Uno sguardo alla situazione climatica della Terra intorno ai 12 mila anni fa, verso la fine dell'ultimo e meglio conosciuto periodo glaciale, ci fornisce un quadro a prima vista impressionante. In tutti i continenti il limite delle nevi perenni era almeno 1500 metri più basso di quello attuale. Perciò montagne che oggi a malapena vengono innevate durante l'inverno possedevano allora estesi ghiacciai.
La catena dell'Himalaya era immersa in un mare di ghiaccio, al pari delle Alpi e delle Montagne Rocciose nel Nord America ed in particolare in Alaska. Perfino in Australia ed in Tasmania si incontravano numerosi ed imponenti ghiacciai; ed anche nello stesso Nord Africa, sulla catena dell'Atlante.
Oltre a questi ghiacci, la cui esistenza era evidentemente legata alla presenza delle montagne, c'erano due grandi calotte glaciali nel Nord Europa e nel Nord America, la cui esistenza è a tutt'oggi inspiegata, nonostante decine di teorie abbiano tentato di farlo.
Appena un secolo fa la gente rimaneva sbalordita ed incredula all'idea che grandi coltri di ghiaccio, spesse oltre due chilometri, avessero ricoperto vaste aree dell'emisfero settentrionale che godono oggi di un clima decisamente temperato. Ma alla fine, di fronte all'accumularsi delle prove geologiche, anche i più scettici dovettero arrendersi all'evidenza.
Particolarmente impressionante era la calotta glaciale nordamericana, nota col nome di "laurenziana" o anche con quello di "calotta glaciale del Wisconsin", dallo stato americano a sud dei grandi laghi dove i suoi movimenti sono stati studiati con particolare accuratezza.
Questa immensa coltre di ghiaccio raggiunse la sua massima estensione tra i 18 ed i 20 mila anni fa[1], arrivando a ricoprire una superficie di oltre 9 milioni di chilometri quadrati. Il baricentro di questa immane massa di ghiaccio era all'incirca nella baia di Hudson, o poco più ad oriente, nel Labrador. Di qui il fronte glaciale si spingeva a fino a ricoprire l'area dove oggi sorge New York, l'Hoio ed il Wisconsin, e ad occidente si spingeva fino a lambire le Montagne Rocciose, congiungendosi, in qualche caso, con i ghiacciai che scendevano da questi monti.
La calotta glaciale nordamericana all’epoca della
sua massima estensione, 18 mila anni fa.
Essa si era unita ai ghiacciai delle
Montagne Rocciose, chiudendo il passaggio via terra da e per la Siberia.
Alla fine del wurmiano, 12 mila anni fa, la calotta del Wisconsin si era ritirata notevolmente, ma ricopriva pur sempre un'area di non meno di 6 milioni di chilometri quadrati[2].
Nello stesso periodo anche il Nord Europa attraversava un periodo glaciale. L'intera penisola scandinava era ricoperta da un'unica calotta glaciale, che si spingeva a ricoprire la Danimarca e parte della Germania, fino alla latitudine di Berlino. In Inghilterra estesi ghiacciai ricoprivano i monti del Galles e della Scozia.
La calotta glaciale nordeuropea alla fine del
Pleistocene.
In verde scuro le terre allora emerse a causa del
livello del mare più basso.
L'acqua dei ghiacciai polari e montani viene ovviamente sottratta agli oceani; il livello del mare, quindi, varia a seconda della quantità di ghiacci esistenti sulla terraferma. Dalle ricerche effettuate è risultato con sufficiente certezza che 12 mila anni fa il livello del mare era dai 130 ai 150 metri più basso di quello attuale. Tutta l'acqua mancante dagli oceani era accumulata sui continenti sotto forma di ghiaccio.
Il livello del mare negli ultimi 20.000 anni. Dagli oltre – 130 metri di 18 mila anni fa si è portato gradualmente al livello attuale, mano a mano che i ghiacci pleistocenici si scioglievano.
La quantità di acqua attualmente imprigionata nelle calotte glaciali della Groenlandia e dell'Antartide è tale che, se esse dovessero sciogliersi, il livello del mare crescerebbe di 80-90 metri. Dodicimila anni fa, quindi, la quantità globale dei ghiacci sulla terraferma era il doppio di quella odierna.
C'è di che rimanere impressionati! Di fronte a dati simili, sembra giustificarsi ampiamente il punto di vista di chi descrive le condizioni ambientali di allora come estremamente dure su tutto il pianeta. Ma un rapido sguardo alle condizioni climatiche esistenti nelle altre parti del mondo è sufficiente a smentire questa conclusione.
Se consideriamo le condizioni climatiche esistenti allora nell’Europa e nel Nord America, che attualmente godono di un clima temperato, siamo portati ad immaginare che esistessero chissà quali tremende condizioni climatiche in quelle zone che già oggi, nella nostra mente, vengono associate al freddo, al gelo perenne ed implacabile. C'è di che inorridire, infatti, al pensiero dei tremendi inverni di allora dell'Alaska, tristemente famosa fin dai tempi della grande corsa all'oro. E più ancora della Siberia, che ha il poco invidiabile privilegio di ospitare nei suoi confini il "polo del freddo". Se già oggi, in cui a detta dei geologi attraversiamo un felice periodo di temperature miti, Alaska e Siberia godono la meritata fama di essere le terre più fredde dell'emisfero boreale, figurarsi cosa dovevano essere allora, in pieno periodo glaciale!
Ma il lettore può risparmiarsi la fatica di immaginare bianchi deserti inospitali, e fare il calcolo delle paurose temperature invernali di allora. Sarebbe completamente fuori strada: 12 mila anni fa non c'era traccia di ghiacci permanenti né in Alaska, né in Siberia, se si escludono quelli limitati alle aree montagnose.
La pianura siberiana, piatta ed infinita, era assai più estesa che non oggi; essendo più basso il livello del mare, essa si spingeva verso nord fino ad inglobare le isole artiche, e ad occidente fino a saldarsi all'Alaska, separando in tal modo il bacino artico dall'oceano Pacifico. Ed era tutta completamente sgombra dai ghiacci. Non solo: era popolata da una delle più imponenti comunità ecologiche che siano mai esistite sulla Terra.
Alla fine del Pleistocene l’Alaska e la Siberia
erano unite da un vaso “ponte” di terre emerse, chiamato Beringia,
che era
popolato dalla grande fauna pleistocenica fin sulla riva del Mare Artico.
Tutto sta ad indicare che queste zone durante il periodo glaciale, anziché essere soggette ad un clima più rigido, come sembrerebbe logico presumere, godevano di condizioni ambientali assai più favorevoli di quelle attuali. Il grande freddo è venuto dopo, quando ormai la glaciazione era finita.
Il fatto, come si può ben immaginare, dette e dà non poco fastidio a vari studiosi, che evitano accuratamente di metterlo in risalto nei loro trattati. Ma è un dato di fatto che non può essere negato o misinterpretato. Ricerche effettuate dai sovietici nel mare Artico[3], in particolare attraverso l'esame di carote di sedimenti prelevate dal fondo marino, hanno dimostrato che questo mare ha goduto di un clima temperato per gran parte del periodo wurmiano. E certamente temperato era il clima sulle coste e nell’entroterra siberiani.
E’ risaputo che nella tundra artica si ritrovano di tanto in tanto resti di mammut. Meno nota è la quantità di questi ritrovamenti. Fino ad oggi ne sono stati trovati un'ottantina in buone condizioni, ancora con le carni intatte. Ma scheletri e carcasse si trovano ovunque. Per secoli il commercio dell'avorio dalla Siberia alla Cina è stata una delle più fiorenti attività della zona. Migliaia di zanne in perfetto stato di conservazione hanno preso la via del sud[4].
Valutazioni prudenziali fanno ammontare ad almeno 40 milioni il numero dei mammut che popolavano le praterie della Siberia e dell'Alaska alla fine del Pleistocene. Una quantità enorme, tenuto conto della mole considerevole di questo animale.
Ma i mammut non erano soli: accanto ad essi pascolavano allora immense mandrie di bisonti, antilopi, cavalli, cervi e rinoceronti lanosi; e fra i branchi si aggirava il terribile smilodon, la gigantesca tigre dai denti a sciabola, e lupi, orsi, enormi bradipi, castori giganti, più numerose altre specie animali attualmente estinte.
E non mancava l'uomo, come testimoniano le ricerche archeologiche effettuate in Siberia. Anzi fu proprio nel periodo glaciale che, spingendosi avanti nella bassa pianura che allora univa la Siberia all'Alaska, l'uomo dette inizio alla colonizzazione dell'America. Prove certe che l'uomo, durante il wurmiano, aveva colonizzato tutta l'area del mare artico sono state trovate in quantità dai sovietici, che hanno scoperto resti di occupazione umana durante detto periodo sia nelle isole della Nuova Siberia che nelle Spitzbergen[5]. Entrambi gli arcipelaghi sono attualmente inabitabili, in particolare le isole della Nuova Siberia, che si trovano ad appena mille chilometri dal polo. Le testimonianze consistono in vari strumenti di caccia e di lavoro, ricavati da zanne di mammut, e da incisioni rupestri rappresentanti balene e cervidi.
Charles Hapgood, uno scienziato americano apprezzato dallo stesso Einstein, mette in evidenza una lunga serie di dati i quali provano che l'oceano Artico godeva allora, nel suo complesso, di un clima temperato. Nessuna delle isole che circondano questo mare, infatti, era allora coperta dai ghiacci; neppure la Groenlandia settentrionale, l'isola di Baffin ed altre isole artiche, allora rifugio di una fauna importante[6].
Il famoso mammut della Beresovka, attualmente al museo naturale di Leningrado. Conservava in bocca e nello stomaco un intero campionario di erbe. A destra: cucciolo di mammut.
L'animale dominante delle praterie siberiane era, si è visto, il mammut. Si è sempre sostenuto, sulla base del suo aspetto lanoso, che il mammut fosse un animale particolarmente adattato ai climi freddi. E' questa, infatti, una "conditio sine qua non" di tutte le teorie che spiegano le glaciazioni con un generale irrigidimento del clima terrestre. Ma è una convinzione errata.
Fin dal 1919 il dermatologo e zoologo francese H. Neuville[7] ha dimostrato che la pelle del mammut è uguale a quella dell'elefante indiano (i naturalisti Bell e Falconer sostengono anzi che mammut ed elefante indiano non siano altro che due varietà di una stessa specie). Il manto peloso era assai più lungo e folto, è vero. Ma poteva offrire una ben misera protezione contro una tormenta di neve. La pelle del mammut, infatti, non possedeva ghiandole a secrezione grassa; ed è appunto l'impregnazione sebacea che conferisce al pelame le sue proprietà isolanti nei confronti degli agenti atmosferici. Una comunissima pecora, conclude Hapgood, sarebbe assai più adatta a vivere in ambiente artico di quanto lo fosse un mammut!
Non meno critica appare la situazione da un punto di vista alimentare. E' fin troppo evidente che un animale della mole di un elefante, che necessita di quintali di buon foraggio ogni giorno, non potrebbe sopravvivere in una tundra artica sul tipo di quelle attuali. Il bilancio energetico delle comunità ecologiche è soggetto a leggi inderogabili. Sir Charles Lyell, il fondatore della moderna geologia, sosteneva che i branchi di mammut e rinoceronti non avrebbero avuto la minima probabilità di sopravvivere per un anno intero neppure nelle zone più meridionali della attuale Siberia. Figurarsi nelle isole del Mare Artico!
Qualcuno tenta di aggirare l'ostacolo, ipotizzando che il mammut si cibasse principalmente di conifere, unico vegetale che abbonda tutto l'anno nella fascia meridionale della Siberia. Ma, a parte il fatto che non esistono conifere nella tundra, la dieta di questo animale è piuttosto nota; in varie occasioni si è potuto esaminare il contenuto dello stomaco e mai vi è stata trovata traccia di conifere.
Particolarmente accurata è l'analisi eseguita dall'accademico russo V.N. Sukachev del contenuto dello stomaco del celebre "mammut della Beresovka", trovato nel 1901 poco lontano dall'omonimo fiume, nella Siberia occidentale[8]. C'erano frutti maturi, erbe, fiori, teneri arbusti: un insieme di vegetali quali si possono incontrare nella zona circostante alla fine di luglio o al principio di agosto, al culmine dell'estate. Non implicano, quindi, un clima necessariamente diverso da quello attuale.
Le stesse associazioni, però, si trovano nello stomaco di animali trovati nelle isole Ljakhov e in quelle della Nuova Siberia, vicinissime al polo, dove oggi la vegetazione è costituita quasi esclusivamente da muschi e licheni. In queste isole, anzi, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, c'era la massima concentrazione di mammut e di tutti gli altri animali che li accompagnavano.
E' difficile, quindi, sfuggire alla conclusione che tutte le terre che si affacciano sul Mare Artico, dalla Russia fino al Canada occidentale, ed in particolare quelle situate al centro di questa fascia, godessero allora di un clima notevolmente più mite di quello attuale. E ciò proprio mentre l'intera Europa e l'America nord-orientale erano strette nella morsa di ghiacci polari.
Evidenze che contrastano nettamente con l’ipotesi di un generale raffreddamento del clima terrestre, durante il periodo wurmiano, provengono anche da altre parti del mondo. Significative sono quelle relative alle condizioni climatiche di allora del Giappone[9], che si trova attualmente ad una latitudine analoga a quella di aree nordamericane allora coperte dai ghiacci. E’ vero che sui monti giapponesi esistevano ghiacciai che oggi non esistono, i quali scendevano fino ad una quota di circa 2500 metri. Ma è anche vero che a quote inferiori esistevano associazioni vegetali tipiche di un clima più caldo di quello attuale.
Prove analoghe pervengono dal Sud Africa, dove allora esistevano animali che attualmente si ritrovano soltanto nei pressi dell’equatore.
Particolarmente significativa è la situazione climatica esistente allora dall'altra parte della Terra, nell'Antartide. Dall'analisi delle carote di sedimenti marini prelevate dal Glomar Challenger nel mare di Weddell, appare evidente che nella stessa epoca in Antartide esistevano dei fiumi[10]. Il che dimostra che vi imperava un clima più mite di quello odierno, almeno nella zona più vicina all'America.
Abbiamo quindi la certezza che, durante l'ultimo periodo glaciale, mentre una parte della Terra era soggetta ad un clima decisamente più rigido di quello attuale, aree non meno estese dello stesso emisfero godevano di condizioni ambientali più favorevoli.
Questo mette fuori causa tutte quelle teorie che comportano un irrigidimento delle condizioni climatiche sull'intero pianeta, o almeno su un intero emisfero, come quelle che ipotizzano variazioni dell'effetto serra, o dell'energia radiante solare, la teoria astronomica di Milankovitch e quante altre si possono immaginare che conducano al medesimo risultato.
Queste teorie hanno tutte in comune un fatto: nessuna di esse prende in considerazione quelle che sono le cause delle glaciazioni attualmente in atto in Antartide e nella Groenlandia. Anche un bambino sarebbe in grado di fornire una spiegazione corretta, se glielo si chiedesse: quelle aree sono sepolte dai ghiacci semplicemente ed unicamente perché si trovano nei pressi dei poli.
Perché mai le cause delle enormi calotte glaciali nordamericana e nordeuropea di appena dodici mila anni fa avrebbero dovuto essere diverse? La spiegazione più immediata e naturale è che i poli si trovassero spostati rispetto alla attuale posizione. Tutte le particolarità climatiche di allora, inoltre, troverebbero una spiegazione perfetta se si ammettesse che anche l’asse di rotazione terrestre fosse assai meno inclinato che non attualmente e di conseguenza le differenze climatiche fra inverno ed estate fossero molto ridotte, consentendo ai grandi erbivori di prosperare anche alle alte latitudini.
Distribuzione dei ghiacci negli emisferi
settentrionale e meridionale alla fine del Pleistocene.
I poli dovevano trovarsi in posizione più meno
baricentrica rispetto alle calotte glaciali.
I risultati dei carotaggi nei ghiacci sia antartici che groenlandesi dimostrano che alla fine del Pleistocene si è verificato un cambiamento di temperatura media praticamente “istantaneo”. Anche in questo caso la spiegazione più immediata e naturale è che sia stato provocato da uno spostamento dei poli dalla vecchia posizione a quella attuale. Se è così, significa che quest’ultimo è avvenuto in maniera estremamente rapida. Si tratta ora di vedere se questo sia fisicamente possibile.
vedi successivo:
Possibilità di rapidi spostamenti dei poli
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[1] Hapgood, pag. 188
[2] Hapgood, pag 200
[3] Sacks, Belov, Lapina, “Our present concept of the geology of the central Artic”, Priroda, 1955
- Hapgood, pag 93 seg.
[4] Hapgood, “Lo scorrimento della crosta terrestre”, Einaudi, 1965, pag 224
[5] "Sputnik", Nov. 68 - Hapgood, p. 102
[6] Hapgood, p. 100
[7] Neuville, H, “ On the extinction of the Mammoth”, Smthsonian Reports, 1919
[8] Hapgood, contenuto dello stomaco del mammut della Beresovka
[9] Kobayasky, Kunio, “Problems of Late Pleistocene history of Central Japan”, Geological Society of America, 1965 - Hapgood, p.102
[10] Hough, Jack, “Pleistocene Lithology of Antartic Ocean Bottom Sediments”’ Journal