Prima dell’avvento della datazione al radiocarbonio 14, ogni questione relativa all’origine ed alle caratteristiche di una qualsiasi cultura antica veniva risolta sulla base dello scenario diffusionista, che nella sua formulazione più essenziale era il seguente: l’agricoltura si è sviluppata per la prima volta nel Medio Oriente, in quella fascia di terra denominata Mezzaluna Fertile; qui sono sorte le prime culture neolitiche, e successivamente, tra il quinto ed il quarto millennio a.C., le prime civiltà superiori, che si sono diffuse poi in tutto il resto del mondo.
Campo obbligato di ricerca era allora lo studio comparato delle civiltà, delle loro mitologie, tradizioni, usi e costumi, conoscenze scientifiche e tecnologiche, che forniva ampio supporto alla teoria diffusionista, mostrando temi comuni ed in molti casi una sostanziale identità da un capo all’altro del pianeta.
Dopo l’introduzione delle datazioni al radiocarbonio 14, la teoria diffusionista è crollata. Si è scoperto, infatti, che l’agricoltura è nata contemporaneamente in almeno sei aree del mondo senza alcuna relazione apparente fra loro: il Centro e Sud America, la Mezzaluna Fertile, l’Africa Centrale, la Cina orientale ed il Sud-Est asiatico (fig. 1).
Fig 1. - Aree del mondo dove ha avuto inizio l’agricoltura
Sono saltate anche la maggior parte delle relazioni temporali fra civiltà diverse, stabilite in base ai presupposti della teoria diffusionista. Nel Mediterraneo, ad esempio, le civiltà megalitiche di Malta e dell’Europa nord-occidentale si sono rivelate più antiche dei loro presunti modelli mesopotamici ed egizi.
Per reazione al diffusionismo si è venuto consolidando nel mondo scientifico uno scenario diametralmente opposto, secondo cui le culture antiche sarebbero nate e si sarebbero sviluppate contemporaneamente in più parti del mondo, senza contatti e influenze reciproche. In questo scenario, ovviamente, l’esame comparato delle civiltà è divenuto anatema.
Questo scenario, che chiamerò spontaneista (germinazione spontanea di tutte le civiltà antiche, senza interdipendenze reciproche), già poco credibile in partenza, anche se obbligato, sta diventando oggi sempre più improponibile, alla luce di nuovi studi e scoperte archeologiche, che mettono in evidenza da un lato la sempre maggior antichità dell’origine di alcune civiltà, dall’altro l’esistenza di una superciviltà antichissima all’origine di tutte le civiltà conosciute.
Le ragioni per cui la teoria diffusionista ebbe tanta fortuna ed era ritenuta a suo tempo incrollabile sono ancora tutte là ed hanno mantenuto intatto il loro peso e la loro validità. Le analogie ed anche vere e proprie identità fra civiltà diverse e lontane appaiono troppo sorprendenti perché si possano ritenere casuali. Gli stessi miti, tradizioni, costruzioni e così via si ritrovano in Polinesia come nel Nord Europa, in India come in America, nella civilissima Grecia come fra i «selvaggi» dell'Amazzonia. Essi costituiscono un complesso veramente formidabile di elementi a favore di una origine comune delle civiltà. Quello che le rende incompatibili con le datazioni accertate è soltanto il fatto di voler porre tale origine nel quarto millennio e nel Medio Oriente. Ma se si sposta l’origine nel tempo, alla fine del Pleistocene, e in posizione centrale rispetto a tutti i continenti, ogni incompatibilità svanisce.
Perché questa operazione sia credibile, occorre creare uno scenario globale che tenga conto e integri in maniera coerente tutti i dati del problema, sia quelli geologici che storici, archeologici e mitologici
Punto di partenza per costruire un tale scenario è l’esame della situazione geologica della terra nel nostro passato.
La storia della Terra è caratterizzata da lunghissimi periodi di stabilità, inframmezzati da crisi brevissime e violente, durante le quali si hanno da un lato eruzioni vulcaniche imponenti, orogenesi, cambi climatici, inversioni del campo magnetico, variazioni del livello marino ecc; dall’altro estinzioni di massa, emergenza di nuove specie, cambio radicale degli equilibri ecologici. Nella storia della Terra si contano cinque grandi estinzioni animali, a livello planetario, ed innumerevoli altre minori, o anche totali ma a livello più o meno locale.
Le geologia non è ancora in grado di fornire una spiegazione di queste crisi ricorrenti. Negli ultimi anni si sta facendo strada l’ipotesi che siano dovute a catastrofici impatti con comete o asteroidi, perché per alcune di esse, come ad esempio quella del cretacico superiore, che vide l’estinzione in massa dei dinosauri e preparò l’avvento dei mammiferi, si è potuto appurare la coincidenza con la caduta di un asteroide; il che lascia presupporre che fra i due fenomeni esista una relazione di causa ed effetto. Ma innanzitutto non è affatto chiaro come corpi relativamente minuscoli, quali comete ed asteroidi, possano innescare fenomeni geologici ed estinzioni di massa a livello planetario; in secondo luogo la contemporaneità di un impatto è stata accertata soltanto in un numero limitato di crisi geologiche e ambientali.
A tutt’oggi, quindi, nessuno è in grado di dire quale ne sia la vera causa e che cosa accada in realtà nel loro breve svolgimento. Vale a dire che la scienza moderna non è ancora in grado di capire uno dei processi fondamentali dell’evoluzione delle specie viventi.
Questo si verifica anche per quel che riguarda la storia dell’uomo. Essa, infatti, è caratterizzata da almeno una crisi del tutto analoga, accaduta 11.500 anni or sono. Fu precisamente in questo periodo che le grandi culture paleolitiche, che avevano prosperato per più di trenta millenni, scomparvero improvvisamente, lasciando il posto ad una umanità nuova. Non sappiamo né perché, né come accadde. L’unica cosa certa è che questa transizione è avvenuta in coincidenza di una delle solite crisi inspiegate, tanto grave da costituire lo spartiacque fra due ere geologiche, il Pleistocene e l’Olocene. L’era pleistocenica giunge al suo termine, segnato da un imponente risveglio dell’attività vulcanica, da terremoti spaventosi, testimoniati dal crollo delle volte nella maggior parte delle caverne del mondo, e da immani alluvioni, che travolgono milioni di animali. In tutto il mondo ci sono testimonianze di ecatombi agghiaccianti. Anche il campo magnetico attraversa un periodo di forti perturbazioni che portano quasi alla sua inversione. Per non parlare poi del regime climatico terrestre, che proprio allora subisce un rapido e radicale cambiamento. Decine di specie animali scompaiono.
Non è possibile capire cosa è accaduto all’uomo durante questa crisi e gli avvenimenti immediatamente seguenti, se non si riesce a scoprire cosa sia realmente successo in quell’occasione.
Vediamo allora, in estrema sintesi, qual era la situazione nel mondo prima di quella data fatidica. Tra i 50 e i 12 mila anni or sono una enorme calotta glaciale, spessa oltre tre chilometri, si era irradiata dall’area di Hudson, nel Canada orientale, fino a raggiungere verso sud l’attuale latitudine di New York e verso ovest i ghiacciai che scendevano dalle montagne rocciose, in Alaska. Nello stesso periodo il Nord Europa era coperto da calotte glaciali che al culmine della loro espansione raggiunsero le latitudini di Londra e Berlino. La quantità di acqua congelata sulla terraferma era talmente grande, che il livello del mare era sceso di oltre 100 metri rispetto ad oggi. (fig. 2)
fig 2 - distribuzione delle calote glaciali alla fine del pleistocene
Le teorie attuali, numerose e spesso in contrasto tra loro, cercano di spiegare l’esistenza di queste masse di ghiaccio, eccentriche rispetto ai poli odierni, con il fatto che il clima fosse allora assai più freddo su tutta la Terra. L’ipotesi, però è contraddetta dall’assenza di calotte glaciali in Siberia, che anzi era popolata fin nelle sue regioni più settentrionali, ben addentro nel mare Artico, da una delle più imponenti comunità zoologiche mai esistite sulla Terra dal tempo dei dinosauri. 40 milioni di mammut vagavano per le pianure della Siberia e dell’Alaska, ed insieme ad essi c’erano renne, rinoceronti, cavalli, ippopotami, orsi, leoni, leopardi, castori, bradipi giganti, cervi dalle grandi corna, cammelli, tigri dai denti a sciabola e molti altri ancora. Prova certa che il clima siberiano era allora di gran lunga più mite e costante di quanto lo sia attualmente.
Per contro, nell’altro emisfero il clima era più freddo in Australia ed in Nuova Zelanda, allora coperta da grandi ghiacciai. Ma ci sono prove che l’Antartide, oggi interamente coperta da una spessa coltre di ghiaccio, ne fosse parzialmente libera, almeno sul versante atlantico.
C’è un’unica ipotesi in grado di spiegare in maniera coerente questa situazione, e cioè che i poli geografici si trovassero allora in posizione diversa da quella attuale e che l’inclinazione dell’asse terrestre fosse inferiore. 11.500 anni fa l’asse terrestre si sarebbe improvvisamente inclinato ed i poli spostati nella posizione attuale.
Non si tratta di un’ipotesi fantasiosa. Nessuno mette più in dubbio il fatto che i poli abbiano cambiato sovente la loro posizione sulla superficie terrestre nel corso delle passate ere geologiche. I segni lasciati dalle calotte glaciali in Africa e India, il magnetismo residuo nelle rocce, la distribuzione di antiche barriere coralline e dei depositi di carbone e così via, costituiscono nel loro insieme una prova assoluta che i poli hanno girovagato dall’equatore fino alla posizione attuale.
Quelli che non sono affatto chiari, invece, sono i meccanismi e le modalità dello spostamento dei poli. Un’ipotesi avanzata fin dal secolo scorso dal grande astronomo Schiapparelli attribuisce questi spostamenti a movimenti superficiali di grandi quantità di materiali, dovuti ai processi di erosione e sedimentazione, che sarebbero in grado di produrre lentissimi spostamenti dei rigonfiamenti equatoriali; pochi centimetri all’anno al massimo, ma che in milioni di anni possono diventare migliaia di chilometri.
Schiapparelli, però, ignorava l’esistenza di una enorme quantità di testimonianze geologiche, che sembrano indicare invece che i poli si muovono per “salti” praticamente istantanei, almeno nella scala dei tempi geologica. Fu lo studioso americano Charles Hapgood a metterle in evidenza, ma il meccanismo da lui proposto per spiegare il fenomeno, lo “scorrimento” della crosta terrestre, oltre ad incontrare insormontabili difficoltà di carattere geologico, non è in grado di spiegare proprio la velocità con cui sembra si sia verificato lo spostamento dei poli: a giudicare dal rapidissimo processo di congelamento dei mammut, conservati intatti con ancora cibo non digerito nello stomaco, si tratterebbe addirittura di giorni.
Questa possibilità, tuttavia, è decisamente rifiutata per una ragione del tutto analoga a quella che portò al rifiuto iniziale della teoria di Wegener sulla deriva dei continenti: non si conosce un meccanismo in grado di provocare un fenomeno del genere. L’ipotesi che l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto all’eclittica e che la posizione dei poli rispetto alla Terra possano variare rapidamente è stata presa in considerazione fin dal secolo scorso da scienziati del calibro di J.C. Maxwell, ma è stata scartata sulla base di calcoli energetici circa l’effetto stabilizzante dei rigonfiamenti equatoriali terrestri. Solo una “collisione planetaria” sarebbe in grado di produrre un effetto del genere.
I calcoli, ovviamente, sono corretti, ma purtroppo non tengono conto di un fattore di instabilità nel sistema giroscopico Terra, costituito dalla presenza di masse liquide sulla sua superficie e dalla plasticità della crosta terrestre, nonché da uno strato liquido ed un nucleo solido al suo interno. In uno studio matematico pubblicato dall’Università di Bergamo e dalla rivista canadese Aeon, che sarebbe troppo lungo riportare in questa sede, io dimostro[1] che l’impatto di una cometa o di un asteroide di dimensioni relativamente modeste (anche inferiori al chilometro) è in grado di innescare un processo che nel giro di pochi giorni porta la Terra a ruotare intorno ad un asse diverso, provocando quindi uno spostamento permanente dei poli ed una variazione dell’inclinazione dell’asse rispetto all’eclittica.
Questo processo comporta una serie di fenomeni catastrofici chiaramente identificabili, quali: innalzamento temporaneo fortissimo del livello del mare sulla maggior parte delle coste del mondo, dell’ordine delle centinaia di metri ed in alcune zone probabilmente migliaia; uno spaventoso uragano di vento e piogge torrenziali su tutto il pianeta, ininterrotto per giorni e giorni; terremoti devastanti in tutte le aree interessate ad un riaggiustamento dell’ellissoide terrestre; un risveglio improvviso e violento dell’attività vulcanica; fluttuazioni del campo magnetico terrestre. Il tutto seguito da un temporaneo irrigidimento del clima su tutta la terra, dovuto all’effetto combinato di questi fenomeni.
Oltre ai fenomeni temporanei, si ha una serie di cambiamenti climatici permanenti, dovuti allo slittamento delle fasce climatiche e alla variazione dell’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre rispetto all’eclittica. Tali variazioni, unite agli effetti distruttivi immediati, comportano cambiamenti profondi degli ecosistemi, con la sparizione di specie non adattate al nuovo andamento climatico. Un salto di polo, quindi, comporta la possibilità di estinzioni di massa e lo stabilirsi di nuovi equilibri ecologici.
Questo, in estrema sintesi, è quanto accade durante un “salto” di poli; tutti fenomeni che si sono puntualmente verificati al termine del Pleistocene. Ci sono anche indicazioni, evidenziate dagli astronomi A. Tollman e V. Clube[2], che un asteroide, o più probabilmente una cometa, abbia colpito la Terra in quella circostanza. I motivi per ritenere che la fine del Pleistocene sia stata provocata da un “salto” di poli sono quindi impellenti.
I fatti in questione sarebbero accaduti all’incirca 11.500 anni fa, e cioè in epoca relativamente recente, appena il doppio del cosiddetto periodo “storico”. Non è verosimile che nel bagaglio culturale dei popoli, discesi direttamente dai superstiti di quella immane catastrofe, non sia sopravvissuto il ricordo di avvenimenti di tale portata. Ed infatti quasi tutti i popoli del mondo possiedono miti relativi al diluvio universale. Elemento costante di questi miti è che il diluvio fu provocato da un innalzamento del livello marino, accompagnato da piogge torrenziali prolungate e da venti uraganici. Sono proprio i fenomeni più avvertibili e con il maggior impatto distruttivo durante un salto di polo.
Anche tradizioni antiche relative alla distruzione di un grande impero marittimo, che dominava gli oceani in un remoto passato, sembrano riferirsi a quegli stessi avvenimenti. La più circostanziata di queste tradizioni, quella riferita da Platone nei suoi dialoghi “Crizia” e “Timeo”, riporta con precisione anche la data dell’avvenimento: 9.000 anni prima del suo tempo, e cioè esattamente in coincidenza con la fine del Pleistocene (fatto che Platone ignorava, ovviamente). Esistono infine numerose tradizioni, come ad esempio il “ragnarok” delle mitologie nordiche, l’Apocalisse di S. Giovanni ecc, che descrivono (al passato) la “fine del mondo”, attribuendola ad avvenimenti coincidenti con quelli descritti.
I miti sul diluvio, sulla scomparsa di Atlantide e sulla fine del mondo, costituiscono un complesso formidabile di testimonianze a favore di un salto di poli alla fine del Pleistocene. Ma nel contempo pongono un problema apparentemente insormontabile per l’archeologia classica. Dato costante di tutte queste tradizioni, infatti, è l’esistenza di una civiltà evoluta “prima” del diluvio universale. Il Noè biblico, come quello sumero e praticamente ogni altro nel mondo, è membro di una popolazione che pratica l’agricoltura, costruisce città e grandi navi. Appartiene quindi ad una società evoluta, certamente non paleolitica.
Secondo tutti i dati archeologici disponibili, invece, la fine del Pleistocene costituisce lo spartiacque fra il paleolitico e le culture successive. L’agricoltura, infatti, sembra svilupparsi in tutto il mondo soltanto dopo la sua fine. E’ ovvio che tale situazione archeologica abbia imposto una ben determinata interpretazione di quei miti, che vengono ritenuti privi di contenuto informativo storico e completamente ignorati.
La situazione cambia radicalmente se si esaminano questi miti alla luce del nuovo scenario appena tratteggiato. Si scoprono infatti l’esistenza di spazi mai presi in considerazione, che dovevano rivestire nel Pleistocene un ruolo fondamentale, prima fra tutti l’Antartide.
Se il polo nord si trovava nel Canada nord-orientale, il polo sud, di conseguenza, era spostato di oltre 20 gradi in direzione dell’Australia. Tutta la parte dell'Antartide rivolta verso l'Oceania, e cioè la Terra di Marie Byrd, le terre Adelie, di Wilkes e della Regina Mary, erano coperte di ghiacci come lo sono ora, o anche di più. Ghiacci che dovevano spingersi bene addentro fin nel cuore del continente e dovevano anche interessare le zone montagnose dell'isola, indipendentemente dalla loro latitudine (fig. 3). La fascia costiera che si affaccia verso l'America, l'Africa e l'Asia, invece, vale a dire la penisola di Palmer, l'area di Weddell, la terra della Regina Maud ecc. fino alla baia di Mackenzie, doveva essere sgombra dai ghiacci. La sua latitudine era all'incirca uguale a quella odierna dell'Europa e doveva godere quindi di un clima mite.
fig. 3– Profilo dell’Antartide nel Pleistocene
Se si osserva un mappamondo, ci si rende conto che l’Antartide si trova esattamente al centro dei tre oceani, circondata da tutti gli altri continenti a distanze di gran lunga inferiori a quelle che separano l’Europa dal Nord America e questo dall’Asia.
Nella situazione geografica esistente durante il Pleistocene, con il polo sud spostato, i venti alisei soffiavano dall’area indonesiana in direzione del Sud America, per cui necessariamente doveva esistere una corrente oceanica che dal sud est asiatico attraversava l’oceano Indiano, lambendo il sud Africa, per raggiungere poi la punta estrema del Sud America, incunearsi nello stretto di Drake, fra la Terra del Fuoco e l’Antartide, seguirne a lungo la costa occidentale, per disperdersi infine nell’immensità del Pacifico. Pertanto un qualunque oggetto natante, sfuggito dalle coste asiatiche, sud-africane o del sud America, veniva inesorabilmente sospinto verso l’Antartide.
Le popolazioni paleolitiche che abitavano l’area indonesiana avevano inventato qualche forma di imbarcazione già cinquantamila anni or sono. Risale a quest’epoca, infatti, il popolamento dell’Australia, che anche allora poteva essere raggiunta soltanto via mare. Nei quarantamila anni trascorsi tra la costruzione accertata delle prime imbarcazioni paleolitiche e la fine del Pleistocene è inevitabile che gruppi di persone provenienti dalle coste asiatiche e dal Sud America abbiano raggiunto l’Antartide.
Lo studio dei più antichi teschi umani trovati nel sud America, databili ad oltre 12 mila anni fa, hanno dimostrato oltre ogni possibile dubbio che i primi abitanti del Sud America appartenevano allo stesso gruppo razziale degli aborigeni australiani.
Evidentemente essi erano giunti non via terra, ma lungo la corrente equatoriale che dal Sud-est asiatico si dirigeva verso il Sud America e l’Antartide. Con gli australoidi è probabile che altri gruppi razziali siano arrivati dall’India meridionale, dal Sud Africa e dal Sud America.
Ed è assai verosimile che siano stati proprio questi naufraghi, capitati su una terra fertile e dal clima mite, ma priva di quelle specie vegetali su cui essi erano abituati a contare per il proprio sostentamento, a tentare i primi esperimenti di agricoltura, piantando semi o vegetali di cui avevano caricato l’imbarcazione alla partenza. L’invenzione dell’agricoltura comportò la costruzione di nuovi strumenti di lavoro, nuovi tipi di abitazione, nuova organizzazione sociale e così via: i primi passi verso la civiltà tecnologica.
Una peculiarità geografica dell’Antartide di allora, facilmente verificabile su una carta, è che vi potevano essere trascinati natanti praticamente da tutto il resto del mondo, ma non viceversa. Una qualunque imbarcazione sfuggita alle coste Antartiche sarebbe stata trascinata inesorabilmente al centro del Pacifico. La civiltà agricola si è quindi sviluppata in Antartide in completo isolamento dal resto del mondo, perché nessuna imbarcazione poteva lasciare l’isola per esportare altrove le sue prime fondamentali conquiste sulla via della civiltà.
Soltanto quando la civiltà fu sviluppata al punto da consentire la costruzione di grandi navi oceaniche, come quelle descritte dai miti, fu in grado di raggiungere le coste dei continenti circostanti; ma a quel punto dobbiamo presumere che il gap tecnologico con le popolazioni paleolitiche che li abitavano fosse diventato troppo grande perché fossero possibili reciproche influenze.
E’ probabile che siano state impiantate colonie lungo le coste per lo meno del Sud America. Essendo però il livello del mare di allora 130 metri più basso di quello attuale, i loro resti sono al di fuori dell’interesse e della portata della moderna prospezione archeologica. Quanto alle città e altre opere costruite nell’Antartide, esse sono state sepolte e spazzate in mare dai ghiacci che a partire dalla fine del Pleistocene hanno investito anche questa parte del continente. Ciò spiegherebbe l’assenza di resti archeologici non-paleolitici prima della fine del pleistocene.
L’Antartide, quindi, si identificherebbe con l’Atlantide di Platone, il grande impero marittimo posto al centro dei tre oceani e con il resto dei continenti disposti a corona all’intorno. E corrisponde in pieno alla sua descrizione
In sintesi, la situazione alla fine del Pleistocene doveva essere la seguente: nella fascia atlantica dell’Antartide esisteva un clima mite e si era sviluppata una civiltà evoluta, di livello non inferiore a quello delle più avanzate civiltà antiche a noi note. Su tutto il resto del mondo continuavano a prosperare indisturbate le culture paleolitiche. A questo punto un asteroide, o più probabilmente una cometa, avrebbe colpito la Terra[3], innescando il processo che nel giro di alcuni giorni provocò un ampio slittamento dei poli, con conseguenze catastrofiche sull’intero pianeta.
Nell’Antartide, posta al centro dell’intera massa oceanica terrestre, l’innalzamento del livello marino deve essere stato imponente, tale sommergere tutte le città. Se ci furono dei superstiti, furono sepolti poi dalla neve, che dovette cadere ininterrottamente nei mesi seguenti. Si salvarono soltanto gruppi di persone che avevano trovato scampo a bordo delle navi, che stando ai miti dovevano esistere in gran numero. La maggior parte naufragarono nella tempesta, ma un certo numero riuscirono a reggere la furia scatenata degli elementi e a riparare sulle coste del Sud America, dell’Africa e dell’Asia. Qui gli occupanti delle navi superstiti – a cui si unirono i sopravvissuti paleolitici locali – dovettero dare origine ciascuna ad una popolazione che introdusse nella regione le pratiche agricole della patria di origine.
Fig. 5 - Dispersione dei superstiti di Atlantide durante e dopo il diluvio universale
Il diluvio universale, quindi, avrebbe fatto esplodere la civiltà che fino ad allora era confinata alla sola Antartide, proiettandone i "frammenti" in ogni parte del mondo. Frammenti da cui sarebbero poi derivate le civiltà antiche. Tutte le culture non paleolitiche della Terra, pertanto, avrebbero avuto origine, in ultima analisi, da gruppi di superstiti di Atlantide, che avevano in partenza lo stesso livello di civiltà e lo stesso bagaglio culturale, scientifico e tecnologico, ma che si svilupparono in completo isolamento gli uni rispetto agli altri.
Questa ricostruzione dei fatti, necessariamente teorica, è compatibile coi dati disponibili, sia geologici che archeologici, tranne che per un problema apparentemente insolubile. La sopravvivenza di tradizioni e conoscenze, come quelle in possesso delle civiltà antiche, presuppone una continuità di cui non c’è alcuna evidenza archeologica. Le più antiche città conosciute, come Ugarit e Gerico, risalenti a diecimila anni fa, mostrano un livello tecnologico e culturale troppo basso per ritenere che siano state depositarie di una civiltà di tipo superiore. C’è quindi un gap cronologico di almeno 4 millenni fra la supposta distruzione di Atlantide e l’avvento delle più antiche civiltà superiori conosciute.
Anche per questo, però esiste una spiegazione logica. Le prime comunità si dovettero sviluppare lungo le coste. Dovettero passare secoli prima che ci fosse una ripresa della popolazione tale da provocare una espansione verso l’interno. Ma in ogni caso soltanto in vicinanza del mare dovevano esistere le condizioni per lo sviluppo di società di livello superiore a quello di Ugarit e Gerico, che necessariamente dovevano esistere anche nei millenni immediatamente successivi al diluvio. I resti archeologici di queste civiltà si stanno scoprendo soltanto ora, un poco alla volta. La spiegazione di questo fatto è molto semplice.
Prima del diluvio, come si è visto, esistevano due grandi calotte glaciali nel Nord Europa e nel Nord America, che avevano sottratto tanto acqua dagli oceani da farne scendere il livello di almeno 130 metri rispetto ad oggi. Questa immensa quantità di ghiaccio non impiegò certo un anno a sciogliersi e neppure un secolo. Ci vollero sei millenni. Il processo di smaltimento dei ghiacci fu molto lento e procedette tra fasi alterne. Ci vollero più di duemila anni perché la calotta glaciale europea si riducesse entro i confini della Scandinavia. Più di quattro perché sparisse del tutto; ed era quella, delle due, di minor spessore ed estensione.
Da ciò discende una conclusione lapalissiana: durante i sei millenni successivi al diluvio, il livello del mare crebbe lentamente, ma inesorabilmente, di alcuni metri ogni secolo. Cinquemila anni fa, quando il fenomeno poteva dirsi praticamente concluso, era ancora cinque metri al di sotto dell'attuale livello. L'archeologia e la storiografia di questo lunghissimo periodo ignorano completamente tale fenomeno, che pure dovette avere una influenza enorme sullo sviluppo delle culture di quel periodo.
I primi millenni dopo la fine del pleistocene, infatti, furono caratterizzati da un fenomeno grandioso, a cui gli studiosi sembrano non attribuire alcuna importanza: la crescita del livello del mare, che pur tra fasi alterne, si innalzò di ben 130 metri, stabilizzandosi soltanto verso la fine del quarto millennio a.C. Se dovesse accadere una cosa del genere oggi, la quasi totalità delle città del mondo andrebbe sommersa. Lo stesso dovette accadere allora: la quasi totalità dei resti delle comunità sorte dopo il diluvio è andata sommersa e si dovrebbe trovare ora in fondo al mare.
Merita di essere citata, a questo proposito, una struttura a zigurrat scoperta recentemente nell’isola di Yonaguni in Giappone, che è la più antica struttura del genere che si conosca, dal momento che risale all’ 8000 a.C. La datazione è stata ottenuta non sulla base di reperti materiali, ma per il fatto che si trova in fondo al mare ad una profondità che risultava al di sopra del livello del mare soltanto prima di quella data. Questa straordinaria struttura costituisce una prova importante a favore di quanto prospettato poco fa, di popolazioni di civiltà avanzata che hanno costruito le proprie città e monumenti in quella fascia costiera che è stata sommersa dal mare nei millenni successivi alla fine del pleistocene.
Resti di costruzioni sommerse sono stati trovati anche al largo di Cadice e nei Caraibi (Bimini); ma si potrebbero trovare anche altrove se si facessero ricerche ad hoc. Ad esempio ad Harappa e Mohenjo Daro sono state portate alla luce città che rispondono a criteri urbanistici di sorprendente modernità, con strade diritte e spaziose, servite da una rete di scarichi e fognature, case ben costruite, con bagno interno ed acqua corrente calda e fredda centralizzata; piazze spaziose, servizi accentrati, grandi magazzini e mercati. Come molte altre città “moderne” risalenti al terzo millennio a.C., non vi sono strati inferiori che mostrino una progressiva evoluzione urbanistica da un primitivo villaggio neolitico. Anzi, molto spesso si verifica proprio il contrario, e sono gli strati superiori che mostrano caratteri più primitivi. Sono civiltà che sembrano scaturire dal nulla già adulte e perfettamente formate, senza una adeguata e lunga preparazione evolutiva. Una ricerca al largo delle coste antistanti dovrebbe portare alla scoperta delle città da cui provenivano. Ed infatti, è notizia recente (luglio 2001) quella della clamorosa scoperta nel Golfo di Cambay, in India, di ben due grandi città sommerse.
Anche per queste città, come già per Yonaguni, Cadice e le Bermude, si è parlato di Atlantide, per la verità in maniera assai confusa, perché ne emerge l’immagine di una nazione sparsa contemporaneamente su tutte le coste del globo, che non concorda affatto con le tradizioni. In realtà, la quota a cui si trovano, circa 40 metri, indica chiaramente che si tratta di città sorte dopo la distruzione di Atlantide, originate quindi da navi superstiti riparate sulle coste asiatiche. Ed infatti, le datazioni al radiocarbonio effettuate su un frammento ligneo recuperati da queste città, riportano una data di ben 9500 anni fa; sono più o meno contemporanee di Yonaguni.
Atlantide era una nazione marinara, situata esattamente in mezzo ai tre oceani, con innumerevoli imbarcazioni. Dai resoconti di quel disastro (diluvio, Platone ecc.) sappiamo che su quelle navi imbarcarono tutti coloro che poterono trovarvi posto. La maggior parte dovettero naufragare nella tempesta; le rimanenti vagarono alla cieca per giorni o settimane, fino a che non incapparono in qualche costa. Partite da tutti i porti dell'Antartide, esse si sparpagliarono in ogni direzione e approdarono lungo le coste che si affacciano sui tre oceani. Giunsero così contemporaneamente in America, in Africa, in Asia e, secondo una leggenda locale, anche nell'isola di Pasqua.
L'Atlantide fu distrutta. Stando al racconto di Platone anche i monti furono sommersi. La maggior parte degli occupanti dell’isola devono essere stati spazzati via dalle acque. Se superstiti ci furono sulle montagne più alte, essi andarono incontro ad una sorte ancora più tragica subito dopo; ben presto, infatti una bianca coltre gelata seppellì definitivamente l'Antartide.
I superstiti scampati sulle navi, invece, si trovarono sparsi lungo tutte coste del mondo. Centinaia di chilometri separavano ciascun gruppo dagli altri; nessuno aveva notizia di altri scampati, e comunque nessun contatto fu possibile fra di essi, per lungo tempo a venire. Ciascuno dovette risolvere per proprio conto il problema impellente della sopravvivenza, sfruttando soltanto le risorse ed il potenziale umano, intellettuale e tecnologico di cui era in possesso, senza potersi avvalere delle risorse di gruppi magari poco lontani.
Gli occupanti delle navi si trovarono di fronte gruppi di superstiti paleolitici locali, terrorizzati ed affamati, e momentaneamente privi della risorsa della caccia (non va dimenticato, infatti, che le evidenze archeologiche dimostrano che fino al termine del Pleistocene tutti i continenti furono occupati da popolazioni paleolitiche, che scomparvero proprio in quell’occasione). Gli indigeni si unirono ai nuovi arrivati e insieme affrontarono e superarono i primi terribili anni. Ogni singola nave dette in tal modo origine ad una cultura proporzionata al patrimonio di conoscenze in possesso dei suoi occupanti e condizionata dal minore o maggior contributo delle popolazioni locali, di diversa razza e cultura. Ne dovette scaturire una vastissima gamma di culture. Tutti i gruppi di superstiti, però, avevano una base culturale comune, quella atlantide. E’ per questo che ritroviamo nei vari continenti civiltà che hanno una grande quantità di elementi in comune, pur non avendo mai avuto contatti reciproci fra loro. Secondo questa teoria, infatti, tutte le civiltà antiche del mondo hanno avuto origine da gruppi più o meno numerosi di superstiti di Atlantide.
Vorrei concludere con l’osservare che la teoria presentata in questa relazione è l'unica spiegazione che non è in contrasto con alcun fatto accertato, sia in campo geologico, glaciologico, paleontologico, geografico, climatologico, storico, archeologico, letterario, mitologico, cartografico o altro ancora. "Asso pigliatutto", l'ha definita un giorno lìarcheologo Valerio Manfredi. Essa tiene conto della situazione geologica alla fine del Pleistocene e degli avvenimenti che gli posero fine. Avvenimenti che sono entrati nella memoria ancestrale dell’umanità con i miti sul diluvio universale e le varie leggende sulla fine del mondo e sulla distruzione di mitici imperi marittimi. Tiene conto anche di quanto appurato dall’archeologia, che non ha trovato alcuna traccia di civiltà antidiluviane (nell’Antartide, infatti, ogni traccia è stata cancellata dai ghiacci), che per il periodo pleistocenico trova soltanto resti di culture paleolitiche, e che non ha trovato indizi di contatti reciprochi fra le civiltà americane e quelle del vecchio mondo, pur esistendo profonde affinità fra di esse.
Vengono infine spiegati perfettamente i ritrovamenti di resti di città o di costruzioni megalitiche nella piattaforma continentale dei più disparati punti del mondo.
Ogni tassello del grande puzzle che costituisce la nostra storia passata viene ad assumere in questo scenario una posizione logica e coerente, tanto che ritengo inevitabile che prima o poi venga universalmente accettato.
vedi successivo:
- Schema della nuova teoria di Atlantide nell'Antartide
- Il monte sacro di Atlantide - Ombelico del mondo
Torna a:
- Possibilità di rapidi spostamenti dei poli
- pagina iniziale
[1] F. Barbiero. “On the possibility of very rapid shifts
of the poles”, Quaderni del dipartimento di matematica, statistica
,informatica ed applicazioni, Università di Bergamo
[2] Hera, n. 2, pag. 66
[3] Secondo Alexander Tollman (Università di Vienna) e
Victor Clube (Università di Oxford), i frammenti di una grossa cometa colpirono
la Terra fra il 10.000 ed il 9.600 a.C.