Le teorie evoluzioniste - meccanismi dell’evoluzione - gli ecosistemi - cause dell’evoluzione - lo sviluppo dell’intelligenza - l’esplosione di Vulcano: un incidente o un fatto voluto?-
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L’evoluzione della Vita è uno dei grandi fenomeni che caratterizzano la storia della Terra. Non c’è dubbio che esso è quello di gran lunga più importante per noi, perché ci riguarda direttamente ed investe il senso stesso della nostra esistenza.
Noi siamo l’ultimo prodotto di miliardi di anni di evoluzione. Ma la nostra esistenza era già programmata dall’inizio, fin dal primo insorgere della vita, oppure è dovuta ad una serie di eventi del tutto casuali e difficilmente ripetibili?
L’evoluzione è un fatto normale, universale, insito nel concetto stesso di Vita oppure no? In altre parole, ovunque dove insorge la Vita essa evolve necessariamente verso forme sempre più complesse? E’ inevitabile che sfoci in forme intelligenti? O sono invece necessarie condizioni particolari? E quali?
Esiste una finalità nel processo evolutivo? E ammesso che esista è l’uomo questo fine ultimo, oppure un qualche cosa che vada ben al di là di esso?
E’ una serie di interrogativi importantissimi, ai quali da oltre un secolo la Scienza, in concorrenza con la Filosofia, cerca di dare risposte basate su elementi concreti.
Il concetto di evoluzione è una conquista relativamente recente della Scienza. E’ passato poco più di un secolo da quando Darwin ha pubblicato la sua opera fondamentale. Un secolo durante il quale la teoria ha dovuto lottare duramente per imporsi sulle tesi creazioniste; e la lotta non è ancora del tutto terminata.
Al giorno d’oggi la realtà dell’evoluzione è un fatto acquisito nel mondo scientifico. Eppure in alcuni stati Usa, ad esempio, le teorie darwiniste sono tuttora fuori legge. Si tratta di relitti ormai anacronistici. Oggi le grandi dispute vertono sui meccanismi che determinano l’evoluzione, non sulla sua esistenza.
Storicamente le principali tesi evoluzionistiche sono tre: il Lamarkismo, il Darwninismo ed il Trasformismo. Lamark fu il primo sfortunato sostenitore dell’evoluzione, già nel lontano 1700. Sfortunato da vivo e da morto, perché la sua tesi, condannata dapprima come eretica e blasfema dalle autorità religiose, fu poi demolita dalla critica scientifica moderna.
La sua teoria si può riassumere nel motto: "La funzione crea l’organo"; il che potrebbe essere anche accettabile, in un certo senso, ma non in quello che intendeva il Lamark. Mendell doveva ancora nascere ed il termine "genetica” non era ancora stato coniato, per cui Lamark non aveva motivo di dubitare che le esperienze ed i caratteri fisici acquisiti da un individuo, nel corso della sua esistenza, potessero in qualche modo essere trasmessi ai suoi discendenti. Perciò egli era convinto che lo smisurato collo delle giraffe fosse dovuto agli sforzi di innumerevoli generazioni di giraffe che "tiravano il collo" per raggiungere i rami più alti. E il dito unico dei cavalli alla loro millenaria abitudine di "camminare in punta di piedi" e così via.
Più fortunata fu invece la teoria del Darwin, tanto che comunemente è ritenuto il primo evoluzionista. Indubbiamente fu il primo a trattare l’argomento in modo rigorosamente scientifico, ed in ciò sta il suo grande merito. Anch’egli ignorava la genetica e questa fu la causa di una sua temporanea eclissi ad opera dei trasformisti; ma la sua idea regge ancora nelle linee essenziali. Come tutte le grandi idee essa è molto semplice, e può condensarsi in due parole: variabilità e selezione.
Egli osservò che non esistono al mondo due individui perfettamente uguali. Ogni essere vivente presenta delle differenze individuali, più o meno grandi che lo caratterizzano rispetto ai suoi congeneri e sono, almeno in parte, ereditarie. Darwin riteneva che selezionando per innumerevoli generazioni determinati caratteri si potesse provocarne l’evoluzione in una ben precisa direzione.
Secondo lui quella che ha dato origine ad una così grande e capricciosa varietà di esseri viventi è la "selezione naturale", dovuta alla prima e più sgradevole necessità di questo mondo: la lotta per la sopravvivenza.
Ogni specie produce un numero di piccoli assai elevato, di cui soltanto una percentuale più o meno limitata è destinata a sopravvivere ed a riprodursi. E’ naturale pensare che in questa strage degli innocenti, che si svolge quotidianamente in ogni angolo del globo, anche il minimo vantaggio diventi determinante agli effetti della sopravvivenza.
L’accumularsi di piccoli vantaggi di generazione in generazione creerebbe, nel corso di milioni di anni, quella spettacolare evoluzione e quei meravigliosi adattamenti cui assistiamo in natura.
Benché non lo abbia mai detto esplicitamente, quindi, Darwin ammetteva che l’evoluzione della specie sia un fatto continuativo, insito nel concetto stesso di Vita, la quale, grazie alla lotta per la sopravvivenza, tenderebbe indefinitamente verso forme di vita sempre più evolute e complesse.
Il darwinismo, corredato da una imponente mole di prove ed esempi, sembrava aver praticamente esaurito l’argomento della evoluzione. Sennonché col procedere degli studi e delle conoscenze, si cominciarono ad osservare piccoli e grandi fatti che rifiutavano di incasellarsi nello schema semplicistico proposto dal Darwin, primo fra tutti il fatto che gli innumerevoli scavi eseguiti dai paleontologi in tutto il mondo portavano alla ricostruzione di serie evolutive essenzialmente discontinue. Ogni specie fossile rimaneva immutata anche per milioni di ranni consecutivi, per cambiare improvvisamente, senza alcun passaggio intermedio apparente. Un processo analogo lo si riscontra al giorno d’oggi, in cui saltuariamente in ogni specie compaiono individui assai diversi dai loro congeneri (cani, gatti ecc. senza pelo o senza coda; tori senza corna; mosche senza ali e così via). Per di più questi improvvisi mutamenti sono ereditari.
Si incominciò a scoprire che molte specie possiedono caratteri inutili o addirittura dannosi alla loro sopravvivenza e che quindi, in fin dei conti, la lotta per l’esistenza non ha sempre il carattere implacabile che le attribuiva il Darwin. In sistemi ecologici stabili, infatti, la selezione naturale tende a conservare il tipo medio, eliminando le varianti ed i "pezzi" mal riusciti.
Ma il colpo più grave alla teoria fu inferto dalla scoperta, o meglio riscoperta, delle leggi di Mendell sulla ereditarietà dei caratteri. Questa scoperta provocò una specie di ebbrezza negli studiosi, che si diedero a demolire con accanimento l'opera darwinista fin dalle fondamenta.
E ci riuscirono tanto bene che soltanto negli ultimi tempi le idee del Darwin sono state rivalutate ed inquadrate nel più ampio contesto delle conoscenze moderne.
Per mezzo secolo il Trasformismo regnò incontrastato, benché lasciasse insoluti i problemi più gravi dell'evoluzione. Nato dall'esperienza, il Trasformismo non riconosce alcun valore alla selezione naturale come fattore evoluzionistico diretto, e tanto meno ne riconosce alle condizioni ambientali. In base a lunghe esperienze ed osservazioni di laboratorio esso rigetta l’idea che i caratteri delle specie si siano formati a poco a poco in seguito a successive piccolissime variazioni divenute ereditarie.
Come avviene allora l’evoluzione? Non certo in maniera graduale e continua, ma sempre per salti senza passaggi intermedi. L’improvvisa comparsa di un nuovo carattere viene detta “mutazione". Le mutazioni si osservano in gran numero in natura, ed erano state notate dallo stesso Darwin, che però non attribuì loro alcun peso nel processo evolutivo. Le caratteristiche delle mutazioni sono le seguenti: avvengono all'improvviso, sono subito totali e raggiungono fin dall'inizio tutta la loro ampiezza, realizzano cioè un processo di variazione discontinua e senza intermediari.
Si manifestano in uno o più individui che compaiono fra migliaia di congeneri allevati nelle loro stesse condizioni; perciò sembrerebbe impossibile attribuirne la comparsa a qualsiasi variazione dell’ambiente.
Si producono senza cause apparenti, per caso, e si presentano con una frequenza fissa tipica per ogni specie e genere di mutazione. Possono interessare gli organi più diversi e in tutti i sensi e sono di qualsiasi ampiezza. Infine, sono immediatamente ereditarie, essendo il risultato di una brusca variazione di un gene o un cromosoma.
In conclusione le mutazioni corrispondono ad un processo di variazione ereditaria discontinua, che è stato osservato in tutte le specie animali e vegetali per le quali sia stato possibile l’esame di un gran numero di individui.
Purtroppo, per sua stessa ammissione, il trasformismo è impotente a spiegare la comparsa di organi complessi come l’occhio, l’orecchio e in genere di nuove organizzazioni e strutture.
Le teorie moderne hanno abbandonato queste posizioni estreme; esse, pur riconoscendo l’enorme importanza delle mutazioni, non negano il valore della selezione naturale darwiniana. Chi rimane irrimediabilmente condannato, invece, è sempre il Lamark. La Scienza persiste decisamente a negare l’ereditarietà delle esperienze individuali, per il semplice motivo che "non si conosce un modo in cui le cellule somatiche possano trasmettere dei caratteri alle cellule riproduttive".
In tutte le specie i caratteri somatici, attraverso piccole o grandi mutazioni casuali, si adattano alle abitudini di vita e all’ambiente scelti, per amore o per forza, dalla specie e non viceversa. Ad esempio, i cetacei ed i pinnipedi hanno sviluppato le pinne "dopo" che i loro antenati quadrupedi avevano acquisito abitudini acquatiche; è del tutto inverosimile e contrario all’esperienza pensare il contrario, e cioè che sia stato l’insorgere casuale di un paio di pinne a spingere l’animale dall’ambiente terrestre a quello acquatico.
Gli adattamenti fisiologici che rendono le specie perfettamente idonee a vivere in determinate ambienti e con determinate abitudini si sono sviluppati "dopo" che la specie ha sviluppato determinate abitudini comportamentali ed ha iniziato la colonizzazione di un particolare ambiente; essi ne sono la conseguenza, non la causa.
E’ proprio questo il concetto essenziale per capire l’evoluzione: essa agisce sempre nel senso di adattare un determinato organismo ad un particolare ambiente e a particolari abitudini comportamentali, assunte per una qualsiasi ragione; non viceversa. Che ciò avvenga attraverso mutazioni casuali di grande ampiezza o piccoli adattamenti successivi ha poca importanza.
Tuttavia, anche se riuscissimo a scoprire in modo certo e completo i meccanismi attraverso cui l’evoluzione si compie, se mediante mutazioni o piccole variazioni o entrambi, non sapremmo ancora le cause ultime e lo scopo a cui essa tende.
Per conoscere cause e scopi dell’evoluzione assai più utile della genetica si è rivelata l’ecologia.
Come dice il nome, l’ecologia è lo studio della “casa” e cioè dell’ambiente, inteso non già come luogo, ma come un’organizzazione più o meno complessa di specie viventi in determinate condizioni ambientali e climatiche.
Un complesso del genere si dice “sistema ecologico” o “ecosistema”. Un sistema ecologico non va visto come un'accozzaglia casuale di specie animali e vegetali riunite dalla sorte in una stessa regione, ma come un vero e proprio organismo, ben definito e vitale, soggetto a leggi precise. Non è possibile capire l’evoluzione di una singola specie se prima non si sono approfonditi i meccanismi che regolano gli ecosistemi.
Ciascun ecosistema è formato da due componenti: una autotrofa che produce da sé il cibo di cui si nutre, costituita dalle specie vegetali; l'altra eterotrofa, che si nutre a spese di altri organismi e comprende tutte le specie che utilizzano, direttamente o indirettamente, il cibo fabbricato dalle piante. Il trasferimento della energia alimentare dalla sorgente, le piante, attraverso una serie di organismi, passando per successivi stadi di mangiare ed essere mangiato è noto come “catena alimentare”. Il concetto di catena implica l’esistenza di un certo numero di anelli, cioè di passaggi dell’energia da un gruppo di organismi ad un altro.
L’ecosistema viene quindi a suddividersi in un certo numero di livelli alimentari, i cosiddetti "livelli trofici”. Al primo livello abbiamo i produttori, le piante che traggono il proprio alimento dalla luce e dai materiali inorganici. Segue il livello dei consumatori primari, ossia le specie erbivore: insetti, uccelli, mammiferi ecc. Il terzo livello è costituito dai consumatori secondari, i carnivori, che si nutrono degli erbivori. Spesso si ha anche un quarto livello, quello dei consumatori terziari, comprendenti superpredatori, divoratori di carogne, parassiti, ed altri. Infine molti studiosi pongono come livello a parte quello dei decompositori, comprendente una miriade di organismi che decompongono il materiale morto, rendendolo nuovamente utilizzabile per i produttori, e cioè funghi, batteri, vermi, insetti ecc.
Una delle prime preoccupazioni dell'ecologo nello studio di un ecosistema è di stabilirne “l’efficienza", ossia il rapporto fra la quantità dei cibi prodotti e di quelli consumati. In ogni ecosistema questo rapporto tende col tempo a portarsi verso l’unità, vale a dire allo sfruttamento più completo e razionale possibile delle risorse alimentari disponibili. Quanto più stabile e maturo è l’ecosistema, tanto più la sua efficienza si avvicina ad uno. Ciò presuppone un perfetto equilibrio fra i vari livelli trofici, che si sfruttano al massimo l’un l'altro senza distruggersi a vicenda, mantenendo inalterati i loro rapporti numerici.
Soltanto negli ecosistemi giovani, oppure fortemente perturbati da fattori esterni (uomo o catastrofi naturali) il rapporto fra produzione e consumo è molto minore dell’unità, ma col passare del tempo aumenta sempre più.
Non sono possibili sistemi stabili in cui tale rapporto superi l’unità (cioè si consumi più di quanto si produce), in quantoché si tratta di situazioni chiaramente anomale, insostenibili per lungo tempo, pena la distruzione dell’ecosistema stesso. Per evitare ciò ogni sistema ecologico pone in atto dei meccanismi regolatori, che mantengono il numero di individui delle specie eterotrofe costantemente ad un livello accettabile. Questi meccanismi sono molto vari e complessi e possono essere: interni, quando la specie autoregola da sé la propria densità, in modo da non superare il numero massimo consentito dalle risorse alimentari; oppure esterni costituiti dai predatori che si nutrono abitualmente di quella specie, mantenendone la popolazione ad un livello stabile.
In un sistema ecologico ben regolato questi meccanismi funzionano in maniera pressoché perfetta, e perciò la densità delle popolazioni si mantiene costante nel tempo (a meno di fluttuazioni stagionali).
Le leggi principali che regolano lo sviluppo degli ecosistemi sono le seguenti:
1) In un ecosistema maturo tutti gli spazi vitali disponibili vengono occupati.
2) Le specie generiche, quelle cioè che occupano più nicchie ecologiche contemporaneamente, tendono col tempo a frazionarsi in altrettante sottospecie specializzate, ognuna adattata ad una singola nicchia ecologica.
3) In una stessa nicchia ecologica non possono convivere due o più specie anche se molto affini fra loro: quella meglio adattata finisce, prima o poi con l’eliminare completamente le altre, oppure col costringerle in una nicchia diversa.
Queste sono leggi cui tutti gli ecosistemi dell'universo debbono obbedire.
Questa breve escursione nel campo dell'ecologia ci consente di capire con sufficiente chiarezza quali siano le cause dell’evoluzione e quale il suo vero ed unico scopo.
In un qualsiasi ecosistema maturo ogni nicchia ecologica viene occupata da una ed una sola specie, che sarà dotata di specifici adattamenti propri di quella nicchia. A livello più generale tutti gli ambienti, che siano accessibili e presentino una sia pur minima possibilità di sopravvivenza, vengono colonizzati da forme viventi e vi si instaurano sistemi ecologici che nel loro complesso sono specificamente adattati alle particolari condizioni che caratterizzano quell’ambiente, in maniera tale da poter sfruttare tutte ed in massimo grado le possibilità produttive della zona.
Questi obiettivi vengono raggiunti qualunque sia il numero e la complessità delle specie di partenza. L’evoluzione agisce sugli organismi che ha a disposizione, senza riguardo per la classe di appartenenza ed il livello evolutivo già raggiunto, e li plasma in funzione di quelle specifiche condizioni ambientali in cui sono venuti a trovarsi.
Al limite anche due sole specie di partenza, una autotrofa e l'altra eterotrofa possono dar luogo ad un ecosistema straordinariamente complesso con un gran numero di specie diverse. Ovviamente, tanto minore è il numero delle specie di partenza e tanto più lungo e laborioso sarà il processo evolutivo necessario per raggiungere questo risultato, mentre con un numero di specie di partenza molto elevato esso viene raggiunto più in fretta.
Alla fine, comunque, il numero totale di specie presenti nei due ecosistemi (purché soggetti a condizioni ambientali analoghe) sarà grosso modo equivalente. Non solo, ma saranno anche equivalenti (in linguaggio tecnico "convergenti”) gli adattamenti di quelle specie che nei rispettivi ecosistemi occupano la stessa nicchia.
Naturalmente in due ecosistemi equivalenti (cioè adattati a condizioni ambientali simili), ma separati da barriere naturali invalicabili le specie che occupano la stessa nicchia ecologica, pur avendo adattamenti convergenti, non sono identiche come struttura, perché mantengono l’organizzazione somatica delle specie di partenza. Se quindi i due ecosistemi vengono messi a contatto, una delle due specie equivalenti è destinata fatalmente a soccombere, oppure ad occupare una diverse nicchia ecologica, il che è possibile soltanto se vi sono nicchie disponibili. Se vengono messi a contatto due sistemi ecologici equivalenti, che però abbiano avuto una evoluzione separata, si avrà che le specie dominanti dell'uno soppiantano quelle dell'altro, ma sopravvivranno anche numerose specie del secondo, dando vita, dopo un periodo di assestamento più o meno lungo, ad un nuovo ecosistema le cui nicchie sono occupate da un numero di classi di animali più vasto, ma da uno stesso numero di specie.
Così ad esempio i rettili hanno dovuto soccombere, in quanto specie dominanti, di fronte ai mammiferi e agli uccelli, ma sono sopravvissuti in un gran numero di specie che occupano nicchie secondarie, nelle quali i primi non erano riusciti a creare specie sufficientemente competitive.
In conclusione, gli scopi dell'evoluzione sono essenzialmente: primo colonizzare tutti gli ambienti accessibili e crearvi tanti ecosistemi diversi quante sono le diverse condizioni ambientali esistenti, ognuno specificamente adattato a quelle condizioni; secondo occupare tutte le nicchie ecologiche disponibili in ciascun ecosistema adattando le specie in modo tale che le risorse di ciascuna nicchia vengano sfruttate nel modo più completo e razionale possibile.
Ne consegue che si ha una fase evoluzionistica quando si presentano una o più delle seguenti condizioni:
1) Un ecosistema, o per lo meno alcune specie vegetali e animali, vengono a contatto con un ambiente non ancora occupato da forme di vita specializzate.
2) L’equilibrio di un ecosistema viene turbato dalla definitiva scomparsa di una o più specie
3) Due ecosistemi equivalenti che abbiano avuto uno sviluppo separato vengono messi a contatto.
4) Mutano le condizioni climatiche e ambientali cui erano adattati gli ecosistemi di una certa zona, e non esiste la possibilità pratica che questa zona venga colonizzata da ecosistemi già in precedenza adattati a quelle nuove condizioni.
Tutte queste condizioni si verificano contemporaneamente ed in massimo grado tutte le volte che la Terra viene colpita da un grande asteroide, che scatena (vedi:Sulla possibilità di rapidi spostamenti dei poli terrestri) le brevi, ma frequenti, crisi geologiche durante le quali si verificano estinzioni in massa di miriadi specie viventi (alla fine del Permiano si sono estinte il 90 % della specie allora esistenti).
Ognuna di queste “crisi” comporta un subitaneo mutamento delle condizioni climatiche del pianeta e la necessità di un riadattamento di molti ecosistemi. Nel nuovo equilibrio che si ristabilisce in seguito, dopo una intensa attività evoluzionistica, nuove specie possono divenire dominanti e tutto l’ecosistema sarà incernierato su di esse.
Dopo ogni crisi si verifica una intensa attività evoluzionistica, che va lentamente diminuendo, mano a mano che gli equilibri ecologici vengono ristabiliti, fino a spegnersi quasi del tutto. Senza cambiamenti climatici o ambientali non c'è evoluzione, o se esiste essa segue ritmi lentissimi, impercettibili, ed agisce globalmente su un intero ecosistema, non sulle sue singole componenti e cioè, sulle specie.
Ogni volta che la natura deve ristabilire l’equilibrio ecologico in un sistema sconvolto da un profondo cambiamento climatico si trova a dover lavorare su una base di partenza sempre diversa e sempre più complessa mano a mano che si succedono le ere geologiche, perché sempre più ricco è il numero degli organismi, appartenenti a classi diverse, che si sono evoluti in precedenza. Se 1e condizioni climatiche vengono mutate in maniera irreversibile, tutti questi organismi si devono riadattare alle nuove condizioni, partendo dai caratteri già acquisiti.
L'adattamento delle specie a nuove condizioni climatiche e ambientali può seguire due vie ben distinte: o mediante l’adattamento dei caratteri somatici, oppure mediante un adattamento comportamentale. Ad esempio, se in dato ambiente in cui non esistevano forti differenze climatiche stagionali, ad un certo punto si instaurano stagioni ben differenziate, con inverni rigidi ed estati calde, le specie possono reagire in due modi diversi: o sviluppando folte pellicce e riserve di grassi che le aiutino a superare l’inverno con adattamenti somatici; oppure costruendosi ripari adeguati, accumulando riserve di viveri o anche emigrando, cioè con adattamenti di comportamento che raggiungono lo stesso scopo.
Mentre però gli adattamenti somatici richiedono tempi relativamente lunghi e l’intervento di successive mutazioni casuali, quelli di comportamento possono essere pressoché immediati. Perciò le specie che li adottano hanno maggiori probabilità di sopravvivere. Quindi, mano a mano che cresce la complessità ed il numero degli organismi, viene privilegiato sempre più l’adattamento comportamentale, perché più rapido e flessibile.
Poiché quest’ultimo dipende in certa misura dalle capacità intellettive della specie, con il succedersi dei cambiamenti ambientali viene privilegiata l’intelligenza, vale a dire 1a capacità di reagire ai mutamenti mediante adattamenti di comportamento (a cui spesso segue un adattamento somatico, che ottimizzi i vantaggi del nuovo comportamento in quello specifico ambiente - così il trasferimento di scimmie antropomorfe dall’ambiente forestale a quello delle savane deve aver favorito la locomozione bipede, innescando tutta una nuova serie di adattamenti evolutivi).
In ogni caso, l’evoluzione mira esclusivamente a creare equilibri ecologici stabili e non a creare specie sempre più evolute.
Il fatto che sulla Terra abbia prodotto esseri intelligenti è dovuto unicamente alla frequenza delle catastrofi, che ricorrentemente impongono alla natura la ricostruzione di nuovi equilibri. Equilibri che ogni volta vengono ristabiliti su basi sempre più avanzate e che privilegiano inevitabilmente, per mere questioni probabilistiche, le specie con migliori capacità intellettive.
La creazione di esseri intelligenti, quindi, non è un fatto ineluttabile, intrinseco al concetto stesso di Vita ed Evoluzione, come vorrebbero molte teorie evoluzioniste, a cominciare da Darwin, ma una questione casuale, meramente probabilistica, legata soltanto al periodico variare delle condizioni ambientali. In pianeti dove le condizioni ambientali fossero perfettamente stabili, anche se favorevoli alla vita, l’evoluzione sarebbe praticamente inesistente e sarebbe del tutto improbabile, se non impossibile, il sorgere di forme di vita evolute ed intelligenti.
Siamo giunti alla conclusione che la Vita non tende per una sua intrinseca caratteristica ad una evoluzione infinita e senza limiti. Al contrario, se si eliminano i potenti freni inibitori della pressione ambientale e della selezione naturale, allora essa tende inevitabilmente a regredire, a dimenticare le conquiste effettuate e tornare alle origini. Un esempio banale è fornito dalle forme di vita che si adattano alla vita in caverna: fatalmente perdono caratteristiche di grande complessità ed elevato stadio evolutivo, come l’uso degli occhi, non più necessari alla sopravvivenza in quell’ambiente, e sviluppano nuovi adattamenti.
Se negli ultimi cento milioni di anni non fossero avvenuti una lunga serie di cambiamenti climatici, la Terra sarebbe ancora popolata dai dinosauri. Hanno resistito immutati per oltre cento milioni di anni prima di cedere il posto agli uccelli ed ai mammiferi; niente avrebbe impedito che resistessero ancora per altre centinaia.
Senza le ricorrenti “crisi” geologiche noi non esisteremmo e neppure i mammiferi, gli uccelli, i rettili, gli insetti sarebbero mai esistiti. La vita, nata negli oceani, avrebbe prima o poi colonizzato la terraferma, instaurandovi una serie di tanti ecosistemi diversi quante sono le diverse condizioni ambientali e climatiche esistenti; le specie colonizzatrici, tutte molto elementari, avrebbero occupato le nicchie ecologiche disponibili, adattandovisi perfettamente, dopodiché l’evoluzione si sarebbe praticamente fermata.
E veniamo allora al nostro grande interrogativo iniziale: c’è vita intelligente sugli altri pianeti?
Ogni stella deve possedere almeno un pianeta con condizioni ambientali simili a quelle della Terra. Molto probabilmente si tratta di pianeti esclusivamente acquei, nessuno dei quali possiede continenti emersi come quelli terrestri. Forse alcuni possiedono uno o più anelli di terre emerse all’equatore ed intorno ai poli. Moltissimi devono possedere pack di ghiaccio ai poli, colonizzabili da forme di vita aeree. Su tutti, comunque, dovrebbero esistere forme di vita.
Ma quale vita? L’esplosione di Vulcano, con la conseguenze inseminazione di detriti nel sistema solare, deve considerarsi un avvenimento eccezionale, rarissimo, se non proprio unico, in un sistema planetario. Questi pianeti, quindi, devono godere di una stabilità assoluta; nessun cambiamento climatico improvviso; soltanto mutamenti lentissimi nel corso di centinaia di milioni di anni.
Quindi, anche ammesso che la vita sia sorta in modo autonomo in essi, le spinte evolutive sono inesistenti e su di essi devono esistere soltanto forme di vita elementari scarsamente evolute ed organizzate, dotate fra l’altro di adattamenti paurosamente specializzati, che danno luogo ad ecosistemi fragilissimi, non abituati al minimo cambiamento e perciò soggetti a vere catastrofi al più piccolo urto, come sarebbe una eventuale colonizzazione da parte di specie terrestri.
Siamo quindi gli unici esseri intelligenti della Galassia? Questo non possiamo dirlo. Certo è che noi dobbiamo la nostra esistenza al fatto che tre miliardi di anni fa Vulcano è esploso; un fatto straordinario, estremamente improbabile. La galassia esiste da circa da 9 miliardi di anni e possiede almeno cento miliardi di stelle. E’ possibile, quindi, e forse anche probabile, che eventi simili a quello accaduto al nostro sistema solare siano capitati anche in altri, come magari su nessun altro.
In ogni caso sistemi solari pieni di detriti come il nostro dovrebbero essere una percentuale trascurabilissima in una galassia.
Quindi, le probabilità che l’uomo incontri altri esseri intelligenti nella nostra galassia sembrerebbero essere piuttosto scarse. Infatti, mentre la vita potrebbe essere presente in ogni sistema planetario, e quindi in tutte le miriadi di stelle che popolano l'Universo, la vita intelligente potrebbe essere una merce estremamente rara, almeno in rapporto al numero dei pianeti abitabili.
In conclusione, in base ai risultati dell’analisi effettuata fino a questo momento esisterebbe una buona probabilità che qui, in questa galassia, il nostro sia il primo ed unico sistema solare abitato da esseri intelligenti.
A meno che ….
L’uomo “sapiens sapiens” è comparso sulla terra da poco più di centomila anni e già comincia ad attrezzarsi per colonizzare lo spazio. Non abbiamo idea di quale sarà la velocità di espansione fuori dalla Terra, ma è presumibile che una volta iniziata sarà inarrestabile e che nei prossimi milioni di anni l’uomo, o specie intelligenti da lui derivate, raggiungeranno ogni angolo della Galassia. Entro cento milioni di anni è ipotizzabile che le specie umane (vedi: Le linee di sviluppo della specie umana) avranno colonizzato un grande numero di galassie.
Cento milioni di anni sembrano una cifra enorme, confrontata ai secoli con cui misuriamo il trascorrere del tempo nella nostra società odierna; ma sono ben poca cosa se li confrontiamo al passato. Sembra che la nostra galassia abbia non meno di nove miliardi di anni e le altre galassie vicine non dovrebbero essere più giovani.
Ebbene, sulla Terra la vita ha impiegato appena tre miliardi di anni per passare dalle prime forme unicellulari all’uomo; pochi milioni di anni sembrano ora sufficienti perché questa nuova specie intelligente si diffonda in una consistente fetta di Universo. Ma è mai possibile che nei nove e più miliardi di anni che hanno preceduto la comparsa dell’uomo nessuna altra specie, nella nostra galassia e in quelle vicine, abbia mai raggiunto uno sviluppo paragonabile al nostro? E’ mai possibile che l’uomo sia proprio il primo e unico essere dell'universo che sia giunto a questo stadio?
La cosa sembra del tutto inverosimile.
Ma se è già avvenuto, magari qualche miliardo di anni fa, allora la galassia dovrebbe essere interamente occupata ormai da tempo immemorabile da specie intelligenti. Perché allora non captiamo nessun segno che ci riveli la presenza di questi esseri [1]?
Ma c’è di più: noi dobbiamo la nostra esistenza al fatto che 3.900 milioni di anni fa è esploso il pianeta Vulcano, creando condizioni di instabilità permanente nel sistema solare. Sono convinto che il giorno in cui ne avremo la possibilità, sapendo che questa è la condizione per l’evoluzione della vita verso specie intelligenti, provocheremmo artificialmente l’esplosione di pianeti posti in posizione strategic, di altri sistemi solari, proprio allo scopo di offrire alla Vita questa opportunità.
Chi ci dice che questo non sia stato già realizzato da altri in passato e che l’esplosione di Vulcano non sia stato un incidente fortuito, ma un fatto voluto?
Ci sono elementi di fatto veramente sconcertanti per suffragare questa tesi. Se una ipotetica razza intelligente avesse voluto scegliere nel nostro sistema solare un pianeta da distruggere in modo tale da ottenere il massimo dei risultati avrebbe scelto proprio Vulcano. Esso infatti era in posizione strategica nel sistema solare, esattamente al centro degli altri pianeti; aveva una massa non troppo grande né troppo piccola e possedeva una nutrita schiera di satelliti; infine possedeva già alcune forme di vita elementari.
Ed in che modo questa specie intelligente avrebbe potuto far esplodere il pianeta? Sembrerebbe un’impresa titanica, ma in effetti non è cosi. Bastava dirigervi contro un satellite; ma non uno vicino perché sarebbe stata necessaria una energia enorme per imprimergli una velocità sufficientemente elevata. Doveva essere un satellite situato nel punto più lontano possibile da Vulcano in modo che venisse accelerato dalla forza gravitazionale stessa del sole; doveva quindi essere un satellite di Nettuno, il più lontano dei pianeti.
Ma come strappare il satellite dalla orbita di Nettuno e dirigerlo verso Vulcano? Semplice! Deviando la traiettoria di un grande corpo di passaggio, un “plutino”, in modo da dirigerlo verso l’orbita dei satelliti di Nettuno e usandolo come "fionda" per lanciare uno di essi verso il bersaglio prestabilito.
Con calcoli molto precisi sarebbe stato sufficiente modificare di poco, e quindi con un dispendio di energia relativamente modesto, l’orbita di Tritone, che abbiamo visto doveva essere un antico “plutino”, gemello di Plutone, e dirigerlo verso il più grande dei satelliti di Nettuno, in modo tale da passargli ad una ben precisa distanza e con un ben preciso angolo. Tritone sarebbe stato rallentato e deviato in modo tale da restare catturato da Nettuno, trasformandosi in un suo satellite. Ma il satellite preso di mira, grazie anche alla sua massa più piccola di quella di Tritone, sarebbe schizzato fuori dal sistema di Nettuno, dirigendosi verso il sole esattamente in direzione di Vulcano, e accelerando via via la sua corsa fino alla velocità desiderata, dell’ordine dei 60-80 km/sec.. Calcoli e manovre del genere sono tutt’altro che trascendentali; noi stessi ce ne siamo serviti per lanciare il Pionier ed altri satelliti artificiali negli spazi galattici, utilizzando i corpi disseminati lungo il loro percorso come altrettante “fionde”, con poco dispendio di energia. Quindi non è neppure necessario pensare a chissà quali tecnologie. E siamo sempre noi, oggi, a pensare di “deviare” eventuali asteroidi che minaccino di colpire la Terra, utilizzando i limitati mezzi a nostra disposizione.
Ebbene, proprio Nettuno è l’unico pianeta esterno ad avere un sistema di satelliti scompaginato, fra cui giganteggia quello che doveva essere un pianetino proveniente dal fascia di Kuiper. Si era attribuito questo fatto ad un incidente casuale; da un punto di vista strettamente probabilistico, però, è difficile pensare che questo avvenimento eccezionale sia dovuto al caso.
A quanto ci è dato sapere, si è verificato una sola volta in miliardi di anni, che un plutino penetrasse nel sistema satellitare di Nettuno. E quell’unica volta deve essere passato ad una precisa distanza dal maggiore dei suoi satelliti e con un preciso angolo, in modo tale da imprimergli una ben determinata velocità, lungo una traiettoria ben precisa, tale da condurlo, dopo un viaggio di miliardi di km, a centrare in pieno un ben determinato pianeta.
La probabilità che tutto ciò abbia potuto avvenire per caso in un singolo avvenimento è trascurabile. A rigor di logica dobbiamo ritenere che sia stato un avvenimento “pilotato” da esseri intelligenti dotati di una tecnologia molto avanzata. Tutto torna alla perfezione con questa ipotesi. Per quanto risulti sconvolgente, quindi, non possiamo escluderla, ma anzi dobbiamo considerarla proprio come la più probabile. Sono trascorsi almeno cinque miliardi di anni fra la nascita della Galassia e l’esplosione di Vulcano: un lasso di tempo più che sufficiente perché sia sorta una qualche specie intelligente, in un qualche sistema solare che abbia subito in modo casuale un incidente analogo al nostro. Questa specie potrebbe aver avuto l’idea, o l’impulso, di “inseminare” la galassia, creando nel maggior numero possibile di sistemi solari le condizioni idonee per l’evoluzione della vita e lo sviluppo dell’intelligenza. Quattro miliardi di fa potrebbero aver stabilito una base su Tritone, e di qui diretto le operazioni per bombardare Vulcano. Ad essi noi dovremmo la nostra esistenza.
Se le cose stessero effettivamente così, in un grandissimo numero di stelle della nostra galassia dovrebbe mancare uno dei pianeti intermedi, fatto esplodere artificialmente da questa misteriosa civiltà galattica, impiegando i satelliti del pianeta più esterno [2]. E condizioni come quelle del nostro sistema solare, anziché eccezionali, dovrebbero essere la norma. Una ipotesi che ci lascia letteralmente esterrefatti.
Eravamo partiti con l’obiettivo di rispondere alla domanda se altri occhi come i nostri scrutano le stelle per cercare di carpirne i segreti, e ci troviamo di fronte a due alternative ugualmente sconcertanti.
La prima è che noi siamo i primi ed unici esseri intelligenti della nostra galassia. La seconda è che quasi ogni stella del firmamento abbia pianeti abitati da forme di vita evolute, sorte grazie ad antichissime specie intelligenti, che hanno creato ovunque possibile le condizioni idonee alla evoluzione della vita.
La verità può stare da un capo all'altro di questi due estremi. Ma dove esattamente?
[1] A rigor di logica segnali del genere potrebbero essere numerosi e inequivocabili: sono ormai migliaia, o addirittura milioni, le segnalazioni di Oggetti Volanti non identificati, una buona percentuale dei quali ammette come unica spiegazione razionale quella della visita di esseri dotati di una tecnologia estremamente più avanzata della nostra. Ma la scienza ufficiale si ostina a negare questa possibilità e ad ignorare questo fenomeno. Insiste invece a spendere cifre colossali nel tentativo di individuare fra gli infiniti segnali radio che ci arrivano dallo spazio qualcuno che sia stato generato da una qualche civiltà aliena dotata della nostra stessa tecnologia attuale.
[2] Gli astronomi hanno scoperto una miriade di pianeti ruotanti intorno alle stelle. Ma molto significativa è la scoperta di un sistema planetario percorso da una miriade di “comete” segno evidente che vi si è verificata l’esplosione di un pianeta dotato di un vasto oceano acqueo.
vedi precedenti:
- Come nascono le galassie e le stelle
- Formazione dei pianeti e dei loro satelliti
caratteristiche fisiche e orbitali
- Esplosione del pianeta Vulcano
sue conseguenze nel sistema solare
- Come si è formata la Terra
Origine della luna e dei continenti
vedi successivi:
- Il futuro della specie umana
Prevedibili linee di evoluzione
- Possibilità di rapidi spostamenti dei poli
- La vicenda del pianeta Venere
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