un primo tempo, egli dovette continuare ad abitare fra Ebron e Beer Sheba. Quando però vent'anni dopo Giacobbe rientrò in Palestina, troviamo Esaù signore di Seir, una regione semidesertica a sud-ovest del Mar Morto, che era stata fino ad allora dominio degli urriti del figlio di Abramo Seir. Come mai questo cambiamento?
La Genesi cerca di giustificarlo dicendo che "Esaù prese le sue mogli, i suoi figli e le sue figlie, tutte le persone di casa sua, il suo bestiame e tutti i beni che aveva accumulato nella terra di Canaan, e andò nella regione di Seir, lontano da suo fratello Giacobbe. Non potevano stare insieme perché il loro beni erano troppo grandi: il loro bestiame era tanto numeroso che il territorio nel quale si trovavano non offriva pascoli sufficienti. Così Esaù, chiamato anche Edom, si stabilì sulla montagna di Seir" (Gn.36,6-8).
E' un brano sicuramente spurio, perché presenta inesattezze sostanziali, facilmente rilevabili anche ad un esame superficiale; la più grave è il motivo addotto come causa della partenza di Edom, che presuppone una situazione di idilliaco accordo fra i due fratelli, i quali si sarebbero divisi pacificamente e senza rancore, come già a suo tempo Abramo e Lot. Sappiamo invece che Giacobbe fuggì da Canaan per non essere ucciso dal fratello, e quando tornò, venti anni dopo, Edom era già insediato nel paese di Seir. Si tratta di sapere quando e perché Esaù abbandonò Ebron in favore di Seir, cosa che purtroppo non è possibile ricavare dalle scarne notizie di Genesi.
Il mistero si infittisce ancor più se consideriamo le circostanze del rientro di Giacobbe in Palestina. Al momento della partenza sua madre Rebecca gli aveva detto: "Resterai da Labano fino a quando tuo fratello non si sarà calmato. Ti manderò a prendere quando la sua collera verso di te si sarà placata ed egli avrà dimenticato quel che gli hai fatto" (Gn.27,44-45). Da questo momento, però, non abbiamo più alcuna notizia di Rebecca. L'unico dato certo è che essa morì prima del ritorno del figlio prediletto, che non la rivide mai più; ma non sappiamo dove e quando, esattamente. Ma se non fu lei, a richiamare Giacobbe, chi o cosa indusse quest'ultimo a lasciare la Mesopotamia?
Altro fatto di cui non si capisce il motivo è che Giacobbe, una volta rientrato in Palestina, non si stabilì, come sarebbe logico aspettarsi, nei territori di cui era stato investito da suo padre, e cioè il feudo fra Ebron e Beer Sheba; non subito, per lo meno. In un primo tempo egli si stabilì a Succot (Gn.33,17), poi a Sichem, dove acquistò un terreno per accamparsi (Gn.33,18-20); poi a Betel (Gn.35,6), dove morì Debora, nutrice di Rebecca, poi a Efrata (Gn.35,16), dove morì Rachele nel dare alla luce Beniamino, poi a Migdol Eder (Gn.35,21). Sono tutte località della Palestina centrale, dove né Abramo né Isacco avevano mai avuto alcun possedimento. Ritroviamo Giacobbe a Beer Sheba soltanto nel momento in cui il faraone lo mandò a prendere per portarlo in Egitto (Gn.46,1-5). Dal testo, però, sembrerebbe che egli fosse lì soltanto in transito nel suo viaggio verso l'Egitto.
Non risulta d'altra parte che Giacobbe avesse possedimenti territoriali, ad eccezione del "campo" acquistato a Sichem. Egli pascolava il proprio bestiame nei territori altrui, e anche questo, se vogliamo, è un fatto stupefacente e difficilmente spiegabile sulla base di quello che dice la Genesi. Giacobbe era possessore di mandrie di bovini, che necessitano di pascoli ricchi, e non soltanto di greggi di capre, che possono sfruttare terreni marginali, non utilizzabili dalle popolazioni stanziali. Pertanto egli doveva aver avuto delle autorizzazioni speciali per usufruire di tali pascoli, che avevano senza dubbio dei legittimi proprietari; ma chi e perché gliele aveva concesse?
C'è infine un particolare non trascurabile, che la Genesi invece trascura completamente. Abramo, si è visto, possedeva centinaia di servi. Per lo meno altrettanti doveva possederne Isacco, a cui vanno aggiunti familiari e parenti più o meno lontani. Quando Giacobbe fuggì in Mesopotamia era solo, il che significa che tutta questa gente, a partire da sua madre Rebecca, era rimasta in Palestina. Che fine ha fatto una tale moltitudine di persone? Hanno tutti seguito Esaù a Seir? Ma per quale motivo avrebbero dovuto lasciare una zona fertile come quella di Ebron, per ridursi in un deserto?
Fra l'altro esiste la prova certa che almeno una parte di queste persone si ricongiunse a Giacobbe dopo il suo rientro in Palestina. In Genesi 35,8, infatti, si dice che "in quei giorni morì Debora, la balia di Rebecca, e fu sepolta presso Betel". Debora era ovviamente rimasta in Palestina insieme a Rebecca; se la troviamo qui, insieme a Giacobbe è segno che lo raggiunse e si unì a lui dopo il suo ritorno. Ma quando, dove, perché e con quanta altra gente insieme a lei? Sono tutte domande a cui la Genesi non dà risposta.
C'è evidentemente una grossa lacuna nella narrazione di Genesi, che tace sugli avvenimenti accaduti in Palestina nei venti anni dell'esilio di Giacobbe. Forse perché si trattò di fatti terribili o umilianti, che la tradizione o il redattore non hanno ritenuto di dover tramandare. E tuttavia, se vogliamo ricostruire con qualche fondamento le vicende di Giacobbe, è indispensabile riuscire a scoprire cosa è accaduto in Palestina nei venti anni della sua assenza. Poiché Genesi non ci fornisce lumi in proposito, dobbiamo rivolgerci alle fonti storiche. Fortunatamente abbiamo proprio di questo periodo notizie di prima mano di quel che accadeva allora nel Medio Oriente.
Vediamo di che periodo si tratta. Giacobbe nacque, si è detto, nel 12/13.mo anno di Amenofi III e lasciò la Palestina circa venti anni dopo, vale a dire nel 30/33.mo. I successivi venti anni della storia egizia comprendono quasi per intero il regno del faraone "eretico " Akenaton. Akenaton aveva trasferito la corte da Tebe ad Amarna, dove aveva ricostruito in tutta fretta la reggia, dedicandosi al nuovo culto del sole. Alla sua morte la nuova reggia fu abbandonata e la corte tornò a Tebe. Nei sotterranei del palazzo rimasero abbandonate, incise su tavolette d’argilla, le copie delle lettere che Akenaton aveva ricevuto durante il suo regno da principi soggetti e regnanti stranieri. Tremila anni dopo queste lettere, scoperte e decifrate, forniscono un quadro realistico della situazione politica di allora in Asia e soprattutto in Palestina.[3]
L’impero ittita era allora in fase espansiva e si ingrandiva a spese dell'impero mitanni, a cui tolse dapprima i possedimenti siriani, per poi arrivare a saccheggiare addirittura la capitale, Wassukanni. Suppiluliumas si ingrandì anche a spese dell'impero egizio, rendendo tributari principi della Siria meridionale.[4] Egli evitò una guerra diretta contro il faraone, ma favorì disordini all'interno dell'impero egizio, incoraggiando principi a lui favorevoli ad impadronirsi dei territori di principi fedeli al faraone.
Invano questi ultimi si rivolsero al faraone sollecitandone l'aiuto. Akenaton, tutto preso dalle sue follie religiose, e forse anche per un preciso calcolo politico, non avendo alcuna intenzione di ingaggiarsi in una guerra contro Suppiluliumas, con il quale intratteneva buoni rapporti epistolari[5], non si mosse e lasciò campo libero agli ittiti. All'interno dell'impero egizio si ricreò la stessa situazione esterna: gli antichi apiru ittiti, che, come abbiamo appurato nella seconda parte, avevano un proprio principato nella Palestina, confinante a Ebron con quello di Abramo, approfittando, se non proprio dell'appoggio aperto, per lo meno dell'inerzia del faraone, cercarono di impadronirsi dei feudi appartenenti agli apiru di origine mitanni.
Che i rapporti fra gli apiru ittiti e quelli mitanni si fossero guastati con l'andare del tempo è provato anche dalle indicazioni della Genesi. Alla morte di Sara, Abramo acquistò la tomba di famiglia a Mac Pelà proprio dall'ittita Efron, e dai complimenti e salamelecchi che i due si scambiarono in quell'occasione è evidente che c'era perfetto accordo fra loro. Poco più di quarant'anni dopo, Rebecca pronuncia parole molto gravi, che denotano un disgusto profondo nei confronti degli Ittiti: "A causa delle mogli ittite di Esaù ho perso il gusto di vivere. Se anche Giacobbe prende in moglie un'ittita, preferisco morire!" Rebecca era nata a Nahor ed è da ritenere che fosse molto legata alla propria famiglia mesopotamica (non per niente è proprio lì che manda Giacobbe). Il suo atteggiamento nei confronti degli ittiti locali è probabilmente dovuto alla pressione che l'impero ittita esercitava allora sull'impero mitanni. E comunque è un chiaro indizio che i rapporti con i vicini ittiti non erano più idilliaci come un tempo.
Dopo la partenza di Giacobbe, questi rapporti dovettero peggiorare ulteriormente, fino a sfociare in guerra aperta. E' indicativa a questo proposito una lettera scritta verso la fine del regno di Akenaton da un suo feudatario, tale Suwardata, che dice: "Al re mio signore, mio sole. Così parla Suwardata, il tuo servo, il servo del re e la polvere dei suoi piedi, la terra che tu calpesti. Ai piedi del re mio signore, sole del cielo, sette volte sette mi gettai a terra, sia sul ventre come sulla schiena ... Sappia il re, mio signore, che gli apiru mi attaccano nelle terre che mi ha dato il dio del re mio signore, e che io ho combattuto, e sappia il re mio signore che tutti i miei fratelli mi hanno abbandonato, e che io e Abdi-Khepa siamo quelli che lottiamo contro il capo degli apiru. E Zurata, principe di Acco, e Indurata, principe di Acsaf, furono coloro che si affrettarono ad aiutarmi con 50 carri, di cui ora sono privato. Ma vedi, essi combatterono contro di me, e si compiaccia il re, mio signore, di mandare Janhamu, affinché possiamo condurre a termine la guerra seriamente e ristabilire la terra del re, mio signore, ai suoi primitivi confini..."[6]
I nomi Suwardata, Zurata e Indurata sono di chiara origine ariana. Indurata si ritrova addirittura identico nei Veda e in altri scritti sanscriti anteriori. Il nome di Abdi-Khepa, principe di Salem, invece, è di origine urrita. Si tratta quindi verosimilmente di feudatari di origine mitanni, tutti alleati fra loro, in guerra contro un nemico comune, gli apiru. Di qui a concludere che gli apiru cui si riferiscono le lettere di Amarna fossero ittiti il passo è breve ed obbligato. E' la dimostrazione che gli Ittiti fecero all'interno dell'impero egizio quello che stavano facendo all'esterno: si impadronirono dei territori dei mitanni, grazie alla connivenza o inerzia del faraone. Gli storici sembrano attribuire l'atteggiamento di quest'ultimo a inettitudine o indifferenza totale nei confronti dei problemi dello stato. E' più probabile, invece, che si trattasse di una precisa scelta politica. A quei tempi esisteva a corte un forte partito favorevole agli ittiti, il quale condizionò pesantemente la politica sia estera che interna di Akenaton e del suo successore Tutankamon, e dopo la morte di quest'ultimo tentò addirittura di far salire sul trono d'Egitto un principe ittita.[7]
I primi feudatari di origine mesopotamica, mitanni, insediati in Palestina furono Lot e Abramo. Pertanto questi principi palestinesi di origine ariana che fanno la loro comparsa nelle cronache storiche meno di cinquanta anni dopo, dovevano essere legati ai primi da vincoli di parentela. Di essi, quello che attira di più il nostro interesse è proprio l'autore della lettera citata, Suwardata, che in essa si qualifica come "principe di Ebron". E' una notizia sconvolgente. Isacco, signore di Ebron, era morto da pochi anni. Giacobbe, suo erede designato, era in esilio ad Harran, costrettovi da Esaù. Nel frattempo questo Suwrdata, che dichiara di essere il principe di Ebron, si trova attaccato dai suoi confinanti ittiti.
Chi era Suwardata? Per quanto ci è stato possibile concludere sulla base delle indicazioni fornite dalla Genesi, in quel momento signore di Ebron non poteva essere altri che Esaù, il quale, dopo aver costretto all'esilio il fratello, si era certamente impadronito dell'eredità di Isacco. Suwardata, quindi, deve identificarsi con Esaù. Ogni residuo dubbio cade se si considera che anche il nome è esattamente lo stesso. Nella lingua ebraica le vocali non vengono scritte; il nome "Esaù" si scrive soltanto con le tre consonanti ayin, sin e waw: 'Sw (ayin, indicata col segno ', è muta). Anche nella scrittura cuneiforme ed in quella geroglifica le vocali non venivano scritte, pertanto la pronuncia Suwardata è ipotetica, perché il nome in realtà è scritto: 'Sw-rdt; per gli amici e parenti soltanto 'Sw. Non c'è dubbio; 'Sw-rdt, principe di Ebron, è proprio lui, Esaù "il Rosso".
Le lettere autografe di Esaù, integrate dalle notizie fornite dalla Genesi, ci consentono di ricostruire le sue vicende con un buon fondamento. Alla morte di Isacco Esaù, che era stato nominato capo dell'esercito, si impadronì del feudo paterno, costringendo il fratello all'esilio. Esaù era un politico molto abile e lungimirante; aveva sposato in prime nozze due principesse ittite, evidentemente figlie di capi dei feudi confinanti. Egli sperava in tal modo di mettersi al riparo dalla politica aggressiva che gli apiru ittiti stavano allora conducendo contro quelli di origine mitanni. Ma a quanto pare la politica matrimoniale di Esaù non ebbe l'effetto sperato. Gli Ittiti lo attaccarono nel suo territorio. Dalla sua disperata richiesta di aiuti al faraone apprendiamo che in quel momento Esaù si trovava a mal partito e aveva già dovuto cedere parte del suo territorio agli attaccanti. Non conosciamo la risposta del faraone, se mai ve ne fu una; ma poiché pochi anni dopo ritroviamo Esaù a Seir, dobbiamo concludere che fu battuto e dovette abbandonare Ebron e Beer Sheba in mano ai suoi nemici.
Egli si ritirò a sud, nel deserto, in quei territori che erano stati dati in feudo ai figli secondari di Abramo, ma che rimanevano pur sempre soggetti al principe di Ebron. E' presumibile che Esaù si sia ritirato con quel che rimaneva del suo esercito, con i suoi familiari e parenti e una gran numero di servi, con tutti i beni ed il bestiame che riuscirono a salvare dalle mani degli attaccanti. Non si può escludere che il suo abbandono di Ebron sia dovuto, più che ad una irreparabile sconfitta militare, ad un accordo politico impostogli dall'alto; in tal caso non dovettero verificarsi massacri e gli abitanti della zona ebbero modo e tempo di optare per i nuovi o i vecchi padroni e di mettere in salvo i propri beni.
Esaù perdette la parte migliore dei suoi territori, ma ebbe salva la vita e buona parte dei suoi beni mobili. Secondo quanto viene riportato in Deuteronomio 2,12 (A Seir prima abitavano gli urriti; poi Edom li sconfisse e li cacciò dinanzi a sé ed occupò il loro territorio), sembrerebbe che Seir sia stata conquistata con le armi e che gli abitanti urriti siano stati sterminati o cacciati. Questo non risulta da Genesi, dove non c'è il minimo cenno a fatti cruenti di cui, fra l'altro, non si vede una vera e propria necessità. In quel momento signore di Seir era Anà, suocero di Esaù, che ne aveva sposato la figlia Oolibamà. Ubi maior minor cessat; con l'arrivo del principe di Ebron, Anà semplicemente decadde dalla sua posizione in favore del primo; gli urriti si fusero con i nuovi arrivati e da quel momento in poi si chiamarono idumei (o Edomiti); il tutto, probabilmente, senza spargimento di sangue.
[1] La Nuovissima Versione della Bibbia commenta: “La
pericope si fonda sulla legge hurritica, che riconosce il testamento come
irrevocabile e la benedizione profetica del testamentario come immutabile; ma
che salvaguarda anche il diritto del figlio non preferito, qualora il padre
morente gli abbia lasciato alcunché di secondario come donativo. Così
Giacobbe, erede principale, rimarrà il benedetto, mentre Esaù, il diseredato,
potrà avere una benedizione secondaria: pur dovendo servire il fratello, potrà
vivere sulla sua spada, cioè sulle razzie a scapito delle carovane che passeranno
per i suoi territori” (commento a Genesi, p. 265).
La Bibbia di Gerusalemme: “Esaù abiterà fuori dalla
Palestina fertile - la Volgata ha qui un controsenso - e sarà sottomesso a
Giacobbe”.
La traduzione dei Rabbini d'Italia: “La tua sede sarà
in luoghi pingui della terra, resi fertili anche dalla rugiada degli alti
cieli. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello”.
La
Sacra Bibbia del Martini: “"Nella pinguedine della terra", ecc. Quasi
tutti i moderni (Hummeleuter, Hetzenauer, Murillo, Crampon ecc.) traducono
diversamente il testo ebraico: "Lungi dalla pinguedine della terra e della
rugiada del cielo [...] sarà la tua abitazione". Tale traduzione è da
preferirsi (Hoberg si attiene all'altra)...”
[2] Nei principati palestinesi il capo dell'esercito era una figura di primo piano, seconda soltanto allo stesso principe. Lo conferma, ad esempio, il fatto che quando Abimelek, principe di Gerar, si reca a Beer Sheba per stringere alleanza con Abramo, viene accompagnato dal capo del suo esercito, Picol (Gn. 21,22; 26,26).
[3] “Le lettere di Amarna sono costituite da circa trecentocinquanta tavolette di argilla seccata al sole in cui sono impressi, a caratteri cuneiformi, dei messaggi in una lingua che nella maggior parte dei casi è l'accadico, o babilonese, cioè la lingua franca del tempo usata nei rapporti diplomatici fra i grandi sovrani, come pure fra i signorotti del Vicino Oriente. La maggior parte di questi documenti è costituita da dispacci inviati dai principi e dai governanti locali alla corte egiziana; ma vi sono anche due o tre copie, o minute, delle lettere che il faraone spedì ai suoi corrispondenti“ (C. Aldred, op. cit., p. 179).
[4] W. Von Soden, Il nuovo impero ittita e la sua civiltà, in ” I Propilei'” Mondadori, Milano 1973, vol. II, p. 48; C. Aldred, op. cit., pp. 215 e 230.
[5] “Le lettere scambiate con i sovrani stranieri formano un gruppo di dispacci provenienti da Kadashmen-Enlil I e Burnabuias II di Babilonia, Ashuruballit I d'Assiria, Tushratta di Mitanni, Tarkhundaradu di Arzawa e Suppiluliumas di Hatti" (C. Aldred, op. cit., p. 189)..
[6] W. Keller, La Bibbia aveva ragione, Garzanti, Milano 1981, p. 148.
[7] “La vedova di Tutankamon, Ankes-en-Amun, scrisse a Suppiluliumas, re degli ittiti, chiedendogli un figlio che avrebbe sposato, facendolo sovrano dell'Egitto, dal momento che ella stessa non aveva un proprio figlio che potesse essere incoronato faraone. Suppiluliumas pensò che fosse consigliabile inviare in Egitto un proprio ciambellano per avere un resoconto di prima mano della situazione. Al suo ritorno fu spedito il principe Zannaza, il quale, però, venne assassinato durante il viaggio verso l'Egitto” (C. Aldred , op. cit., p. 230).