La teoria dei vortici ci ha condotti a postulate l’esistenza di un antico pianeta che ho denominato Vulcano [1] fra Marte e Giove.
Prima di esaminare quale può essere stata la causa e le modalità della sua esplosione vediamo di farci un’idea approssimativa delle sue caratteristiche fisiche ed orbitali.
La regola delle distanze ci fornisce un criterio abbastanza attendibile per ricavare la sua distanza dal sole. Nella pagina precedente avevamo stabilito in circa 1.400 giorni il suo periodo di rivoluzione; la distanza media dal sole, quindi, doveva aggirarsi fra le 2.6 e 2,7 unità astronomiche, vale a dire circa 400 milioni di chilometri.
Anche per stabilire la densità abbiamo un criterio più o meno attendibile, il grafico delle densità, che ci indica un valore compreso fra 1,5 e 2 kg/dm3
Più difficile, invece, valutare la massa del pianeta perché nella sua determinazione sono entrati in gioco vari fattori, dei quali non possiamo conoscere l'influenza senza un preciso modello matematico.
Un ipotetico raccordo graduale fra la massa di Giove e quella dei pianeti interni porterebbe a presumere per Vulcano una massa da 20 a 40 volte quella terrestre.
Ad una cifra dello stesso ordine di grandezza si giunge seguendo un altro ragionamento: la luna (3.475 km) non si è certo formata intorno alla Terra. Per spiegare la sua origine si deve necessariamente ritenere che fosse un antico satellite di Vulcano, probabilmente il più grande. Insieme ad essa il pianeta doveva possederne almeno altri tre o quattro, tra cui Cerere (950 km), il corpo più grande della fascia dei pianetini; doveva appartenere quindi alla categoria dei pianeti giganti. Poiché le dimensioni dei satelliti dipendono in qualche misura dalle dimensioni dei pianeti-madre, troviamo che Vulcano doveva avere una massa intermedia fra quella di Saturno (con Titano di 5.150 km; Rhea e Giapeto di circa 1.500 km), e quella di Urano (con due satelliti, Titania e Oberon, dell’ordine di 1500 km) e cioè appunto da 20 a 40 volte quella terrestre. Una massa una trentina di volte superiore a quella terrestre sembrerebbe quella più verosimile.
Questa conclusione, però, urta in maniera apparentemente inconciliabile con il valore della massa di tutti i pianetini conosciuti nella fascia degli asteroidi, che globalmente non supera un decimo della massa della luna. Troppo poco, secondo l’opinione corrente fra gli astronomi, perché gli asteroidi possano essere considerati i resti di un pianeta, disintegratosi a causa di un’esplosione. Ed è questa, appunto, la ragione principale che ha portato ad escludere questa ipotesi.
La conclusione degli astronomi, però, non tiene conto delle cause che possono aver provocato l’esplosione del pianeta e delle modalità con cui verosimilmente si sarebbero svolte. Circa le cause, le ipotesi possibili sono due: la prima che l'esplosione sia stata provocata da una causa interna al pianeta; l’altra da un accidente esterno.
Non è ipotizzabile alcuna causa interna che possa aver provocato l’esplosione del pianeta e quindi non rimane altra ipotesi se non che il pianeta sia stato centrato in pieno da un qualche corpo celeste di grandi dimensioni, come per esempio un satellite avente un ordine di grandezza delle migliaia di km.
La nostra galassia è percorsa da miriadi di corpi solidi di tutte le dimensioni a cominciare dai sistemi solari passati e attuali fino ai frammenti prodotti da esplosioni di supernove. Nella sua corsa sfrenata attraverso gli spazi, è inevitabile che qualche sistema solare si imbatta in uno sciame di bolidi vaganti e lo attraversi ad altissima velocità. Incontri del genere normalmente non lasciano traccia, perché è estremamente improbabile che possano verificarsi collisioni. Improbabile quanto si vuole, ma non impossibile, specie se si tiene conto del tempo e del numero di stelle in gioco.
Prima o poi un incidente del genere deve pur capitare all'uno o all'altro dei cento miliardi di sistemi solari della galassia. Cosa succede quando due corpi celesti si scontrano ad altissima velocità? Giriamo la domanda ad uno dei più grandi astronomi contemporanei Fred Hoyle, rispondendo con una pagina del suo affascinante libro “Alle Frontiere dell’Astronomia":
“Un corpo che precipitasse sulla superficie della luna ad una velocità di parecchi km al secondo non verrebbe fermato immediatamente appena colpita la superficie. Penetrerebbe per un certo tratto come un proiettile penetra in un blocco di legno comune. Ma mentre un proiettile comprime lateralmente il legno attraverso il quale passa, sembra improbabile che ciò possa accadere nel caso di un bolide avente altissima velocità, che comprimerebbe invece davanti a se la materia costituente l’ostacolo; la materia non verrebbe sospinta lateralmente perché le mancherebbe il tempo di togliersi di mezzo. Nel momento in cui il bolide fosse precipitato sulla luna, le rocce della superficie lunare nel punto dell’urto sarebbero state semplicemente schiacciate orizzontalmente e ciò avrebbe tramutato la materia dallo stato solido allo stato di gas ad alta temperatura. Il gas avrebbe formato una tasca sospinta avanti dal bolide. Di mano in mano che altro gas si fosse aggiunto alla tasca, la pressione sarebbe aumentata fino a divenire infine sufficiente a fermare il corpo. Quando ciò fosse accaduto, la tasca di gas ad altissima pressione si sarebbe potuta trovare a parecchi chilometri di profondità nella superficie lunare.
L’evento successivo è ovvio. Una tasca di gas ad alta pressione situata ad alcuni chilometri di profondità sotto la superficie determinerebbe una esplosione distruttiva, il cui risultato sarebbe un cratere."
Naturalmente Hoyle parla di bolidi aventi una massa trascurabile rispetto a quella della luna. Il fenomeno non cambierebbe, però, se il bolide avesse dimensioni molto grandi. Cambierebbero invece e parecchio i suoi effetti; il satellite potrebbe venire disintegrato, o quanto meno potrebbe perdere una parte consistente della sua massa.
Supponiamo infatti che la luna venga colpita da un asteroide del diametro di qualche centinaio di chilometri ad una velocità di decine di chilometri al secondo. Esso penetrerebbe profondamente nel corpo del satellite fino a formare una enorme tasca di gas supercompresso proprio al centro di esso. L’istante successivo la luna esploderebbe come una vera e propria bomba convenzionale frantumandosi in una miriade di "schegge". La stessa cosa potrebbe essere accaduta a Vulcano: sarebbe stato colpito ad altissima velocità da un enorme bolide, che sarebbe penetrato in profondità, provocando un’esplosione apocalittica, che avrebbe proiettato nello spazio una miriade di frammenti, e cioè i pianetini , gli asteroidi e le meteoriti di tutte le dimensioni che scorrazzano nel sistema solare. Essi però rappresentano complessivamente soltanto una piccolissima parte della massa del pianeta; che fine ha fatto tutto il resto?
Per scoprirlo dobbiamo innanzitutto valutare le dimensioni del bolide che ha colpito Vulcano e la direzione di provenienza. Dobbiamo anche farci un’idea della composizione e densità di Vulcano. I pianeti esterni, Nettuno e Urano, hanno non solo dimensioni simili, ma anche una composizione quasi identica, che si differenzia in modo significativo da quella dei pianeti giganti interni, Saturno e Giove, sostanzialmente simili fra loro. Indipendentemente dalle dimensioni, dobbiamo presumere che Vulcano avesse una composizione simile a quella di Giove e Saturno.
Secondo le ultime e più attendibili ipotesi degli astronomi, i pianeti giganti sarebbero costituiti come nelle seguenti figure.
Composizione di Giove e Saturno e a destra quella di Urano e Nettuno. La differenza sta nel fatto che i pianeti esterni hanno una quantità di idrogeno molto inferiore ed una di acqua molto superiore. Anche il nucleo interno di roccia e metalli sembrerebbe più grande.
Il diametro di Vulcano doveva essere non più della metà di quello di Giove, ma la sua composizione doveva essere percentualmente simile: uno spesso strato di idrogeno liquido e metallico, seguito da un sottile involucro di acqua e idrocarburi e da un nucleo di roccia con un cuore di ferro-nichel.
Quanto al bolide responsabile del disastro, c’è un preciso indizio che ci porta direttamente al pianeta più esterno del sistema solare, Nettuno. Si è visto che il suo sistema di satelliti è stato scompaginato dall’ingresso fra di loro del plutino Tritone. Per uno straordinario caso del destino, uno di questi satelliti, verosimilmente il più grande con un diametro intorno ai 2.000 km e una massa dell’ordine di 5.1021, deve essere stato trappato dalla sua orbita e diretto verso il centro del sistema solare. Era un oggetto minuscolo in confronto a Vulcano (massa dell’ordine di 1,5.1026 kg, 30 mila volte superiore), ma nel suo viaggio da Nettuno fino a colpire Vulcano deve aver accelerato fino a raggiungere la velocità delle comete che provengono da quella regione, e cioè intorno ai 70/80 km al secondo, accumulando una energia cinetica enorme.
Esso ha colpito in pieno Vulcano ed è penetrato profondamente nello strato esterno di idrogeno e in quello successivo di acqua e idrocarburi, fino a raggiungere il nucleo roccioso, formando una gigantesca tasca di gas supercompresso a ridosso di quest’ultimo. L’esplosione che ne è seguita deve essere stata terrificante.
Il bolide è rimasto completamente vaporizzato, come pure il cono di idrogeno direttamente interessato dall’impatto, e i vapori dispersi nello spazio. Ma l’esplosione ha interessato il nucleo interno solido, sia della parte rocciosa che metallica, proiettandone grossi frammenti nello spazio.
Tuttavia, la maggior parte del pianeta, nonostante la mutilazione, deve essere rimasta integra. L’urto, però, è stato sufficiente a imprimergli una velocità dell’ordine delle centinaia di metri al secondo in direzione del sole [2], facendolo deviare dalla sua orbita. Il pianeta, quindi, ha iniziato a “spiraleggiare” in direzione della sua stella, trascinando con sé alcuni dei suoi satelliti naturali, e lasciandone altri a giganteggiare nel mare di detriti lasciati dall’esplosione.
L'esplosione di Vulcano sconvolse la vita fino allora tranquilla e ordinata del sistema solare.
Fino a quel momento il meccanismo planetario aveva funzionato con la regolarità e precisione di un orologio; lo spazio era pulito, non esistendo meteoriti, né asteroidi; le notti dei pianeti interni trascorrevano monotone senza i lampi fugaci della stelle cadenti; i pianeti esterni procedevano tranquilli con il loro ordinato stuolo di satelliti naturali, come tante chiocce coi loro pulcini.
Poi tutt'a un tratto il sistema solare fu invaso da miliardi di piccoli frammenti che si muovevano disordinatamente in ogni possibile direzione. Nei primi tempi dopo l’esplosione la loro densità doveva essere enorme; ma la loro piccolezza ed il disordine dei loro movimenti li rendevano facile preda dei grandi corpi cui capitavano nei pressi. Il sole e tutti i pianeti, in particolare Giove vennero, sottoposti ad un continuo e fittissimo bombardamento di meteoriti, che mettevano così fine alla loro esistenza errabonda. I più fortunati fra quelli caduti in potere di pianeti estranei riuscirono a salvarsi trasformandosi in satelliti acquisiti. Un buon numero di schegge si è sottratto alle insidie dei vicini rimanendo a ruotare lungo l'orbita sicura in cui si trovava Vulcano, ma si sono giocoforza sparpagliati su una fascia larghissima, che riempie quasi del tutto la distanza fra Marte e Giove; è appunto la cosiddetta fascia dei pianetini.
Vulcano, si è detto, in seguito all’urto deve essere precipitato nel sole. E i suoi satelliti naturali che fine hanno fatto? Il pianeta doveva possederne un certo numero, probabilmente non meno di cinque. E' ovvio che ruotavano nelle sue immediate vicinanze e quelli che al momento si trovavano dal lato dell’esplosione dovettero esserne investiti in pieno. Trattandosi tuttavia di una esplosione di tipo convenzionale la velocità delle “schegge” doveva essere relativamente modesta, troppo bassa per provocare quel fenomeno della tasca gassosa illustrato da Hoyle; ma in ogni caso la quantità di materiale che si è riversata su di essi in quel frangente deve essere stata enormemente superiore a quella che sarebbe caduta in seguito ad opera di frammenti vaganti. Per di più quel materiale doveva essere incandescente, provenendo dall’interno del pianeta, formando dei veri e propri “mari” liquidi. Da notare che soltanto un lato di questi satelliti è stato investito dai materiali proiettati dall'esplosione; perciò è facile stabilire quali fra i satelliti superstiti sono stati interessati, perché su quel lato, e solo su quello, devono avere grandi quantità di materiali più pesanti della loro densità media, come accade appunto per la nostra Luna e per il pianetino Pallade.
Quelli che si trovavano dal lato opposto all’esplosione non furono investiti dal flusso di materiali, ma subirono ugualmente conseguenze per effetto dell’urto sul loro pianeta madre. Questi infatti cominciò a deviare dalla sua orbita ad una velocità dell’ordine delle centinaia di metri al secondo, il che significa almeno 20.000 km al giorno, sufficienti per scompigliare totalmente le orbite di tutti i satelliti. Tre di essi, sicuramente, sfuggirono quasi subito all’attrazione del pianeta, rimanendo a ruotare più o meno nell’orbita che quest’ultimo occupava prima dell’impatto, nella fascia dei pianetini.
Gli altri seguirono le sorti del pianeta madre, seguendolo nella sua caduta verso il sole, anche se su orbite molto allargate ed eccentriche. E’ probabile che abbiano finito per perdere il contatto con esso, trasformandosi a loro volta in piccoli pianeti, immessi in orbite fortemente eccentriche che al perielio invadevano le orbite dei pianeti interni, fino a quella della Terra. Questa dovette essere la sorte di almeno due di essi, che finirono per essere catturati entrambi dalla Terra. Uno, come vedremo, precipitò sul pianeta cessando la sua vita di libero astro, ma iniziando un’avventura straordinaria e forse irripetibile; l’altro, probabilmente il più grande dalla famiglia, riuscì a mantenersi a distanza di sicurezza e rischiara oggi le nostre notti con la sua pallida luce.
I tre satelliti superstiti sono chiaramente riconoscibili fra la schiera degli asteroidi, perché hanno forma e dimensioni molto simili a quelle di satelliti naturali di altri pianeti giganti, come Saturno, Urano e Nettuno. I dati relativi a questi “asteroidi”, che tradiscono in modo evidente la loro origine, sono i seguenti:
diametro (km) massa (1021kg) densità (kg/dm3)
Cerere 950 0,95 2,12
Pallade 538 [3] 0,214 2,71
Vesta 530 0,267 3,44
Il dato della densità è molto interessante e importante , perché, confrontato con la densità della luna (3,34 kg/dm3) e quella dei continenti terrestri (2,7 kg/dm3) , ci consentirà di ricostruire l’ordine dei satelliti nel sistema originario di Vulcano.
Esaminando il processo di condensazioni di un vortice, si è detto che gli atomi pesanti tendono a concentrarsi nel nucleo. Qui le varie sostanze che inizialmente si trovano allo stato monoatomico, si combinano fra loro, dando luogo a composti stabili. Questi rimangono fluidi per lungo tempo anche dopo che l'astro può dirsi formato, però, hanno tutto il tempo di stratificarsi rigorosamente, secondo il proprio peso specifico: al centro i più pesanti, poi via via quelli più leggeri, in una serie di gusci concentrici.
Ogni corpo celeste formatosi naturalmente, quindi, deve essere costituito da una serie di gusci concentrici, ordinati dal più pesante al più, leggero.
Quando Vulcano fu colpito dal bolide, una parte dei suoi gusci furono frantumati in minuscoli pezzi, che ovviamente conservarono la stessa composizione di partenza. Il nostro sistema solare, quindi, è invaso da miriadi di piccoli "campioni" di materiale proveniente dagli strati non volatili di Vulcano, dal più interno a quello esterno.
Questi campioni ancor oggi precipitano in continuazione sugli altri pianeti, compresa la Terra; ormai ne abbiamo raccolto un gran numero. Essi ci offrono la straordinaria possibilità di studiare dal vero, strato per strato, la composizione di un pianeta scomparso da miliardi di anni. E' una possibilità tanto più straordinaria in quanta ci è negata dalla nostra stessa Terra, il cui interno conosciamo soltanto sulla base di ipotesi, per ora non verificabili direttamente.
I principali tipi di meteoriti che precipitano sulla Terra sono tre e precisamente: meteoriti metallici, solfitici e litici. Tutti i meteoriti di uno stesso tipo hanno la medesima composizione; ogni tipo quindi dovrebbe provenire da un determinato strato di Vulcano ed essere rappresentativo della sua composizione.
I meteoriti metallici, quelli più pesanti, sono composti dalle seguenti sostanze: ferro 90,7%; nichel 8,6 %; cobalto 0,6 % altri elementi 0,1%. Dovrebbero provenire dal nucleo di Vulcano, che potremo chiamare "Nife” dalle sigle dei suoi due componenti principali. La loro percentuale rispetto al totale delle meteoriti viene valutata diversamente dagli astronomi; da un minimo del 5% ad un massimo del 40%. Questo significa che il bolide che ha colpito Vulcano deve essere penetrato fino a raggiungere il nucleo metallico, alcuni pezzi del quale sono stati proiettati nello spazio dall’esplosione.
Sezione di un frammento di meteorite metallico, lucidata e attaccata con acido. Mostra una struttura tipica, detta di Widmanstätten, prodotta da cristalli di due differenti fasi ferro-nichel. Forma e dimensioni di questi cristalli si sono formati molto lentamente, all’interno di un corpo massiccio, in un punto che è rimasto a temperatura prossima al punto di fusione per almeno diverse decine di milioni di anni.
In ordine di peso seguono poi i meteoriti solfitici, che presentano la seguente composizione: ferro 61%; zolfo 34,3%; rame 0,4%; fosforo 0,3%; altri 3,9% . Essi sono campioni di uno strato immediatamente successivo al Nif'e, che chiameremo "Sofe”, dalle sigle dei suoi componenti principali. La consistenza del Sofe doveva essere piuttosto limitata, perché i meteoriti solfitici sono relativamente rari: la loro percentuale viene valutata da un minimo del 3% ad un massimo dell'8% del totale.
La percentuale maggiore delle meteoriti, dal 56% all'80%, appartiene al tipo litico, avente la seguente composizione: ossigeno 41%; silicio 20,5% ; magnesio 15,8%; ferro 15,6%; calcio 2 %; zolfo 1,8%; alluminio 1,7%; altri 1,6%.
Essi provengono dallo strato non volatile più consistente di Vulcano che trova il suo corrispondente nel guscio più spesso della Terra, denominato "Sima" per il suo alto contenuto di silicio e magnesio.
Di tanto in tanto cadono sulla terra anche meteoriti. che per le loro straordinarie caratteristiche suscitano un interesse enorme nel mondo scientifico. Sono le meteoriti carboniose, cosiddette per l'alto contenuto di composti del carbonio, idrocarburi e aminoacidi.
Dovrebbero provenire da uno strato relativamente sottile che rivestiva il sima di Vulcano ed era a diretto contatto con l’involucro liquido soprastante. Sembra evidente, infatti, che il pianeta possedesse un oceano probabilmente di una profondità formidabile; il tutto circondato da una densa atmosfera.
L’oceano doveva essere composto principalmente da idrocarburi, petrolio in altre parole, ed il fondo doveva essere coperto da rocce di tipo carbonioso. L’atmosfera doveva essere composta in gran parte da idrocarburi, in particolare metano e idrogeno, a similitudine dell’atmosfera di Giove. Porzioni di entrambi devono essere state proiettate nello spazio dall’esplosione, ma non hanno lasciato tracce, perché si sono ben presto volatilizzate.
In conclusione, le meteoriti ci danno uno spaccato della parte solida di Vulcano che è stata penetrata dal bolide ed interessata dalla conseguente esplosione.. Lo strato più interno era costituito da ferro e nichel allo stato puro, il Nife; seguiva il Sofe, sottile strato di ferro e solfo,. Sopra il Sofe c'era il formidabile guscio del Sima, coperto da un sottile strato di rocce carboniose, ed infine l'involucro liquido dell'oceano e quello gassoso dell’atmosfera.
Il problema dell’origine della vita occupa da lungo tempo il posto d'onore nei pensieri di biologi, filosofi e scienziati di varia estrazione. Le tesi creazioniste sono tramontate da tempo; ormai pochi dubitano ancora che la vita si sia sviluppata spontaneamente dalla materia inerte.
Da oltre un secolo la scienza insegue il sogno ambizioso di riuscire a crearla in laboratorio; non ci è ancora arrivata e forse non ci arriverà mai, ma in ogni caso qualche passo notevole lungo questa strada l'ha compiuto. E' arrivata infatti a creare i “mattoni”, cioè quelle sostanze che costituiscono la base di tutto l'immenso e complesso edificio della vita: gli aminoacidi. Tutte le forme di vita che noi conosciamo hanno come elemento costituivo essenziale gli aminoacidi; perciò si può affermare senza tema di smentita che la sintesi di queste particolari sostanze organiche è un passo obbligato per lo sviluppo della vita quale noi la conosciamo (naturalmente potrebbero esistere altri tipi di vita, ma la nostra immaginazione non arriva ancora a raffigurarseli).
Stando alle attuali conoscenze, la vita ha potuto insorgere soltanto dove esistevano condizioni idonee alla sintesi naturale degli aminoacidi. Queste condizioni sono ben note, perché si possono riprodurre in laboratorio. La ricetta è semplice: si prenda qualche litro di acqua e lo si metta in un recipiente chiuso. Si crei nel recipiente un'atmosfera di azoto, anidride carbonica, metano e ammoniaca, si riscaldi il tutto e si provochi nella piccola atmosfera artificiale dei fulmini in miniatura, mediante scariche elettriche. Dopo qualche ora di questo trattamento, si prenda un campione d’acqua e lo si esamini: con sorpresa vi si troveranno aminoacidi simili a quelli che costituiscono il nostro corpo.
Naturalmente questa non è ancora vita: la via che conduce alla aggregazione di queste sostanze e alla loro organizzazione in sistemi complessi ed autoriproducibili, cioè alla vita vera e propria, è ancora lunga e per il momento misteriosa. La sintesi degli aminoacidi è condizione necessaria, ma certamente non sufficiente per lo sviluppo della vita. Ad esempio alcuni studiosi sostengono che sia possibile la sintesi di aminoacidi anche su piccoli corpi vaganti nello spazio, come gli asteroidi carboniosi, grazie all’azione delle radiazioni solari; ma che su questi minuscoli e gelidi corpi passa formarsi un alcunché che possa definirsi vita è una ipotesi che lascia molto scettici.
E’ assai più probabile che il passo decisivo che porta alla organizzazione degli aminoacidi in forme di vita vera e propria possa compiersi soltanto nel seno caldo di una massa liquida, in cui si abbia in sospensione una quantità e varietà sterminata di tali sostanze organiche. La loro aggregazione spontanea potrebbe portare prima o poi ad un qualche complesso organico più o meno stabile ed autoriproducibile, e di qui ad una qualche forma di vita vera e propria, in grado di utilizzare quale alimento l’enorme massa di aminoacidi a disposizione. Una volta realizzatasi questa prima forma elementare, la selezione e l’adattamento all’ambiente avrebbe fatto il resto.
Un ambiente adatto all’insorgere della vita, quindi, dovrebbe esistere soltanto su un pianeta che presenti condizioni ben determinate e cioè un oceano relativamente caldo di acqua e petrolio ed un’atmosfera satura delle sostanze che si è detto.
Non è escluso che queste condizioni si presentino, almeno per un certa tempo, su più di uno o addirittura su tutti i pianeti di un sistema solare. Ma questo non significa che la vita debba necessariamente sorgere e svilupparsi in tutti. Arduo pensare a forme di vita basate sulla chimica del carbonio in pianeti come Giove, Saturno o Nettuno.
Per quanto riguarda Vulcano, però, possiamo affermare con relativa sicurezza, che al momento dell’esplosione vi erano condizioni ambientali favorevoli; è quindi possibile che sul pianeta fosse già insorta la vita e che il suo oceano pullulasse di microrganismi, elementari fin che si vuole, ma pur sempre vivi.
Una caratteristica peculiare delle forme di vita più elementari è che possono resistere ad una gamma di condizioni ambientali enormemente più ampia che non gli organismi evoluti e complessi. Ad esempio batteri ed altre forme di vita unicellulari possono essere ibernati e sopravvivere indefinitamente a temperature prossime allo zero assoluto.
Quando Vulcano esplose, piccoli frammenti della crosta superficiale e del liquido oceanico si raffreddarono rapidamente, portandosi ad una temperatura molto bassa; organismi viventi che eventualmente vi si trovavano restarono ibernati senza riportare danni alla loro struttura e sopravvissero indefinitamente, pronti a riprendere la loro attività non appena le condizioni ambientali fossero ritornate nuovamente favorevoli.
Ammesso quindi che la vita fosse insorta su Vulcano, essa non andò distrutta nell’esplosione, ma al contrario venne disseminata in tutto il sistema solare. Milioni di frammenti di crosta superficiale surgelarono non appena vennero proiettati nello spazio e conservarono intatto un minuscolo carico di esseri viventi. A migliaia queste piccole arche di Noè precipitarono sulla Terra, Venere, Marte, Giove e sugli altri pianeti e satelliti del sistema solare. E ovunque esistessero condizioni ambientali favorevoli, la vita in essi racchiusa si è risvegliata, moltiplicata e sviluppata. Probabilmente la Terra ed altri pianeti dettero origine essi stessi, in qualche fase della loro esistenza, a qualche forma spontanea di vita, o forse no. Ma in ogni caso questa eventuale carenza fu colmata dalle forme di vita provenienti dallo spazio.
Esistono meteoriti, in gran parte frammenti di Vulcano, con un alto contenuto di sostanze carbonacee ed anche di materia organica: in alcune meteoriti carbonacee ne sono state trovate quantità fino al 15% della massa totale.
Uno dei più noti meteoriti studiati, caduto in Australia il 22 settembre 69, conteneva ben 17 tipi dì aminoacidi, di cui 6 simili a quelli terrestri ed 11 sconosciuti nel nostro pianeta. In alcuni meteoriti sono stati trovati anche microorganismi vivi; ma poiché tra il momento della caduta e quello della raccolta è passato un certo tempo, esiste il fondato dubbio che si tratti di organismi terrestri insinuatisi nel meteorite. Manca quindi la prova assoluta che su Vulcano si fossero già sviluppati veri e propri esseri viventi; ma per lo meno abbiamo la certezza che vi regnavano condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo spontaneo della vita e che sicuramente erano stati compiuti almeno i primi passi in questa direzione.
Quali conclusioni possiamo trarre al termine di questa analisi? Innanzitutto va messo bene in evidenza il fatto che l'urto casuale di un grande bolide vagante contro un pianeta e la sua conseguente esplosione è un genere di incidente che dobbiamo ritenere estremamente improbabile. Nonostante i cento miliardi di sistemi planetari della Galassia, è possibile che questo si sia verificato soltanto sul nostro o su pochi altri. In ogni caso il numero di sistemi planetari che possono aver subito un simile incidente deve essere molto limitato. Quindi possiamo dire che il nostro Sole, pur essendo una stella comunissima, possiede qualcosa che lo distingue da tutte, o quasi, le altre stelle della Galassia.
E' uno dei pochi, o forse l'unico, a possedere una nube di asteroidi, frammenti di un pianeta scomparso che sottopongono ad un incessante bombardamento i pianeti e satelliti superstiti. Può sembrare un privilegio da poco, ma chissà, forse è sufficiente a fare della nostra umile stella la primadonna del firmamento. E' quanto cercheremo di appurare in seguito.
Un fatto possiamo stabilire fin da ora: questo privilegio non consiste certo nel possesso esclusivo della Vita. Ogni stella deve possedere almeno un pianeta in cui esistono, o sono esistite, condizioni idonee all’insorgere spontaneo della Vita quale noi la concepiamo.
Ogni punto luminoso del firmamento rappresenterebbe quindi innumerevoli esseri viventi. Ma di che esseri si tratta? Saranno semplici organismi unicellulari, o strutture complesse ed evolute? Ci sarà fra di essi qualcuno in cui noi uomini ci si possa riconoscere e con cui si possa comunicare? Non abbiamo ancora elementi sufficienti per rispondere a queste domande. In compenso altre domande ci si pongono. Ad esempio, la Terra ha mai posseduto le condizioni idonee all’insorgere spontaneo della vita? Da dove vengono le miriadi di esseri che la popolano? In altre parole quali sono le nostre origini: siamo nati, in quanto esseri viventi, sulla Terra, o abbiamo invece avuto origine altrove? Non è escluso che i nostri progenitori unicellulari siano nati là, su Vulcano ed abbiano raggiunto la Terra in seguito, come naufraghi dello spazio sui relitti dell’esplosione.
Ma in fin dei conti che importanza ha? Questa è ormai la nostra patria da miliardi di anni: è la Terra che ci ha plasmati, adattando ogni forma vivente alle sue mutevoli condizioni ambientali. Che il primo essere unicellulare sia nato qui o altrove, è una questione che non ci tocca: noi siamo e restiamo figli della Terra.
E su altri pianeti del sistema solare esiste la vita?
Indubbiamente le piccole arche disperse da Vulcano si sono distribuite capillarmente in ogni angolo del sistema planetario e inoltre la loro distribuzione è stata continuativa nel tempo e prosegue tuttora. E' presumibile che ovunque nel sistema solare esistono o siano esistite condizioni ambientali favorevoli al mantenimento di una qualche forma elementare di vita, che i naufraghi di Vulcano siano sopravvissuti ed abbiano prosperato.
Sappiamo anche dai reperti organici delle meteoriti carboniose che le eventuali forme di vita di Vulcano dovevano essere strutturalmente non dissimili da quelle che noi conosciamo e riusciamo a concepire; possiamo quindi prevedere quali siano le condizioni idonee alla loro sopravvivenza e quali no. Quindi possiamo in definitiva prevedere quali siano i pianeti dove è possibile che esista la vita e quali no; a meno che quei primi involontari colonizzatori dello spazio non possedessero capacità di adattamento imprevedibili e sorprendenti. Trascurando questa possibilità noi potremmo trovare la vita soltanto su Marte e forse su alcuni satelliti di Giove.
Ma in quali forme? Temo proprio che il semplice ragionamento non ci possa i condurre a delle ipotesi sufficientemente plausibili a questo proposito. Dovremo andare a vedere coi nostri occhi; fortunatamente quel giorno non sembra poi così lontano.
[1] Col nome di "Vulcano” gli astronomi designano un ipotetico minuscolo pianeta che si troverebbe fra Mercurio e il sole; nonostante la caccia serrata non si è mai potuto osservare.
[2] Un calcolo veloce ed approssimativo della velocità in direzione del sole, impressa dal bolide al pianeta vulcano, può essere fatto sfruttando il principio della conservazione dell’energia, secondo il quale l’energia cinetica, = ½ , del bolide deve essere stata interamente acquisita dal pianeta. Con i dati ipotizzati, e cioè: massa del bolide = 5.1021, massa di Vulcano = 1,5. 10 26 e velocità del bolide = 70 km/sec, si ha per la velocità acquisita da Vulcano = 3,3.10-3.7.104 = 230 mt/sec
[3] Pallade non è perfettamente sferico, perché ha diametri rispettivamente di 559, 525 e 532 km con un diametro medio di 538 +- 12..Segno che è stato investito da grandi quantità di materiale pesante, che ne ha alterato l’equilibrio isostatico, come vedremo più avanti per la luna.
vedi precedenti:
- Come nascono le galassie e le stelle
- Formazione dei pianeti e dei loro satelliti
caratteristiche fisiche e orbitali
vedi successivi:
- Come si è formata la Terra
Origine della luna e dei continenti
- L'evoluzione della Vita e le sue cause
Lo sviluppo dell'intelligenza
- Il futuro della specie umana
Prevedibili linee di evoluzione
- Possibilità di rapidi spostamenti dei poli
- La vicenda del pianeta Venere
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