Ora che ci siamo fatti un'idea approssimativa dell'origine dei corpi celesti e dei grandi avvenimenti che hanno caratterizzato la vita del nostro sistema solare, possiamo rivolgere la nostra attenzione alla protagonista di questa storia, la Terra.
Come sia nato il nostro pianeta l'abbiamo già visto: in modo del tutto normale come infiniti altri pianeti che popolano l’universo. Miliardi di anni fa tutta la materia che costituisce questo mondo era sparpagliata nel disco gassoso originario, una nube impalpabile e molto rarefatta, secondo il nostro metro. Un ipotetico viaggiatore che avesse percorso allora l’orbita su cui ruota attualmente la Terra, avrebbe avuto l’impressione di viaggiare nel vuoto.
In quel “vuoto", sotto l'azione di un pianeta nascente, Marte, cominciarono a formarsi moti vorticosi e addensamenti dì materia, finché un bel giorno sorse un vortice stabile, il primo embrione della Terra che crebbe velocemente, fagocitando tutti i vortici minori che si erano formati nella stessa orbita e rastrellando in pochi decenni quasi tutti i gas che si trovavano lungo di essa. Esauriti i gas, il processo di crescita del vortice si arrestò ed iniziò la lenta fase della condensazione, con la discesa dei materiali più pesanti nel nucleo.
Ben presto sulla frangia esterna del vortice terrestre si formarono alcuni piccoli vortici satelliti, secondo il solito procedimento. Ma questi ultimi non ebbero il tempo dì condensarsi: quasi contemporaneamente, con un ultimo sussulto, nasceva il sole. Un torrente di luce e di particelle iniziò a sprigionarsi dall’astro neonato; il grande disco gassoso originario, ancora quasi intatto, nonostante le "gallerie" scavate in esso dai piccoli vortici planetari, si dissolse, ritornando nuovamente allo spazio. Con esso scomparve ogni schermo fra l'astro infuocato ed il neonato vortice terrestre, che si trovò esposto in pieno all’azione disgregatrice del vento solare. Atomo dopo atomo tutta la parte esterna del vortice fu smantellata; ma ormai nel nucleo si era raccolta una quantità di materia sufficiente a creare un campo gravitazionale relativamente forte, in grado di resistere vittoriosamente agli assalti della luce e di consentire l'ultimazione del processo di condensazione.
Ci volle qualche milione di anni, forse, prima che il pianeta prendesse la sua consistenza definitiva. Lentamente i gas si concentravano e bruciavano fra loro, dando luogo a sostanze composte, e si surriscaldavano. Si formò il primo nucleo di metalli fusi. Poi, mano a mano che veniva smaltito calore, cominciarono a "piovere" su di esso le rocce fuse del Sima, che formarono uno spesso involucro liquido. Ben presto alla superficie di questo oceano incandescente si formò una prima sottile crosta solida, che col passare dei millenni andava sempre più aumentando il proprio spessore mano a mano che il calore interno veniva smaltito e disperso nello spazio.
Fu un processo lentissimo ancora lungi dall’essere concluso, perché la crosta solida superficiale costituisce un efficace guscio coibente, che rallenta la dispersione del calore interno. Una volta solidificatasi la superficie, la temperatura vi scese rapidamente a valori abbastanza bassi da consentire la condensazione della densa atmosfera di vapore acqueo e idrocarburi che l’avvolgeva. Iniziarono le prime piogge di petrolio bollente e poi di acqua. E piovve, piovve per millenni e millenni ininterrottamente, finché l'intero pianeta fu ricoperto da un oceano molto più profondo di quanto sia ora.
Il lungo processo della condensazione era terminato e la Terra iniziava la sua esistenza di pianeta "adulto"; un’esistenza che si preannunciava del tutto normale monotona e grigia, senza colpi di scena né avventure degne di nota.
Ma il futuro le riservava ben altro destino.
Prima di addentrarci nei misteri della sua straordinaria avventura, cerchiamo di farci una qualche idea in merito ad un problema che assorbe le energie di molti scienziati: l’età della Terra. E’ un problema importante i cui precedenti sono alquanto burrascosi; fino al secolo scorso nessuno osava mettere in dubbio l'interpretazione letterale della Sacre Scritture, che stabilivano in pochi millenni l'età del pianeta.
Col nascere di una nuova scienza, la geologia, cominciarono aspre polemiche fra scienziati da una parte e teologi dall’altra. Oggi le polemiche si sono acquietate e nessuno, o quasi, mette più in dubbio il fatto che la Terra si sia formata miliardi di anni fa in seno al disco gassoso solare. Datando le rocce con metodi basati sul decadimento di materiali radioattivi, come il rubidio, l’uranio, il potassio e vari altri, gli scienziati sono arrivati a stabilire con notevole precisione l’età di vari strati che compongono la Terra.
Le più vecchie rocce sedimentarie terrestri fino ad oggi scoperte hanno un’età di soli 3,96 miliardi di anni; ma cristalli terrestri di zirconi, provenienti dal magma profondo, hanno fornito un’età di circa 4,4 miliardi di anni. [1]. Ancora più antichi sono i sedimenti del fondo oceanico, nelle aree dove non hanno subito attività geologica dovuta al movimento della crosta; essi hanno un’età di 4,55 miliardi di anni. A quell’epoca la Terra aveva già un guscio esterno solido e un oceano che iniziava a depositare sedimenti. Il pianeta, quindi, doveva essersi formato qualche tempo prima; ma quanto esattamente?
Il problema può essere risolto legando l'età della Terra a quella degli altri corpi del sistema solare; basterà determinare con sufficiente precisione l’età di uno di essi sufficientemente vicino per sapere quella degli altri con buona approssimazione.
Innanzitutto bisogna mettersi d'accordo su cosa si intenda per “età" di un corpo celeste ed in particolare della Terra. L’istante di solidificazione della crosta esterna non può essere rappresentativo dell’età di un astro, perché fra la sua formazione e la solidificazione di una qualche sua parte trascorre un tempo più o meno lungo la cui durata dipende, a parità di altre condizioni, dalla massa del corpo stesso: più questa è piccola e più veloce sarà il processo di condensazione e solidificazione e viceversa.
Il Sole, ad esempio, non possiede croste solide e probabilmente neppure Giove. Neanche il momento della formazione del vortice può essere assunto in via generale come rappresentativo dell’età di un astro; il sole, infatti, si è formato parecchie centinaia di milioni di anni dopo il suo vortice.
Per i pianeti, però, specie quelli minori, il lasso di tempo che trascorre fra la formazione del vortice e la condensazione è senz'altro molto più piccolo, probabilmente dell’ordine di pochi milioni di anni, che si riduce ulteriormente per i satelliti.
Ciò premesso, osserviamo che tra la formazione del vortice di Vulcano e di quello terrestre deve essere trascorso un tempo dell’ordine delle decine, o al massimo centinaia di millenni , e cioè obbiettivamente un tempo molto breve se considerato in scala geologica. Un vortice planetario interno, infatti, dovrebbe impiegare poche migliaia di rivoluzioni per rastrellare la quasi totalità dei gas presenti nella sua orbita e raggiungere le dimensioni massime. Qualche altro centinaio di rivoluzioni è presumibilmente sufficiente a far insorgere il vortice del pianeta successivo. La differenza di età fra due pianeti interni contigui, pertanto, si misura col metro dei millenni, non dei milioni di anni. Quindi non commettiamo un errore apprezzabile se consideriamo coetanei Vulcano, Marte e la Terra.
E' sufficiente quindi trovare l'età di Vulcano per trovare automaticamente quella della Terra. Le prime rocce a solidificarsi sulla superficie di Vulcano devono essere state quelle che classifichiamo come carbonacee, poste immediatamente sotto la superficie del suo oceano. In effetti le meteoriti carbonacee, che dobbiamo ritenere provenienti da questo strato, sono fra le più antiche rocce datate con precisione fino ad ora del sistema solare; esse hanno un’età che arriva fino 4,566 miliardi di anni, con un margine di incertezza di circa 2 milioni di anni [2]. Appena una decina di milioni di anni in più delle più antiche rocce sedimentarie degli oceani terrestri.
Rimane l’incertezza di quanti milioni di anni abbiano impiegato i due pianeti a sviluppare la prima crosta solida. Non è detto che il processo sia avvenuto alla stessa velocità in entrambi, né che sia stato più veloce su Vulcano, a causa della sua maggiore massa; la pressione dell’atmosfera e dell’oceano, infatti, deve aver giocato un ruolo non indifferente in questo processo.
C'è però qui vicino a noi un componente della famiglia di Vulcano, la cui età è abbastanza vicina a quella della condensazione del pianeta e che può essere stabilita con una precisione maggiore. Si tratta della luna, che era in origine uno dei suoi satelliti naturali. Tra la formazione del vortice di Vulcano e di quello lunare deve essere trascorso un periodo di tempo molto breve, non superiore al centinaio di millenni. Poi, nel giro di pochi anni, il vortice lunare ha raggiunto le sue dimensioni massime ed è iniziato il processo di condensazione . Data la massa relativamente piccola dell’astro, la solidificazione della sua crosta più esterna deve aver richiesto un tempo molto breve, non superiore all’ordine dei milioni di anni.
La condensazione del vortice di Vulcano e subito dopo di quello terrestre dovrebbero essere avvenute in questo lasso di tempo.
A questo punto entrano in gioco i fisici con i loro metodi di datazione delle rocce; loro infatti sono in grado di dirci con una certa approssimazione quando si è solidificata la superficie lunare. Le varie missioni Apollo e quelle russe hanno portato sulla Terra una notevole quantità di campioni di rocce prelevate nelle località più disparate della luna, per cui possediamo un campionario sufficiente ampio per farci un’idea precisa delle varie fasi della formazione del suolo lunare.
Osserviamo il nostro satellite: l’intera sua superficie è butterata da una miriade di crateri, prodotti dall'impatto delle meteore. Originariamente, però, essa doveva essere piatta e liscia: il bombardamento, come per tutti gli altri corpi del sistema solare, è iniziato dopo l’esplosione. Ma non tutte le irregolarità della superficie lunare possono essere attribuite agli impatti dei meteoriti. Oltre ai crateri circolari sono ben visibili grandi superfici piane molto depresse i cosiddetti "mari”, ed aree montagnose con vette che si innalzano per migliaia di metri.
Sull'origine dei mari e delle montagne sono state avanzate numerose ipotesi, senza arrivare ad alcuna conclusione definitiva. Neppure le numerose missioni lunari sono valse a dissipate il mistero; tuttavia esse hanno portato ad un certo numero di scoperte impreviste e molto importanti. Innanzitutto quando i satelliti russi hanno fotografato per la prima volta l'altra faccia della Luna, la cui visione era sempre stata negata all’uomo, ci si è trovati di fronte ad un’autentica sorpresa: sull'altra faccia non esistono mari, né catene montagnose, ma solo un’immensa distesa di crateri meteoritici.
I due emisferi lunari, quindi, si differenziano profondamente: liscio e uniforme il primo, se si eccettuano i crateri meteoriti; tormentato e rugoso, con altissime montagne e vaste depressioni il secondo. Perché tanta differenza? E ancora: è un caso oppure esiste una ragione ben precisa per cui la Luna presenti alla Terra questa seconda faccia e non la prima?
La risposta a queste domande è probabilmente legata alla soluzione preventiva di un altro problema quello dell'origine dei cosiddetti mari lunari.
Esistono delle differenze sostanziali fra le rocce dei mari e quelle delle montagne e delle terre alte lunari in genere. Queste ultime sembrano costituite da rocce simili alle anortositi terrestri, mentre i mari da rocce simili ai basalti. Entrambi queste rocce sono classificate come plutoniche, originatesi cioè per raffreddamento di un magma fuso. Mentre però le rocce di tipo anortositico, almeno sulla Terra, si formarono per raffreddamento molto lento di magma in profondità, quelle di tipo basaltico sono rocce essenzialmente eruttive. Altra grossa differenza è la densità: di circa 2,9 kg/dm3 per le prime, 3,3 per le seconde. Poiché la densità media della Luna è di 3,34, è da escludersi categoricamente che essa sia formata in prevalenza da rocce come quelle dei mari, le quali a quote profonde assumerebbero una densità di circa 3,7, troppo elevata per essere compatibile con la densità media della Luna. Il satellite, quindi, deve essere costituito per la quasi totalità (a parte il nucleo metallico interno) da rocce simili a quelle che si trovano sulle terre alte.
Infine l’età: le rocce delle terre alte hanno un’età che parte da circa 4600 milioni di anni, pari a quella delle rocce più antiche del sistema solare, mentre quelle dei mari hanno un’età compresa fra 3,9 e 3,2 miliardi di anni. Si aggiunga il fatto che i mari si trovano soltanto su una delle due facce lunari. Cosa ci dicono questi dati? Proviamo a risalire indietro nel tempo ed a ricostruire le vicissitudini del nostro satellite nel corso della sua avventurosa esistenza.
La Luna è nata 4600 milioni di anni fa, da uno dei vortici minori. di Vulcano, in modo del tutto normale: la sua superficie doveva essere liscia e uniforme e avere ovunque la medesima composizione. Non essendovi allora meteoriti nel sistema solare, per centinaia di milioni di anni non vi fu nulla che potesse modificare l’aspetto del piccolo astro.
Poi all'improvviso Vulcano esplose. E’ ovvio che la Luna venne investita in pieno dalla materia proiettata dal pianeta, e cioè da grandi masse di liquido oceanico e da grossi frammenti del Sima. Attenzione, però: soltanto una faccia del satellite può essere stata investita, e cioè quella che al momento dell’esplosione era rivolta verso il pianeta. L’altra, essendo dietro, fu necessariamente risparmiata.
I liquidi proiettati sulla Luna evaporarono presto, senza lasciare tracce evidenti e residui, o quasi. Non così per i frammenti solidi, che si conficcarono sulla superficie, aprendo larghe ferite. Essi erano costituiti ovviamente da materiale più pesante di quello della superficie lunare ed erano certamente allo stato fuso, o perché non si erano ancora solidificati al momento dell’esplosione, oppure perché si sono liquefatti immediatamente una volta liberati dall’enorme pressione degli strati soprastanti. Conficcatisi sulla superficie lunare, hanno creato degli enormi bacini di lava fusa, che ha cominciato a solidificarsi a partire dalla superficie; ma fenomeni vulcanici, con imponenti fuoriuscite superficiali di lava, hanno continuato a lungo, per centinaia di milioni di anni (almeno 600 a giudicare dalla differenza di età fra i vari mari), fino a che l’intera massa dei singoli frammenti si è raffreddata e solidificata completamente. Per primi devono essersi solidificati i frammenti minori, quelli che hanno dato origine ai mari più piccoli e poi via via in successione, quelli più grandi.
Le colate laviche distribuirono uniformemente il materiale dei frammenti esterni in grandi bacini, che costituiscono appunto i "mari” attuali. Essendo questi costituiti da rocce pesanti, la loro superficie è scesa al di sotto di quella media lunare. Ma per fare questo dovettero necessariamente comprimere e spostare lateralmente le rocce originarie circostanti; si formarono così altissime catene montagnose ai bordi dei mari.
In conclusione, quindi, i “mari” sono formati da rocce provenienti dal pianeta Vulcano mentre le terre alte sono costituite dalle rocce lunari originarie.
Si spiega perfettamente allora perché mari e montagne esistano su una sola faccia della Luna, e perché abbiano densità, caratteristiche chimiche e morfologiche e soprattutto età diverse. Si spiega anche perché la Luna presenti alla Terra proprio e sempre questa faccia; infatti alla sua superficie, a differenza dell'altra faccia, sono presenti grandi quantità di rocce pesanti, che subiscono in misura maggiore l’azione gravitazionale terrestre. Era inevitabile che l’iniziale moto rotatorio della Luna venisse smorzato ed il satellite si fermasse con la faccia più pesante rivolta alla Terra. Infatti si comporta nei confronti del pianeta come una sfera che sia stata appesantita in un punto: questo si disporrà sempre in basso.
Le conclusioni cui siamo arrivati sono molto importanti per capire le particolarità del nostro satellite; nello stesso tempo ci consentono di stabilire con precisione l’epoca dell’esplosione di Vulcano.
Sezione schematica della luna che mostra la sua struttura interna. I “mari” si trovano soltanto sulla faccia rivolta alla Terra e hanno una densità superiore a quella della crosta originaria. Di conseguenza si sono assestati ad un livello di almeno due km più basso che non la crosta della faccia opposta, che ha una composizione omogenea simile a quella delle “terre alte” che si trovano intorno ai mari. La differenza di densità dei mari appare in tutta evidenza dalla superficie equipotenziale (in tratteggio) determinata mediante rilievi gravimetrici.
La luna è stata investita da grossi frammenti di Vulcano il giorno stesso dell’esplosione. A partire da quel momento il satellite è stato sottoposto ad un incessante bombardamento di meteoriti e asteroidi. I due fenomeni sono chiaramente identificabili e databili.
Cominciamo con il bombardamento meteoritico. Esso è stato particolarmente intenso nei primi tempi ed ha rapidamente formato uno strato di “brecce”, costituite da frammenti dell’antica superficie lunare sbriciolati dagli impatti. Le brecce più antiche hanno un’età di circa 3,9 miliardi di anni; il bombardamento meteoritico, quindi deve essere iniziato immediatamente prima di quella data.
Anche i frammenti di roccia prelevati nei cosiddetti “mari” lunari riportano alla stessa data. Essi sono costituiti interamente da materiali che si sono solidificati da una massa fusa, ovviamente in epoca posteriore a quella dell’impatto.
Le datazioni fornite dalle rocce prelevate nei mari lunari sono perfettamente coerenti con questa ricostruzione. Le rocce più antiche sono quelle prelevate nel mare del Nettare, il più piccolo fra i mari lunari, ed hanno fornito una data di 3,92 miliardi di anni. Le rocce plutoniche diventano via via più recenti negli altri mari, a seconda delle loro dimensioni. Le più recenti hanno 3,2 miliardi di anni, a questa data cessa ogni attività vulcanica sulla superficie lunare, segno che gli antichi frammenti del mantello di Vulcano sono completamente solidificati e raffreddati.
L’esplosione di questo pianeta, quindi, deve essere avvenuta qualche tempo prima di 3,92 miliardi di anni fa. Quanto prima dipende dal tempo che ha impiegato il frammento che ha originato il mare del Nettare a solidificarsi e cessare completamente ogni attività vulcanica. Tempo che, a giudicare da quanto è successo nei mari, vicini dovrebbe essere dell’ordine di diversi milioni di anni.
Una precisione maggiore può essere ottenuta ritornando su questa Terra. Si è detto che i continenti su cui viviamo sono costituiti dai materiali di un satellite di Vulcano catturato dalla Terra. Cadendo sulla Terra, il satellite deve essersi frazionato in quattro o cinque grossi frammenti, che si sono conficcati nel mantello del pianeta e sono stati subito sommersi dall’oceano. Da quel momento sono cominciati a verificarsi fenomeni di erosione e di sedimentazione, che hanno dato origine alle prime rocce sedimentarie dei nostri continenti.
Ebbene, la più antica roccia sedimentaria continentale ha un’età di circa 3,96 miliardi di anni, appena 40 milioni in più della più antica roccia effusiva della luna. Ci può essere un errore di qualche milione di anni in entrambi le datazioni, ma in ogni caso non tale da invertire l’ordine degli avvenimenti. La cattura del satellite da parte della Terra è stata certamente posteriore all’esplosione di Vulcano, ma presumibilmente di poco, per cui potremmo considerarli contemporanei, come pure la formazione delle prime rocce sedimentarie continentali.
Se ne conclude che l’esplosione di Vulcano deve essere avvenuta all’incirca 3,96 miliardi di anni fa, milione più milione meno.
Un’ultima cosa, che può avere un grande interesse per la futura colonizzazione del nostro satellite, è la possibile presenza su di esso di notevoli quantità di acqua . E’ escluso che la luna potesse avere un oceano di acqua al momento della sua formazione, o anche soltanto piccole quantità di acqua libera. Durante ripetuti passaggi sopra i poli lunari, però, uno strumento del Lunar Prospector ha individuato notevoli emissioni di idrogeno da alcuni crateri in ombra.. Gli scienziati hanno ipotizzato che fossero dovute alla presenza di acqua congelata nel fondo dei crateri, la cui quantità è stata valutata intorno ai 6 miliardi di tonnellate.
Secondo loro l’acqua potrebbe essere stata portata sulla luna da comete che avrebbero impattato la sua superficie. Esiste però un’altra spiegazione più verosimile. Si è detto che parti dell’oceano di Vulcano sono state proiettate nello spazio, e devono aver investito la luna insieme ai frammenti del mantello. L’oceano era costituito da idrocarburi, ma anche da acqua, che sono entrambi evaporati; gli idrocarburi velocemente, l’acqua un po’ meno. In particolare notevoli quantità di acqua devono essere rimaste congelate a lungo in prossimità dei poli lunari, e sarebbe rimasta intrappolata fino ad oggi in alcuni grandi crateri sempre in ombra.
Della Terra, questa grande palla del diametro di oltre 12 mila chilometri, noi conosciamo per esperienza diretta soltanto un sottilissimo strato superficiale, che arriva appena all'uno per mille dell’intero spessore del pianeta.
L’interno è noto soltanto in base al comportamento delle onde sismiche, che ci danno informazioni sullo stato fisico della materia a grande profondità. Le modalità di propagazione delle onde dei terremoti ci hanno consentito di appurare che il nucleo più interno del pianeta, per un raggio di quasi tremila chilometri, si trova ancora allo stato liquido. Al suo centro, però, si trova un nucleo metallico solido, con un raggio di un migliaio di km.
La legge della gravitazione universale ci consente di avanzare congetture anche in merito, alla costituzione del nucleo interno. La densità media del globo, infatti, risulta essere di 5,5 kg/dm3; poiché gli strati superiori hanno una densità non superiore a 3,4 kg/ dm3, è evidente che il nucleo deve essere costituito da sostanze molto pesanti, come ad esempio il ferro. In base alla distribuzione degli elementi nell'Universo e a calcoli complicati, i geofisici sono arrivati alla conclusione che questo primo nucleo contenga principalmente ferro e nichel, e perciò lo hanno denominato Nife.
Sopra il Nife c’è un sottile strato, abbastanza disomogeneo, che si ritiene costituito in prevalenza di ferro e zolfo, ed è perciò chiamato Sofe.
Sopra il Sofe c'è un poderoso strato di rocce, dello spessore di circa 2900 chilometri, di composizione piuttosto omogenea con alte percentuali di silicio e magnesio e detto perciò Sima. Sopra questo strato “galleggiano”, come altrettante zattere, i continenti, composti in prevalenza di silicio ed alluminio e perciò detti nel loro insieme Sial.
Il Sial non costituisce uno strato continuo, ma è appunto frazionato in blocchi limitati, aventi uno spessore dai 20 ai 60 chilometri, e che in totale non coprono più del 30% dell’intera superficie terrestre. Poiché la loro densità è mediamente di 2, 7 kg/dm3 , e cioè circa il 20% in meno di quella del Sima sottostante, che è di 3,4 kg/dm3, tali blocchi galleggiano su quest’ultimo nel pieno rispetto della legge di Archimede. Un buon 20% del loro spessore, quindi, emerge dal livello del Sima e arriva a superare il livello delle acque oceaniche formando i continenti emersi.
L'assimilare i continenti a vere e proprie zattere di Sial non è affatto un’immagine poetica. Praticamente tutto il Sial terrestre è concentrato nei blocchi continentali. Il fondo degli oceani, e cioè il 70% della superficie solida del pianeta, è formato direttamente dal Sima, coperto soltanto da un leggero strato di sedimenti. Nell’Atlantico, che è un bacino chiuso fra due poderose masse continentale, lo strato sedimentario ha uno spessore mediamente dell'ordine delle centinaia di metri. Nel Pacifico invece è soltanto di qualche decina di metri ed è formato quasi esclusivamente dagli scheletri calcarei di innumerevoli animaletti pelagici e da polveri meteoritiche.
Il Sial quindi non costituisce un involucro continuo e di spessore costante come dovremmo aspettarci in base alla teoria dei vortici.
La composizione a strati della Terra: - La struttura interna del nostro pianeta è determinata in base alla velocità e modalità di propagazione delle onde sismiche provocate dai terremoti. Ci sono essenzialmente due tipi di onde, quelle di compressione (P) e quelle trasversali (S) (vedi diagramma inferiore). La velocità delle onde P cala bruscamente ad una profondità di 2.900 km, segno di un cambio repentino dello stato e composizione della materia, che da solida diventa liquida. Questo è provato dal fatto che le onde trasversali, S, si interrompono bruscamente, in quanto non possono propagarsi in un mezzo liquido. La velocità di propagazione delle onde P aumenta nuovamente dopo i 5.000 km, indicando la presenza di un nucleo solido.
Attualmente l’Oceano è costituito essenzialmente da acqua, in cui è disciolta una certa quantità di sali minerali. L'atmosfera è costituita per il 78% di azoto, il 21% di ossigeno ed il rimanente da altri gas come vapore acqueo C02, idrogeno, elio ecc. Originariamente però la situazione doveva essere diversa; sappiamo che sui grandi pianeti esterni, sono presenti idrocarburi in grande quantità: essi costituiscono la camicia liquida più esterna e gran parte dell'atmosfera. Anche la Terra doveva possederne una certa quantità nei primi tempi della sua vita.
L’oceano primitivo doveva essere composto da due strati ben distinti: uno di acqua formatosi dalla combinazione dell'ossigeno con l’idrogeno l'altro di idrocarburi nato dalla combustione dell’idrogeno, l'elemento più abbondante del primitivo vortice planetario, con il carbonio
.
Supposta composizione dei pianeti giganti esterni. Giove e Saturno sarebbero costituiti in massima parte da idrogeno liquido molecolare e metallico, seguiti da un sottile involucro di acqua e da un piccolo nucleo interno roccioso. Urano e Nettuno sarebbero coperti da un oceano di idrogeno molecolare, seguito da un poderoso strato di acqua ed un nucleo interno roccioso relativamente grande. In realtà, poiché nei vortici planetari originari erano certamente presenti quantità non trascurabili di carbonio, ferro e nichel, sopra l’acqua dovrebbe esistere un involucro di idrocarburi e di CO2, formati dalla combinazione dell’idrogeno e dell’ossigeno con il carbonio, e al centro dei pianeti un nucleo di ferro-nichel.
L'atmosfera doveva essere formata dagli idrocarburi più volatili, come il metano, da vapore acqueo e ammoniaca, formatasi dalla combinazione dell’azoto con l'idrogeno. Ovviamente non esisteva ossigeno libero perché questo elemento si combina con gli idrocarburi, bruciandoli e producendo CO2 di cui doveva esistere una percentuale piuttosto elevata. Un ambiente davvero poco favorevole all'uomo. La profondità dell'oceano a due strati era superiore a quella odierna.
Che fine ha fatto tutto il petrolio? La risposta è abbastanza semplice: è stato bruciato... dall'acqua.
E' noto che i raggi ultravioletti hanno la capacità di scindere le molecole del vapore acqueo, dividendo l'ossigeno dall'idrogeno. Attualmente negli strati alti dell’atmosfera esiste una quantità considerevole di ossigeno ionizzato, l'ozono, che costituisce una efficace barriera per i raggi ultravioletti, impedendo loro di raggiungere in gran quantità la superficie terrestre. Senza questa invisibile barriera protettiva la vita sarebbe rapidamente distrutta. La protezione, però, si estende anche al vapore acqueo che non raggiunge mai gli strati più alti dell'atmosfera e perciò non viene dissociato dall'azione dei raggi ultravioletti.
Originariamente però non esisteva ossigeno libero nell’atmosfera e quindi neppure la barriera protettiva di ozono. I raggi ultravioletti penetravano nell'atmosfera fino a raggiungere il vapore acqueo e lo scindevano: l’idrogeno, data la sua leggerezza, si perdeva nello spazio; l’ossigeno, invece, si combinava con gli idrocarburi producendo anidride carbonica e liberando nuovo idrogeno. Altro vapore acqueo saliva dall'oceano ed il ciclo continuava. Attraverso questo meccanismo l'acqua, in ultima analisi, bruciava il petrolio.
Il processo continuò per centinaia e centinaia di milioni di anni durante i quali le riserve di acqua e petrolio andavano assottigliandosi di pari passo. Fortunatamente la quantità iniziale di acqua era superiore a quella del petrolio, per cui quando quest'ultimo fu bruciato interamente ne rimase a sufficienza per formare gli attuali oceani.
A questo punto scattò l'operazione "pulizia" dell’atmosfera: esauriti gli idrocarburi erano rimasti soltanto ammoniaca, anidride carbonica e vapore acqueo. L'ossigeno liberato dalla dissociazione del vapore acqueo, non essendovi più petrolio da bruciare, si accumulò negli strati alti dell’atmosfera formando la camicia protettiva di ozono per cui la "fuga" di acqua ai rallentò notevolmente.
Chi rimaneva soggetto alla dissociazione da parte dei raggi ultravioletti invece era l’ammoniaca che si scindeva in azoto e idrogeno: quest'ultimo si disperdeva nello spazio mentre il primo scendeva negli strati bassi dell'atmosfera. I primi organismi vegetali si incaricarono in seguito di pulire l'atmosfera dall’anidride carbonica, immettendovi ossigeno, fino a che fu raggiunta la composizione di equilibrio attuale.
Uno dei problemi più dibattuti della Geofisica è l'origine del Sial, cioè dei continenti su cui viviamo. La teoria più quotata oggi fra gli astronomi è che sia la luna che i continenti abbiano avuto origine da un singolo evento, avvenuto quando la crosta esterna della Terra aveva appena iniziato a solidificarsi e cioè poco dopo l’inizio della sua esistenza. Il globo sarebbe stato urtato di striscio da un enorme bolide, che avrebbe strappato dalla superficie grandi quantità di materiali che si sarebbero immessi in orbita attorno alla Terra e si sarebbero in seguito aggregati formando la luna. La parte superstite della crosta terrestre avrebbe poi formato i continenti.
L’urto di un grande bolide contro la Terra, nelle prime fasi della sua esistenza, secondo la teoria più quotata fra gli astronomi avrebbe dato origine alla luna e ai continenti.
È una teoria che non è supportata da alcuna traccia evidente sul mantello terrestre e sembra smentita dalla composizione e datazioni fornite dalle rocce sia lunari che terrestri, oltre che da una serie di altre considerazioni, sulle quali non è il caso di dilungarsi. La teoria dei vortici e le considerazioni svolte fino ad ora in merito all’esplosione di Vulcano, infatti, offrono una spiegazione per l’esistenza dei continenti molto più verosimile e del tutto coerente con gli avvenimenti fin qui esaminati.
È già stata avanzata l’ipotesi che il materiale costituente i continenti non sia originario di questa Terra ma sia venuto da fuori, dallo spazio, e più precisamente da uno dei satelliti di Vulcano. Prima che esplodesse la superficie solida della Terra non presentava alcuna irregolarità: un oceano di acqua e petrolio copriva interamente il globo ed il fondo dell’oceano costituito dal Sima era piatto e uniforme. Venti e correnti oceaniche, in mancanza di ostacoli, seguivano un flusso regolare senza variazioni di sorta.
Poi d’improvviso, in seguito all'esplosione di Vulcano, le notti prima buie e monotone vennero animate dalla comparsa in cielo di milioni di comete e da un fitto ed incessante bombardamento di meteoriti che a centinaia solcavano il cielo in ogni istante. Ma non erano certo questi frammenti che potevano mutare il destino del pianeta; uno straordinario avvenimento dalle conseguenze inimmaginabili stava maturando.
Vulcano, sotto l’impulso dell’urto, cominciò a precipitare verso il sole, trascinando per qualche tempo almeno un paio dei suoi satelliti, che vennero a posizionarsi su un'orbita che al perielio, e cioè nel punto più vicino al sole, rasentava l’orbita terrestre. Era inevitabile che prima o poi capitassero nelle vicinanze della Terra e rimanessero catturati dalla sua forza di gravità. Ed infatti ciò avvenne. Il più grande dei due riuscì a mantenersi a distanza di sicurezza, cosicché la Terra ebbe finalmente il suo satellite anche se un po' malconcio per le ferite infertegli dall’esplosione; e la Luna ebbe un nuovo pianeta intorno a cui ruotare.
La cattura del secondo satellite fu assai più maldestra e movimentata. Come siano andate esattamente le cose è difficile stabilirlo; sta di fatto che il piccolo astro anziché parcheggiarsi su un’orbita stabile, si schiantò sul pianeta. Non fu un urto diretto ad altissima velocità, come quello del bolide che distrusse Vulcano: Terra e satellite si muovevano nella stessa direzione, per cui la velocità relativa era piuttosto limitata. Il satellite "atterrò”, forse non troppo morbidamente, ma neppure con eccessiva violenza, e si frantumò in 5 o 6 grandi frammenti che si conficcarono nel mantello del pianeta. L’oceano si richiuse prontamente su di essi e dopo breve tempo tutto ritornò tranquillo. Ma la calma durò poco. I frammenti del satellite avevano una densità minore di quella del Sima in cui erano conficcati: 2,7 kg/dm3 contro i 3,4 del mantello. Inesorabilmente essi vennero sospinti verso l’alto, finché un giorno la loro estremità superiore emerse sopra l’oceano; la monotonia dell’ immensa superficie nerastra fu rotta dalle prime isole, che ingrandivano a vista d’occhio, mano a mano che il frammento veniva sospinto verso l'alto.
Subito le isole furono aggredite dagli agenti atmosferici ed essendo totalmente prive di protezione vegetale, vennero facilmente erose. Immense quantità di fango cominciarono a colare nell’oceano e a depositarsi sul fondo. A poco a poco gli ampi bracci di mare che si stendevano fra un frammento e l'altro vennero colmandosi di sedimenti, strappati alle altissime isole, che continuavano ad innalzarsi, e si formarono cosi le radici degli attuali continenti.
In realtà quindi, la terra su cui camminiamo e che ci fornisce ricovero e sostentamento non è originaria di questo pianeta, ma viene da molto lontano: un regalo donatoci da Vulcano al momento della sua morte; un piccolo corpo insignificante e senza vita che è divenuto protagonista di una avventura straordinaria e forse unica.
Tenuto conto del volume globale del Sial terrestre, il satellite da cui esso ha avuto origine doveva avere un diametro notevolmente inferiore a quello della luna, non superiore ai 1200 chilometri. Inoltre si era formato certamente su un’orbita più esterna. Le rocce anortositiche della Luna, infatti, hanno una densità leggermente superiore a quella media del Sial terrestre (2,9 contro 2,7 kg/dm3 ); ciò significa che il satellite che ha dato origine ai continenti era più lontano da Vulcano che non la Luna e quindi meno denso.
Era un satellite con un diametro tra i mille e i milleduecento km, formatosi su un’orbita immediatamente esterna rispetto a quella della luna, ma nato indubbiamente nel vortice di Vulcano perché ha la stessa composizione isotopica della luna (ed è questo un secondo argomento che gli astronomi adducono favore della loro teoria).
La massa continentale come si presentava prima del frazionamento del Pangea. In nero sono rappresentati gli antichi scudi precambrici. Dovrebbero corrispondere grosso modo ai frammenti in cui si è frazionato il satellite al momento della cattura da parte della Terra.
Abbiamo aggiunto altri brandelli alle nostre conoscenze tanto che possiamo guardare con maggior confidenza alle miriadi di stelle del firmamento ed immaginare con una certa precisione cosa potremmo aspettarci di trovare se vi andassimo. Ora sappiamo che vi troveremmo mondi simili alla Terra per dimensioni; ma invano le nostre astronavi vi cercherebbero un campo su cui atterrare: dovrebbero essere essenzialmente oceanici senza isole. Molti dovrebbero essere ancora coperti di petrolio e avvolti in un’atmosfera per noi irrespirabile; altri, invece, dovrebbero possedere un oceano di acqua come il nostro, ma nessuna traccia di isole e continenti. Quanto all’atmosfera essa dovrebbe essere costituita in prevalenza da azoto e anidride carbonica, quindi sempre irrespirabile per noi.
A meno che … non si sia sviluppata su di essi una qualche forma di vita di tipo vegetale, che abbia fissato il carbonio, liberando l’ossigeno e rendendo in tal modo l’atmosfera respirabile anche per noi. Non c’è ragione, infatti, di ritenere che la vita non si sia sviluppata anche lì. Ma quale vita? Evidentemente si possono essere sviluppate forme di vita essenzialmente acquatica e, perché no, anche aerea. Non si può neppure escludere che molti di questi mondi possiedano banchise polari di ghiacci galleggianti e che queste siano state colonizzate in qualche modo. In ogni caso forme di vita di tipo terrestre, piante arboree e animali come noi, queste dovrebbero essere estremamente rari nell'Universo.
Esiste la possibilità teorica, anche se piuttosto remota, che una percentuale non trascurabile di mondi presenti caratteristiche favorevoli allo sviluppo di forme di vita di terraferma e ad una eventuale colonizzazione umana. E’ estremamente improbabile che su altri sistemi solari possano essersi verificate esplosioni di pianeti sul tipo di quella di Vulcano, che ha avuto il felice effetto di creare i continenti sulla Terra. Ma non è detto che sia impossibile la formazione di terre emerse in altro modo. Ad esempio potrebbe accadere che in qualche pianeta le quantità iniziali di acqua e petrolio siano più o meno equivalenti, e che la quantità di acqua residua sia molto esigua, tanto da lasciare alcune parti del pianeta “scoperte”. In tal caso potrebbero in teoria verificarsi interessanti fenomeni, legati all’insorgere di forme di vita differenziate alle varie latitudini, che potrebbero creare sedimenti di natura organica di tipo e consistenza diversi.
Tanto per fare un esempio, potrebbero insorgere nei mari tropicali (o anche altrove) forme di vita di tipo corallino, o qualcosa del genere, che creino esse stesse delle isole emerse. La sedimentazione dei materiali di origine organica potrebbe anche creare sul fondo dell’oceano strati caratterizzati da una diversa conducibilità termica alle varie latitudini; ciò potrebbe forse provocare differenze di temperatura negli strati superficiali del Sima sufficienti a provocare l'insorgere di moti convettivi come sulla Terra. Con la differenza che questi moti sarebbero diretti dalle alte latitudini verso l’equatore, con il risultato di ammassare i sedimenti formando un anello continuo di terre emerse intorno ad esso.
Sono ipotesi abbastanza gratuite, ma per lo meno schiudono qualche speranza: non è detto che l’Universo sia chiuso alla colonizzazione di esseri di terraferma quali noi. E’ improbabile, ma non si può escludere che sbarcando su un pianeta di caratteristiche fisiche simili a quelle terrestri, vi si trovino condizioni non ostili per la nostra sopravvivenza: un oceano di acqua poco profonda e un’atmosfera respirabile; all’equatore un anello più o meno alto e largo, ma pressoché continuo, di terre emerse, formato esclusivamente di antichi sedimenti organici; forse due anelli di terre moreniche intorno alle calotte polari. Tutto sommato, quindi, potremmo anche trovare condizioni ambientali e climatiche vivibili.
Ma in mezzo a quali forme di vita ci troveremmo? Alla monotonia dell’ambiente corrisponderebbe anche una quantità limitata di forme primitive, o avremmo la ricchezza e la varietà dei nostri tropici? E’ ancora presto per rispondere a questa domanda; vedremo se è possibile dare una risposta non arbitraria nel seguito della nostra indagine.
[1] The Cambridge guide to the solar system, pag 119
[2] Ibidem, pag. 183
vedi precedenti:
- Come nascono le galassie e le stelle
- Formazione dei pianeti e dei loro satelliti
caratteristiche fisiche e orbitali
- Esplosione del pianeta Vulcano
sue conseguenze nel sistema solare
vedi successivi:
- L'evoluzione della Vita e le sue cause
Lo sviluppo dell'intelligenza
- Il futuro della specie umana
Prevedibili linee di evoluzione
- Possibilità di rapidi spostamenti dei poli
- La vicenda del pianeta Venere
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