Prima di procedere con l'esame del periodo palestinese di Giacobbe, è interessante analizzare un episodio che ha avuto una importanza fondamentale nelle successive vicende di Israele: l'incontro con Esaù. Il primo ostacolo sulla via della Palestina, Labano, era stato superato agevolmente e senza danno. Ben diversa era la natura del secondo ostacolo, Esaù, e ben più gravi le rappresaglie che Giacobbe poteva aspettarsi da lui. Ne è prova eloquente il drastico cambiamento di atmosfera che si constata nelle Genesi fra i due episodi. Labano era pur sempre padre delle moglie e nonno dei figli di Giacobbe; per quanto grossa gliel'avesse combinata, quest'ultimo poteva aspettarsi al massimo dal suocero delle sanzioni di carattere economico. Certamente non aveva timori per la vita propria e quella dei propri figli. Ed infatti con Labano discute da pari a pari, litiga, alza la voce, recrimina, risponde alle accuse con contraccuse e alla fine conclude un patto senza dovere cedere neppure una capra. Rachele, addirittura, non si alza neppure in piedi quando il padre entra nella sua tenda.
Ben diverso il comportamento nell'episodio successivo. Con Esaù Giacobbe è un uomo in preda al terrore; non nasconde la sua angoscia, prega, si dispera, regala un patrimonio per quei tempi immenso senza alcuna garanzia, si prostra fino a terra e con lui le sue mogli e i suoi figli, balbetta delle scuse, implora umilmente. E' senza dubbio il momento più critico dell'intera sua vita.
Erano passati più di venti anni da quando Giacobbe aveva tentato, insieme alla madre, di estromettere Esaù dall'eredità di Isacco. Durante questi venti anni i due fratelli evidentemente non avevano avuto contatti fra loro, per cui Giacobbe non poteva sapere se a Esaù era passata la rabbia per il tiro mancino di cui era stato vittima e se meditava ancora propositi di vendetta. E quest'ultimo ignorava le ragioni per cui Giacobbe tornava in Palestina e avrebbe potuto sentire questo fatto come una minaccia personale. E' evidente, quindi, che il comportamento di Esaù costituiva una grossa incognita per Giacobbe, che si preoccupò immediatamente del problema, non appena congedato il suocero.
Data la lentezza con cui poteva procedere, Giacobbe avrebbe impiegato non meno di due settimane per arrivare da Tadmor a Damasco ed almeno altri quindici giorni fino ai guadi del Giordano (questi ultimi distavano appena 4/5 giornate di cammino da Seir). Tra la Siria e la Palestina c'era un traffico carovaniero intenso; Giacobbe non poteva certo sperare di passare inosservato e che la notizia del suo arrivo non venisse riportata ad Esaù, il quale avrebbe certamente fatto in tempo ad intercettarlo prima che entrasse in Palestina. Per prevenire questo pericolo e saggiare le intenzioni del fratello "Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri a suo fratello Esaù, nella regione di Seir, la campagna di Edom. Diede loro questo ordine: "Parlerete così a mio fratello Esaù: il tuo umile servo Giacobbe ti manda a dire: io sono stato presso Labano come emigrante e vi sono rimasto fino ad ora. Sono divenuto proprietario di buoi, di asini e di greggi e di servi e di serve. Ora ti mando questi messaggeri per farlo sapere a te Esaù, mio signore, perché io trovi, così, buona accoglienza presso di te". I messaggeri tornarono da Giacobbe e gli dissero: "Siamo stati da tuo fratello Esaù. Ora anch'egli ti sta venendo incontro e ha con sé quattrocento uomini". Giacobbe ebbe paura e fu preso da grande angoscia" (Gn.32,4-8). Il fatto che Esaù si fosse mosso con un così forte contingente di armati denunciava in modo evidente le sue intenzioni bellicose e Giacobbe cominciò a temere seriamente per la propria vita: "Ho paura di mio fratello Esaù: temo che egli venga e uccida me, le donne e i bambini" (Gn.33,12).
Prima di partire aveva avuto ampie assicurazioni da Haremab che ogni difficoltà sarebbe stata appianata. Era stato appunto appellandosi a quelle promesse che Giacobbe aveva avuto protezione a Tadmor nei confronti di Labano; ma potevano valere anche nei confronti di Esaù? Labano era arameo, straniero anche se alleato. Esaù, invece, era egli stesso principe dell'impero egizio, certamente un alleato naturale di Haremab e per di più fratello gemello di Giacobbe; come tale poteva richiedere che gli egizi non si immischiassero in faccende che non li riguardavano, essendo questioni di famiglia. Ed è legittimo ritenere che gli egizi si sarebbero ben guardati dal prendere posizione per l'uno o per l'altro.
Da Genesi 32,2 e seguenti, però, risulta in maniera non equivoca che ancora una volta Giacobbe chiese protezione all'autorità egizia: " ... alcuni angeli di Elohim gli andarono incontro. Come li vide Giacobbe esclamò: "Questo è l'accampamento di Elohim!" e chiamò quel luogo Mahanaim". Mahanaim significa "accampamento militare", tant'è vero che la Volgata traduce con "castrum". Era un campo di angeli di Elohim e quindi di soldati egizi. Mahanaim si trova nella regione di Galaad, a nord del fiume Jabbok, affluente del Giordano, e controllava la pista che conduceva ai guadi di Adamah, sul Giordano. Era quindi una guarnigione importante, che controllava l'accesso alla Palestina dal lato nord-orientale.
Giacobbe si rivolse al comandante della guarnigione, massima autorità imperiale in quel settore: "Salvami dalla mano di mio fratello Esaù, perché ho paura di lui. Temo che egli venga e uccida me, le donne e i bambini."
Il comandante della guarnigione, che era un ufficiale subalterno di Haremab, evidentemente acconsentì a proteggerlo. Egli verrà ricordato in Genesi 48,16 come "l'Angelo che mi ha liberato da ogni male" e poco più avanti, in Genesi 49,24, come "il Protettore di Giacobbe". Come egli abbia esplicato questa protezione non è dichiarato, tranne che per un particolare: gli consentì di piantare le proprie tende nei pressi del campo egizio (Gn.32,14), dove Esaù evidentemente non poteva osare assalire il fratello.
La tradizione riportata in Genesi non cita alcun intervento da parte di "angeli" o affini su Esaù e attribuisce la salvezza di Giacobbe esclusivamente ai ricchissimi doni che egli inviò in avanscoperta (Gn.32,13-21). Ma dall'analisi del racconto si deduce con sufficiente certezza che il comandante delle truppe egizie (o forse lo stesso Haremab, alias El saddai) dovette esercitare una sorta di mediazione fra i due fratelli. La faccenda dei doni, infatti, appare piuttosto oscura al di fuori di questa ipotesi. Esaù era venuto in forze fino a lì evidentemente non per una parata dimostrativa in onore del fratello, ma perché intendeva quanto meno catturarlo e condurlo a Seir. Non si vede, quindi, perché avrebbe dovuto accontentarsi di una parte soltanto degli averi del fratello, quando aveva l'intenzione e la possibilità di prenderseli tutti.
D'altra parte, se davvero Giacobbe avesse avuto incondizionata protezione da parte del comandante della guarnigione, non si vede la necessità di quei doni. Per spiegare questo episodio bisogna capire la posizione del comandante egizio, il cui compito era di mantenere l'ordine e l'armonia fra i sudditi dell'impero e non poteva avere motivi personali di preferenza fra i due contendenti. Egli pertanto dovette ricercare ed imporre una soluzione di giusto compromesso che "salvasse la faccia" ad Esaù e la pelle a Giacobbe.
Esaù era venuto con grande apparato militare e intenzioni bellicose. Non poteva tornarsene indietro umiliato e a mani vuote. Dovette pertanto imporre delle condizioni che non lo facessero passare per sconfitto. Risarcimento economico, innanzitutto: il fatto che il bestiame inviato da Giacobbe sia enumerato con tanta pignoleria lascia intuire che sia stato fornito sulla base di una lista precisa. In secondo luogo Esaù dovette pretendere che il fratello si umiliasse ai suoi piedi, riconoscendo pubblicamente il suo diritto alla primogenitura. Egli avrebbe concesso il proprio perdono al fratello per gli intrighi passati, chiudendo la questione della successione e mettendo in risalto la propria grandezza d'animo. Ciò presupponeva che non venisse risaputo pubblicamente che Esaù agiva per imposizione o mediazione di altri; ed è questa, probabilmente, la sua terza condizione.
E' anche la ragione per cui la Genesi non riporta alcun cenno relativo a mediazioni esercitate da terzi e attribuisce la pace fra i fratelli esclusivamente ai doni di Giacobbe e alla magnanimità di Esaù. La Bibbia riporta i fatti che erano noti pubblicamente, quello cioè che tutto il popolo vedeva e sapeva, non i retroscena e le clausole segrete. Omette però accuratamente anche ogni cenno ai diritti di successione dei due fratelli: è evidente, tuttavia, che in quell'occasione Giacobbe riconobbe pubblicamente che il vero primogenito, e quindi erede di Isacco, era Esaù (Giacobbe, infatti si rivolge ripetutamente a lui con le parole "mio signore"; particolare questo che era certamente evidenziato nelle tradizioni, ma che fu omesso in seguito per evidenti ragioni di rivalità fra Israele ed Edom.
L'incontro avvenne sulle rive dello Jabbok: "Giacobbe si inchinò sette volte fino a terra (notare il parallelo con le lettere di Amarna, dello stesso periodo) prima di arrivare vicino a suo fratello. Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, se lo strinse al petto, lo baciò e piansero" (Gn33,3-4). Chiariti i problemi dinastici, i due fratelli si riconciliarono definitivamente.